di Benedetto Clausi

1. La biografia

Sono scarsi e malcerti i dati in nostro possesso sulla biografia di Gabriele Barrio (o Barri), a causa dell’esigua documentazione e dell’assenza o quasi di indagini mirate, anche da parte degli storici locali. Numerose, per converso, le notizie prive di fondamento presenti soprattutto in rete, spesso frutto di illazioni e fraintendimenti. Opportuno e sempre valido quindi l’auspicio espresso da R. Benvenuto: «Chi sa che in un prossimo futuro [...] non si possa tracciare finalmente il medaglione del nostro Storico per il prestigioso “Dizionario biografico degli Italiani”, dove tuttora, purtroppo, non figura!» (Gabriele Barrio, frate e storico di S. Francesco di Paola, «Calabria Letteraria», 32, 1984, p. 72). La voce del Dizionario Biografico degli Italiani esiste in verità (firmata da A. Codazzi), ma è inconsistente e praticamente inutilizzabile, giacché l’autore non fa alcuno sforzo per integrare i pochi dati conosciuti né opera una lettura di prima mano degli scritti di Barrio.

Qui, pur coi limiti evidenziati e con l’esiguità dei dati certi a disposizione, attraverso la rilettura delle biografie antiche, il ricorso agli studi nel frattempo pubblicati e al materiale d’archivio e di biblioteca venuto alla luce proverò almeno a delineare qualche tratto del “medaglione” auspicato. In ogni caso fisserò le poche coordinate certe nel percorso biografico e intellettuale di Barrio, distinguendo i punti fermi dalle ipotesi. Considerazioni nuove e più organiche saranno invece possibili riguardo alle opere dello storico calabrese, a partire dal De antiquitate et situ Calabriae (= De antiquitate), oggetto negli ultimi anni di un proficuo ripensamento critico.

«Presso Mileto, a un miglio e mezzo, c’è la cittadella di Francica, con un celebre mercato e seta rinomata; mia terra natale, resa ferace da ottime acque» (G. Barrio, De antiquitate, II, p. 15)*. Francica (oggi nell’entroterra della provincia di Vibo) era oppidum della Calabria Ulteriore, appartenente alla diocesi di Mileto. Traeva il suo nome – secondo una paraetimologia proposta dall’autore in una delle postille all’edizione del 1571 della sua opera maggiore – «da Francesco oppure da Francesca, donna di questo territorio, una nutrice» (ibid.). E proprio la banalizzazione di Francicanus, diventato Franciscanus, avrebbe determinato l’indebito inserimento del Calabrese nel repertorio degli Scriptores Ordinis Minorum di Luke Wadding (1650), corretto per la prima volta da Niccolò Toppi (1678) e non da Aceti (1737), com’è stato scritto. L’ipotesi di una banalizzazione (errata lettura o correzione di un presunto refuso) è senza dubbio semplicistica e fa torto alla riconosciuta acribia di Wadding, ma al momento resta l’unica via percorribile. L’annalista irlandese potrebbe aver trovato Franciscanus in un catalogo da lui utilizzato, magari insieme con la notizia di un’edizione in 4°, romana, accresciuta, del De antiquitate, da lui riportata ma priva di fondamento. Va invece escluso che l’errore derivi dal frontespizio della Ioachimi Abbatis Vita, come pure è stato ipotizzato: è vero che l’edizione del 1600 reca Ioachimi Abbatis Vita per Gabrielem Barium Franciscanum edita, ma Wadding attribuisce l’opera a un non meglio identificato Gabriel Baronus, distinguendolo da Barrius. Quale che sia la genesi dell’errore, tale esso resta comunque: mai Barrio appartenne alla Famiglia francescana, nemmeno al Terz’Ordine, come qualcuno ha supposto.

Ignoriamo l’anno della nascita: il 1506, che spesso si ritrova, scaturisce da una testimonianza dell’autore, il quale afferma di avere ascoltato a Francica, quando era puerulus, le prediche di un dotto sacerdote, Ferdinando Ritura, suo concittadino, morto nel 1516 (De antiquitate, II, 15). Data la genericità di quel puerulus, è davvero una forzatura risalire a partire da lì alla data certa del 1506. Meglio tenersi all’indicazione generica della prima decade del secolo.

Favolosa come quella relativa a Francica l’etimologia del nome di famiglia proposta nel medesimo capitolo del De antiquitate:«La Barra familia, per dire qualcosa sul mio cognome, è antichissima e ha tratto il suo cognome da barrus, cioè “elefante”. Di questa famiglia fa menzione Cicerone nel Bruto, quando parla di T. Bettutius Barrus, di Ascoli, oratore eloquentissimo» («Barra familia, ut de cognomine meo aliquid dicam, a barro, hoc est elephanto, deducto cognomine, vetustissima est; meminit huius familiae Cicero in Bruto de T. Bettutio Barro Asculano oratore eloquentissimo loquens»: De antiquitate, II, 15, p. 159). Al di là dell’improbabile etimologia, che riflette forse il desiderio di conferire antichità e nobiltà alla famiglia, la forma del cognome cui rimanda l’aggettivo barrus (Barra familia), come pure il sostantivo barrus = elefante, fa propendere per “Barri” o “Barro” quale forma corretta del cognome in italiano (Barri si trova, ad es., nella voce ricordata del Dizionario Biografico degli Italiani, in qualche studio e in cataloghi di biblioteche). Ma Barrius, e quindi “Barrio” in italiano, ricorre in carte d’archivio coeve al Nostro e nei frontespizi delle sue opere, stampate quando egli era ancora in vita; è usato nei privilegi di Giulio III, in testa all’edizione delle opere minori del 1554, e di Pio V nell’edizione del 1571 del De antiquitate; Barrius, infine, è la scelta costante di Aceti. Probabilmente entrambe le forme del cognome sono possibili.

