Tommaso Campanella, Epilogo magno, p. 564

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non in quanto son utili quelle a sé, ma in quanto conosce
sé nel suo simile, et che, come questi è posseditore, egli
deve essere. Onde perché l’huomo, vedendosi superato, si
attrista e strugge, et se non imita chi può et sa non si serba,
fu data questa virtù che modera tal passione, né desidera
la morte di chi è suo maggiore, ma diventar qual’è colui.
Questo è segno di spirito gagliardo et nobile, che solo si
attrista per propria colpa, non d'altri o di fortuna,
non esser tale qual’è chi vede grande et potente
<et sapiente: onde riverisce questi tali, com'huomini ai
quali desidera e spera diventar eguale o simile.
Ma l’invidia
è vitio opposto, e d'animo infingardo, il quale vuole
vedere spenti coloro che di sé maggiori conosce, perché
li stanno inanti come testimonij della sua viltà e dapoccagine
infingarda, timida e crudele. Chi poi non conosce
l’altrui bene a sé convenire, ha vitio detto viltà>.
[DISCORSO TRENTESIMOTERZO]
Della generosità et suoi contrarij.
Nel viver mortale altri commandano et sono honorati,
perché hanno tante virtù quante bastano a sé et a gli altri

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