Nulla prova che Barrio abbia iniziato i suoi studi presso il Loco di Comerconi, a S. Costantino Calabro, dove il già ricordato Ritura aveva eretto un cenobio, nel quale viveva – a quanto leggiamo ancora in De antiquitate, II, 15 – insieme ad altri e dove «aprì una scuola, i cui corsi rese accessibili a tutto il territorio circostante» («literarum ludum aperuit, cuius schola cunctae circum regioni patuit»: p. 159). Contrariamente a quanto abbiamo visto per la città natale e per il Ratura, in questo caso Barrio non aggiunge però alcun riferimento che lo riguardi, ciò che tendenzialmente farebbe escludere che abbia frequentato quella scuola.

Non sappiamo nemmeno quando Barrio lasciò la Calabria, trasferendosi a Napoli, come i più pensano, per completare i suoi studi «sacri e profani» (Soria), prima di passare a Roma, in un anno esso stesso a noi sconosciuto. Di certo c’è che mantenne sempre legami e interessi sia con la Calabria sia con Napoli. In Calabria andò più volte negli anni, per sistemare affari di famiglia (ad es., per maritare la nipote orfana, come scrive a Sirleto) o per motivi diversi, connessi fra l’altro alle sue indagini relative alla regione. Nel 1564, ad es., è a Badolato (provincia di Catanzaro), dove Ottaviano Santacroce intavola con lui una discussione sul Pro lingua Latina e ne scrive a Guglielmo Sirleto, informandolo di avere incontrato Barrio, che «Calabriam suscepit lustrandam» e che si era appena recato ad effettuare controlli a Verdevalle, luogo d’origine di Sirleto («inspecta prius viridi [...] valle, natali solo tuo»: Vat. Lat. 6189, pt. I, f. 242; la lettera non è di Barrio, come invece si legge in F. Russo, Reg. Vat., IV, p. 371, n. 21311). Un ulteriore soggiorno in Calabria ipotizza per il 1562 Scalamandrè, sulla base dell’epistola di don Tiberio Carafa a Sirleto (G. Scalamandrè, I viaggi di Gabriele Barrio in Calabria, «Historica», 49, 1996, pp. 111-113), mentre a una causa appena vinta a Napoli, in merito a un appezzamento di terreno lì da lui posseduto accenna Barrio in un’altra lettera scritta dopo il 1565 allo stesso Sirleto (Reg. Lat. 2023, f. 29r). Una qualche relazione ebbe infine con Firenze, come fa supporre un’epistola inviata nel 1559 all’amico Pier Vettori, dalla quale si evince altresì che le condizioni economiche di Barrio non erano, a quel tempo almeno, particolarmente floride, visto che, nel chiedere all’amico di sollecitare lo stampatore ducale Lorenzo Torrentino affinché pubblicasse il suo Pro lingua Latina, e nel comunicargli l’intenzione di recarsi a Firenze per seguirne da vicino la stampa, lo prega di trovargli un posto di precettore e un alloggio, meglio presso monaci che presso laici (D. Moreni, Annali della tipografia fiorentina di Lorenzo Torrentino impressore ducale, Firenze, Francesco Daddi, 1819, pp. 71-72). Dalle poche notizie ad oggi disponibili, spalmate in un ampio arco di tempo (dal 1541 al 1578), non è possibile dedurre dati certi né sulla durata dei soggiorni a Roma o a Napoli né sulla loro cronologia. Forse bisogna pensare non tanto a lunghe tappe stabili, interrotte da viaggi più o meno frequenti, quanto piuttosto a soggiorni di minore durata, con spostamenti occasionali. Le scansioni cronologiche restano in ogni caso tutte da definire.

L’esperienza romana fu certamente la più significativa, in tale quadro, essenziale per la fissazione del profilo personale e culturale di Barrio. Non erano pochi del resto gli intellettuali calabresi che nella seconda metà del secolo XVI vivevano più o meno stabilmente a Roma, godendo della protezione di nobili famiglie o di influenti membri della curia papale. In fuga da una terra difficile e priva di istituzioni culturali di reale caratura, legati sovente da relazioni personali, essi esprimevano istanze ed esperienze culturali diverse, frutto talora di contatti con personaggi di altre regioni e di altri Paesi che a Roma pure risiedevano o da Roma transitavano, in qualche caso provenienti dal nord Europa e diretti verso l’antica Magna Grecia, alla ricerca di monete e di altre vestigia del passato. Ma Roma era anche la sede della corte papale e la capitale di una cultura controriformistica che nel ritorno alla storia trovava le ragioni per contrastare le devianze e le inquietudini dottrinali di un presente travagliato. Barrio non appare organico a nessun ambiente particolare e gli stessi legami con Sirleto, come vedremo, sembrano di natura pratica prima ancora che intellettuale o culturale. Roma gli offrì comunque la possibilità di frequentare biblioteche e di acquisire le tante conoscenze di cui, in qualsiasi modo lo si giudichi, dà prova nelle sue opere. Roma significò anche contatti con alcuni prestigiosi uomini di Chiesa, come il cardinale Iacopo Sadoleto, fine umanista (1477-1547), o il cardinale-inquisitore Giulio Antonio Santoro (1532-1602). Fuori dal mondo ecclesiastico la sola relazione che ha un sicuro rilievo, testimoniata da alcune lettere, è quella con l’umanista fiorentino Pier Vettori (1499-1585), conoscitore dei classici e infaticabile editore di testi latini e greci, fra cui la Poetica di Aristotele.

Ma, soprattutto, va ricordato l’illustre conterraneo, Guglielmo Sirleto (1514-1585), cardinale dal 1565, personaggio di altissimo rilievo culturale nella curia papale. Il legame di lunga durata con Sirleto trova conferma in alcune lettere autografe di Barrio, quella sopra ricordata scritta da Napoli e altre tre, in volgare, scritte da Roma a Pier Vettori, datate tra la fine di agosto e la fine di ottobre del 1578, conservate alla British Library (cfr. F. Solano, Contributo alla biografia di Gabriele Barrio, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania», 49, 1982, pp. 222-225). Le lettere, in particolare le tre a Vettori sull’acquisto e la circolazione di libri, fanno intravedere un qualche ruolo di Barrio nella Biblioteca Vaticana di cui Sirleto fu Bibliothecarius dal 1572 e di cui era stato Custos dal 1554. Del porporato calabrese Barrio si dichiara «agente», termine che è stato inteso come «segretario» (secondo Solano) e che potrebbe invece essere equivalente ad agens in servitiis, homme d’affaires («servitore» di Sirleto è detto in una lettera indirizzata allo stesso Cardinale: Vat. Lat. 6180, f. 96). Al di là di tutto, è facile supporre – ed è stato più che supposto, come vedremo – un ruolo del Cardinale nell’ispirazione, nella stesura e nella revisione dell’opera maggiore di Barrio, anche se in essa il suo nome appare poco e in contesti marginali. Di più sapremo se e quando saranno pubblicate le tante lettere di Sirleto ancora inedite, conservate in manoscritti soprattutto vaticani (S. Lucà, Guglielmo Sirleto e la Biblioteca Vaticana, in Storia della Biblioteca Vaticana, vol. 2: La Biblioteca Vaticana fra riforma cattolica, crescita delle collezioni e nuovo edificio, a cura di M. Ceresa, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2012, pp. 145-188).

Fra gli altri, a Roma Barrio conobbe l’aquilano Bernardino Cirillo, che nel 1556 Paolo IV nominò Commendatore dell’Ospedale romano di Santo Spirito in Sassia, carica tenuta fino alla morte (1575). Più o meno nel medesimo lasso di tempo Barrio fece parte dell’Ordine degli Ospedalieri di Santo Spirito, almeno a dar credito ad alcune carte d’archivio venute alla luce nell’ultimo quarto dello scorso secolo, una pubblicata da F. Russo nel 1979 e altre due ritrovate ed edite da R. Benvenuto nel 1984. Esse introducono significativi elementi di novità nelle conoscenze su Barrio, ma necessitano ancora di uno studio più attento e approfondito da parte degli specialisti, soprattutto per risolvere certe contraddizioni cronologiche. Contro quanti, sulla scia di Toppi e dei bibliografi settecenteschi, affermano che Barrio fu soltanto prete secolare, le carte comprovano la sua appartenenza anche al clero regolare: prima all’Ordine dei Minimi e poi a quello degli Ospedalieri di Santo Spirito. Nella più antica delle tre (Roma, 4 agosto 1541, ASR, Ospedale di Santo Spirito, filza 115, f. 243), Francesco de Landis, precettore dell’Ordine degli Ospedalieri di Santo Spirito, dà mandato di compiere l’indagine prescritta su «Gabriel de Francica, frater Ordinis Minimorum Sancti Francisci de Paula», che ha lasciato l’abito «propter austeritatem dictae religionis vel alia de causa», e ha chiesto di essere accolto negli Ospedalieri, appunto. Quando non lo sappiamo, ma l’istanza fu accolta, dato che in un altro documento del 25 settembre 1555 (ASR, Ospedale di Santo Spirito, Reg. 122, f. 159v-160r), il precettore dell’Ordine, Antonio Lomellino, concede al «Dilectus nobis in Christo frater Gabriel Barrius Francicanus Ordinis nostri Sancti Spiritus...» facoltà di testare, purché un terzo dei beni sia destinato all’ospedale di Santo Spirito in Sassia. Il passaggio sarebbe dunque avvenuto tra il 1541 e il 1555, presumibilmente in un anno più vicino alla prima che alla seconda data.

Il terzo documento (ASV, Secret. Brev. 37, ff. 466v-467v = Secret. Brev. 68, ff. 189v-193v), infine, mentre conferma l’appartenenza di Barrio ai due Ordini e al clero secolare, scompiglia il quadro cronologico. Si tratta del breve De benignitate Sedis di Gregorio XIII, emesso il 23 agosto 1576, nel quale il Pontefice si rivolge al beneficiario come a un presbitero del clero secolare («...dilecto filio Gabrieli Barrio presbytero Melitensi...»), e scrive che egli, «...olim Ordinem Minimorum Sancti Francisci de Paula professus», era poi passato «ob graves […] corporis infirmitates ad Ordinem Hospitalis nostri Sancti Spiritus in Saxia de Urbe». Ciò, per volere di Pio V («…translatum in vim literarum foelicis recordationis Pii Papae V») e quindi dopo il 1566, anno di intronizzazione di papa Ghislieri, cosa che contraddice, sic stantibus rebus, il documento che lo vuole già nell’Ordine di Santo Spirito nel 1555.

In relazione all’appartenenza ai Minimi, poi, Benvenuto ipotizza che l’ingresso nell’Ordine sia avvenuto nel 1524, tenendo conto del compimento del diciottesimo anno di età richiesto dalla Regola per l’ammissione al noviziato. Ma l’assenza di certezze sulla data di nascita rende ovviamente aleatorio quel 1524, così come resta incerta la data di uscita, motivata dalla salute malferma che gli avrebbe impedito di rispettare la rigida dieta quaresimale. Dalla prima delle tre carte, infine, nella quale è scritto che egli poteva somministrare i sacramenti, confessare e predicare, si desume che nel 1541, Barrio era sacerdote, pur appartenendo ai Minimi. Se si dà peso alle parole «dimisso habitu dictae religionis [scil. dei Minimi] ad saeculum rediit», si può pensare che il passaggio dai Minimi agli Ospedalieri sia separato da un “ritorno” temporaneo al clero secolare, lo stesso evocato nel breve di Gregorio XIII (1576), nel quale il Pontefice lo dice presbyter Melitensis.

La cronologia di Barrio è avvolta insomma da una sorta di nebbia dalla quale emergono solo le date di pubblicazione delle sue opere: il 1554 e il 1571. Al di là di queste, tutto è confuso e malcerto, compreso l’anno della morte, che sarebbe avvenuta nel 1577 secondo la maggior parte delle biografie, data contraddetta dalle tre lettere a Vettori edite dalla Solano, rispettivamente del 29 agosto, del 20 settembre e del 21 ottobre 1578. Anche sul luogo della morte manca ogni certezza, in quanto, se, come si è detto, il breve di Gregorio XIII lo dice prete in Calabria nella diocesi di appartenenza della sua Francica (se ne potrebbe dedurre, plausibilmente, che lì concluse i suoi giorni), d’altro canto sempre le lettere al Vettori sono scritte da Roma e ritraggono un Barrio in piena attività nella Biblioteca Vaticana, dove collabora con Sirleto e attende alla revisione della sua opera maggiore.

2. Un volume per tre operette

Nel 1554 vide la luce a Roma presso la tipografia di Girolama Cartolari un volume di oltre 500 pagine in 8° che riuniva tre scritti diversi di Barrio: il Pro lingua Latina, il De aeternitate urbis e il De laudibus Italiae. Girolama, moglie del celebre stampatore Baldassarre Cartolari, alla morte del marito ne aveva proseguito l’attività, lavorando in stretto contatto con la curia papale. È presso di lei che Barrio, a proprie spese, riuscì a far pubblicare i tre scritti.

Dopo il motu proprio di Giulio III, in cui sotto pena di scomunica e di una multa di 200 ducati d’oro si vieta a tipografi e librai di pubblicare quegli opuscoli senza il consenso dell’autore per i successivi cinque anni, l’edizione si apre con un’epistola prefatoria al borgognone Antoine Perrenot de Granvelle (1517-1586), latinizzato Antonius Pernottus, allora vescovo di Arras e che dopo sarebbe diventato cardinale (1561), ambasciatore a Roma e avrebbe ricoperto altri ruoli politici, fino a divenire nel 1571 vicerè di Napoli. Quando Barrio scrive l’epistola prefatoria, il Perrenot non è ancora cardinale, tuttavia, né ambasciatore, ma è già «primo consigliero dell’imperador Carlo V», ciò che potrebbe spiegare la scelta dell’autore di dedicare a lui il suo libro. Nella lettera, Barrio parla dei tre opuscoli, a partire dal Pro lingua latina, scritto in considerazione dello stato di abbandono in cui versa il latino, sempre meno utilizzato. La cosa è ancora più esecrabile se si pensa alla traduzione della sacra scrittura, la cui resa in volgare è causa di errores, filologici e dottrinali. L’allusione evidente è all’eresia luterana, che aveva fatto della traduzione della Bibbia nelle lingue volgari, scardinante dal punto di vista dottrinario e ideologico, uno dei propri cavalli di battaglia, fortemente identitario in funzione antiromana. Il dichiarato grande amore di Barrio per il latino («eximia charitas») fa tutt’uno qui con l’attacco antiereticale: è proprio il pericolo protestante a rendere necessario il ritorno alle lingue antiche da perseguire attraverso il loro insegnamento ai giovani.

Pur postulando un ritorno all’originale del testo biblico o dei Padri, al pari di Valla o di Erasmo, Barrio si muoveva in realtà in una direzione opposta a quella in passato seguita dai due umanisti, poiché attaccava il principio stesso della traduzione in volgare, considerandola pericoloso strumento di divulgazione; l’esatto opposto della visione che informava la pedagogia umanistica e le opere di Valla e di Erasmo, cui era sottesa una sentita volontà di diffondere quanto più possibile il sapere, con tutti i mezzi. La stessa idea di filologia e la prassi editoriale dei due umanisti tendevano all’individuazione delle corruttele, meccaniche e intenzionali, e alla loro correzione al fine di una migliore fruizione della Bibbia e degli scritti patristici non inficiata da elementi ad essi estranei. L’atteggiamento di Barrio invece è passatista, anche agli occhi di chi, in quei tempi, guardava con sospetto, se non con aperta ostilità, alle posizioni dei due umanisti. Da qui l’opposizione che egli incontrò – secondo quanto Barrio stesso scrive – anche tra gli amanti del latino. Ciò non lo aveva scoraggiato, però, e caparbiamente aveva pubblicato la sua opera, contro i consigli di molti, pur consapevole che tanta fatica non gli avrebbe procurato denaro, ma solo invidia e disprezzo:

«Et tot incommodis, tot vigiliis, tot laboribus, tot sudoribus, non gloriam, quam certe ambivi numquam, licet ea sit verae virtutis fructus, non quaestum, quem numquam speravi, sed ingentem mihi invidiam comparabam et contemptum».

«E con tanti disagi, tante veglie, tante fatiche, tanto sudore, non la gloria, a cui di sicuro mai ho aspirato, benché essa sia il frutto dell’autentica virtù; non il guadagno, che mai ho sperato, ma grande invidia mi procacciavo e disprezzo».

I motivi economici non dovettero essere estranei alla scelta di pubblicare insieme le tre operette, che insieme però furono probabilmente concepite e realizzate, visti i rimandi interni e la presenza di parti riprodotte dall’una all’altra. Esse sono dedicate la prima al popolo romano (S.P.Q.R.), per il quale è del tutto naturale lo studio del latino; il De aeternitate all’imperatore Carlo V (di cui è consigliere Perrenot, al quale Barrio affida il compito di consegnare il libro all’imperatore), perché in esso si tratta soprattutto dell’Impero di cui Roma fu capitale; il De laudibus, infine, al cardinale Gerolamo Varalli, nunzio apostolico presso l’imperatore, degno, come l’Italia, di essere lodato per le sue insigni virtù.

Nonostante le aspre critiche mosse soprattutto alla difesa ad oltranza del latino e ai ciechi attacchi al volgare, anche nei suoi rappresentanti più illustri, da Dante a Boccaccio e soprattutto a Petrarca e ai suoi continuatori, le tre operette furono riedite nel 1571, accresciute di alcune parti, in aedibus populi Romani, a spese del senato romano, grazie all’interessamento del patrizio Virgilio Crescenzi. Il nuovo editore fu Giuseppe de Angelis, lo stesso che, in quell’anno, pubblicava il De antiquitate. La scelta di fare uscire simultaneamente le quattro opere, presso lo stesso editore, è indizio significativo della volontà del loro autore, e forse anche dei finanziatori, di dare evidenza all’intero blocco di scritti, trasferendo anche all’esterno le loro connessioni interne.

Stavolta il volume è aperto da una lettera di Domenico Tramodiano a Barrio, piena di apprezzamenti smodati per gli opuscoli, di cui sollecita l’annunciata seconda edizione. La risposta di Barrio è un’ulteriore autodifesa: egli si mostra consapevole del fatto che tanto favore i suoi trattati avrebbero incontrato presso i «Latinae linguae studiosi» altrettanti odio e invidia avrebbe suscitato sia presso quanti il latino lo odiano sia presso quanti ne hanno una conoscenza approssimativa («non modo apud eius osores, sed iam apud eos, qui falsam sibi huius linguae scientiae persuasionem induissent»). È impossibile del resto, per i «probi atque eruditi viri», evitare i morsi rabbiosi della maldicenza di coloro che urlano come venditori ambulanti, mordendo gli altri coi loro molari («uti circumforanei rabulae alios genuino dente rodent maledictisque incessunt»), secondo il detto classico il cui senso proprio Valla spiega nelle sue Elegantiae, «idest per invidiam carpere famam alterius».

I libelli furono ristampati, quindi, e in fondo l’autore aveva ragione a volerlo fare. Ebbero infatti una certa diffusione, oltre alle critiche, e perfino qualche ammiratore blasonato, al di là del patriziato romano. Li conosceva, ad es., il bibliotecario del Cardinale Mazzarino, il raffinato bibliofilo Gabriel Naudé, nel cui Mascurat ou Jugement de tout ce qui a esté imprimé contre le cardinal Mazarin, pubblicato anonimo per la prima volta nel 1649, il personaggio di Mascurat, «l’ayant trouvé à son goust» (p. 128), acquista un esemplare dell’edizione del 1554 da un venditore del Pont-Neuf a Parigi. «La beauté des ces matieres», dice, «m’invita incontinent à le parcourir», tanto da mettersi a leggerlo strada facendo. Alcuni amici, incontrati per caso lungo il cammino, vedendo il libro nelle sue mani gli riferirono poi che ne esisteva un’edizione successiva, più ampia, notizia confermata da Naudé, aggiuntosi al gruppetto in veste di personaggio, il quale lo informò anche del fatto che lo stesso Barrio era autore di uno scritto in cinque libri, il De antiquitate, «si ben reüssi que Paulus Aemilius Sanctorius in Historia Carbonensis monasterii faisoit difficulté à croire qu’il en fust l’autheur» e ne attribuiva la paternità piuttosto «au cardinal Guillaume Sirlette». Un errore, conclude Naudin: il libro «des antiquitéz de Calabre» (p. 129) è di Barrio, come dimostrano proprio le opere “minori” nelle quali se ne parla.

Ora bersaglio di taglienti critiche, ora, più raramente, oggetto dell’apprezzamento degli studiosi («picciole ma sensate opere» le definì Soria; «picciole ma sensate […] operine», Capialbi, espressione dell’erudizione di Barrio e «del suo gusto per la lingua di Cicerone» e prova «delle doti umanistiche non comuni» dello scrittore, secondo F. Russo), mai le tre opere sono state tradotte (di ciò sarà contento il loro autore!) né sono state oggetto di studio, a parte il Pro lingua Latina. Tocca certamente agli specialisti della storia e della letteratura rinascimentale analizzare in modo adeguato, interpretare e valutare questo complesso di scritti, chiusi e difficili come il loro arcigno autore. Dal canto mio, ne presenterò, sinteticamente, i contenuti e farò qualche cenno alla loro storia editoriale, limitandomi, sul piano critico, a qualche impressione – frutto di un’assidua frequentazione dell’opera di Barrio, sia pure da “barbaro”, come lui direbbe, cioè estraneo al suo territorio peculiare –, nella piena consapevolezza che quanto scrivo ha, più che mai, carattere di assoluta provvisorietà esegetica, se così posso dire, e richiede di certo ulteriori precisazioni, integrazioni e correzioni.

3. Una battaglia di retroguardia: il Pro lingua Latina

Il libro si inserisce nella secolare battaglia sulla questione della lingua (M. Laureys, A Little Known Plea in Defense of Latin: Gabriel Barrius’ Pro Lingua Latina, «Renæssanceforum», 6, 2010, pp. 23-41), che opponeva i sostenitori del latino a quelli del volgare, quanto mai viva nel XVI secolo; un confronto acceso che volgeva ormai nettamente in favore delle lingue nazionali, ma che vedeva ampi settori preoccupati delle potenzialità eversive del volgare. Gli intellettuali più retrivi rilanciavano l’uso del latino, anche al di là delle traduzioni bibliche e della letteratura religiosa, e consideravano pericoloso l’abbattimento delle barriere socio-linguistiche, con la fruizione del sapere da parte di gruppi sociali che fino ad allora non avevano avuto accesso alla cultura scritta. Il tutto travalicava in modo evidente l’ambito linguistico per caricarsi di valenze ideologiche, sociali, politiche e dottrinarie, divenendo uno dei punti nevralgici delle tensioni che laceravano il cristianesimo occidentale.

Semplificando un quadro in realtà assai più articolato e complesso, la Chiesa di Roma ribadì col Concilio di Trento il latino come propria lingua ufficiale, cercando di arginare in tal modo la riforma luterana e di non perdere, col latino, un formidabile mezzo di controllo delle idee e degli uomini. Barrio appare allineato su tali posizioni, opponendosi di fatto al cardinale Pietro Bembo che, pur uomo di Chiesa e fine letterato anche in latino, propugnava l’uso della lingua di Dante e di Petrarca. Al contrario di Bembo e forse in sotterranea polemica con lui (S. Deodati, Gabriele Barrio e il latino, «Rivista Storica Calabrese», 23, 2002, pp. 45-70), il confronto latino/volgare assume invece in Barrio la forma di una contrapposizione irriducibile in cui il latino è identificato con la moralità, oltre che con la piena adesione alle posizioni della Chiesa di Roma, mentre al contrario, il volgare con l’immoralità e l’eresia.

L’opera è in 3 libri che occupano le pp. 1-339 dell’edizione del 1554 e le pp. 1-428 di quella del 1571, oltre tre quarti dell’intero volume. Non si tratta dunque propriamente di un opuscolo o di un’«operina», ma di uno scritto di notevole consistenza. Infondata la notizia che si legge nella Bibliotheca realis philosophica omnium materiarum rerum et titularum (I, Francofurti ad Moenum, Typis Aegidii Vogelii, 1682, p. 784), secondo cui il Pro lingua Latina sarebbe stato in due libri nell’edizione del 1554 e in tre in quella del 1571. In entrambe le edizioni invece i libri sono tre e sono privi di struttura sistematica, benché sia possibile individuare alcuni nuclei tematici essenziali: nel I libro (1554, pp. 1-96; 1571, pp. 1-130), le cause della decadenza degli studi classici, individuate (sulla scia di Cicerone e di Quintiliano) soprattutto nella scorretta educazione impartita ai fanciulli, di cui sono responsabili genitori incapaci di scegliere nutrici e precettori adeguati. La conseguenza è che i giovani si allontanano dal latino, mentre cresce in loro la preferenza per la letteratura in volgare, più facile, vivace e stimolante. L’attacco agli scrittori contemporanei che usano il volgare è a tutto campo e si configura anche in termini “sociolinguistici” con l’assimilazione dell’italiano alla lingua plebea e del latino a quella dei dotti. Nel II libro (1554, pp. 96-204; 1571, pp. 131-264) il nucleo è costituito dalla confutazione delle idee linguistiche degli scrittori che usano il volgare e da alcune considerazioni sulla storia della lingua latina, sulle origini dell’italiano e sulla natura differente del Latinus sermo (il latino stabile, codificato in regole grammaticali) e del vulgaris sermo (il latino parlato). Nel III libro, infine (1554, pp. 205-339; 1571, pp. 264-428), è la superiorità del latino a emergere come motivo dominante, insieme al reiterato attacco agli scrittori in volgare, compresi i maggiori esponenti della letteratura italiana, i Tusci, in particolare, Dante, Petrarca e Boccaccio. Insieme con loro, i letterati e i dotti contemporanei che usavano il sermo Tuscus come lingua letteraria, usurpatori del primato del latino e suoi corruttori piuttosto che continuatori del latino nel volgare come affermavano di essere. Ancora una volta posizioni opposte a quelle di Bembo, che aveva fatto del toscano la sua lingua letteraria, senza abbandonare il latino, e che considerava Petrarca e Boccaccio modelli, l’uno nella poesia l’altro nella prosa.

Le convinzioni espresse da Barrio sono schematiche e sostenute da motivazioni e argomentazioni decisamamente improprie: mentre il latino è una delle tre lingue sacre, il volgare è strumento di voluptas e corruzione, impiegato per argomenti lascivi da chi vuole irridere la Chiesa e le sue istituzioni; mentre il latino richiede studi faticosi, il volgare è “facile” e in quanto tale è fruibile da un pubblico ampio e variegato, del quale fanno parte soggetti “sensibili” e fragili, quali i giovani e le donne. Archetipo di questa pericolosa tradizione è Petrarca, letto avidamente dai giovani, corrotti e distolti in tal modo dalla pietas. Lo stesso Barrio dice di avere sperimentato il potere seduttivo e perverso delle sue opere. Lo conosce a memoria, infatti, e ne ha sorbito i dulcia venena fin da quando era puer imprudens.

Non sorprende pertanto di ritrovare una censura autografa di Barrio a Petrarca in un codice miscellaneo vaticano appartenuto a Sirleto (Vat. Lat. 6149, ff. 142r-150v; cfr. M.A. Passarelli, Petrarca scelestus auctor in una censura [non più anonima] di Gabriele Barri, «Critica del Testo», 6, 2003, pp. 177-220). M.A. Passarelli data l’autografo ai primi anni della Congregazione dell’Indice, istituita da Pio V il 14 aprile del 1571 e di cui era prefetto Sirleto. La proposta di censura, forse consegnata a Sirleto, che la conservò senza darle però seguito, non individua passi da espungere o emendare o proibire, ma raccoglie esempi dal testo petrarchesco additandoli al pubblico disprezzo, per così dire. Siamo sulla scia del Pro lingua Latina, citato del resto proprio a inizio della censura: «In tertio libro pro lingua Latina, praeter cetera, moneo et obsecro ut vulgares libelli tamquam lethifera animarum tabes e medio tollantur» (f. 142r). E «togliere di mezzo» significava per lui «igni tradere», come si legge proprio nel Pro lingua Latina, a proposito di alcuni libelli vulgares: «Qui libelli omnino quidem e medio tollendi sunt, et igni tradendi» (p. 35).

4. Roma caput mundi: il De aeternitate urbis

L’opuscolo occupa le pp. 340-404 dell’edizione del 1554 e le pp. 428-558 di quella del 1571. Nell’edizione del 1554 è dedicato a Carlo V, il che rende ragione dell’epistola prefatoria ad Antoine Perrenot, di cui s’è detto. Al vescovo di Arras, allora stretto consigliere del sovrano, Barrio invia, per il tramite del suo carissimo Antonio Agostino, due copie del libro, una riservata a lui, l’altra per l’Imperatore («ut Caesari meo nomine offeras…»). Meritano uno studio le ragioni della dedica al regnante più potente d’Europa, colui che meno di un trentennio prima aveva costretto il pontefice Clemente VII prigioniero dei Lanzichenecchi a Castel S. Angelo (1527); che era stato incoronato imperatore dallo stesso Clemente VII; i cui rapporti col papato, nonostante frequenti trattati di pace, rimanevano tesi ma che, all’interno dei propri Stati si trovava a fronteggiare, sul piano militare e politico, i principi luterani. Forse Barrio si faceva in qualche modo portavoce di istanze circolanti nell’ambiente romano, tese a conciliare in maniera meno conflittuale e più favorevole al papato i rapporti tra Chiesa e Impero. In ogni caso, nell’edizione del 1571 non compaiono più né la dedica a Carlo V né l’epistola prefatoria al Perrenot. Se è comprensibile l’omissione della prima, essendo l’imperatore morto nel 1558, molto meno lo è la sparizione di ogni accenno al prelato francese, che nel frattempo non solo era stato elevato al cardinalato, ma proprio nel 1571 era diventato viceré di Napoli.

Linea-guida dell’opuscolo è l’idea della piena corrispondenza della storia evenemenziale col disegno divino, unitamente alla certezza della missione di guida che a Roma è stata affidata da Dio. Nasce da qui la ragione dell’eternità della città, che è nella storia – l’Urbe esiste ancora... – ma le cui ragioni provvidenziali stanno fuori della storia. Si afferma poi la necessità di un potere che governi il mondo (che Barrio denomina ora imperium ora monarchia) in stretta relazione con il populus Romanus, il quale gli affida, diciamo, tale compito, come si legge nelle pagine introduttive dell’edizione del 1571, con un riferimento all’antico Impero romano che guarda in modo evidente al presente.

«Populus Romanus est imperii dominus; imperatores autem ministri, ac tantam potestatem habebant, quantam eis S.P.Q.R. dabat» (s.n.p.).

«Il popolo romano è signore dell’Impero; gli imperatori invece ministri e avevano tanto potere quanto gliene conferivano il senato e il popolo di Roma».

L’autore afferma poi con forza la superiorità dell’Urbs, «totius orbis caput et moderatrix» (p. 432). La sua natura è tutta nel suo stesso nome, Roma, la cui lettura palindroma, amor, ne dichiara la natura provvidenziale, in quanto pensata per essere «omnibus gentibus…communis patria» (ibid.). Lo stesso sito in cui è sorta l’antica Roma, la sua espansione, merito più di un’abile diplomazia che dei soldati (da qui il plutarcheo «Romani plures eunt legati, quam pugnaturi», citato a p. 435); le guerre vinte, le eroiche contese, fino a quelle recenti di cui l’autore stesso dice di avere memoria (ad es., il duello cui il cavaliere romano Antonio Nigro, militante nelle file di Carlo V, fu sfidato da un francese, uscendone vittorioso). Col favore di Dio e per i propri meriti, il popolo romano «totius orbis terrarum sibi peperit Imperium»; nessun altro avrebbe potuto aspirare a tanto. La visione universalistica che la concezione di Impero comporta si coniuga per Barrio con la supremazia politica e militare, la quale nel tempo era diventata supremazia religiosa. Dio aveva infatti stabilito che l’Impero romano dominasse il mondo affinché ovunque il messaggio cristiano potesse essere diffuso (pp. 441-442).

Ma l’Impero romano era stato costituito anche «ob communem hominum utilitatem», giacché il potere accentrato nelle mani di un sol uomo garantiva la pace evitando conflitti nella «regnantium multitudo». Del resto, dice Barrio, trovando dell’Impero una motivazione in qualche modo antropologica,

«Facilius unus uir unusque populus probus inveniri potest quam multi. Non enim omnes sed pauci virtutes amplectuntur. Quod si Princeps aut populus unus malus esse contingerit, satius tamen est unum esse malum quam multos» (p. 442).

«Si può trovare più facilmente un sol uomo e un sol popolo probo piuttosto che molti. Non tutti ma pochi, infatti, abbracciano le virtù. Ché, se è accaduto che un principe o un solo popolo fosse malvagio, tuttavia è più conveniente che malvagio sia uno solo piuttosto che molti».

Fra i popoli e le città del mondo solo la stirpe latina e la città di Roma Dio volle ab aeterno; in essa hanno «eterna sede» l’Impero, la Chiesa, la fede e la lingua, il latino, anch’essa eterna. I Romani eccellono in tutte le virtù: prudenza, giustizia, temperanza, forza, fede, probità, benevolenza, umanità, clemenza, gratitudine, costanza, magnanimità, modestia, serietà, munificenza, religiosità, virtù che si manifestano nel buon governo di cui Roma dette prova, con la sua capacità di coniugare, in pace e in guerra, l’umanità con la giustizia e la rettitudine. Nulla sfugge alla lettura ideale che Barrio fa della storia romana: le guerre condotte da Roma sono sempre “giuste” e i comportamenti verso i nemici vinti improntati alla tolleranza e al rispetto delle loro istituzioni; non fanno strage dei vinti, iure belli, ma li catturano vivi, rendendoli schiavi. Proteggono gli alleati; reintegrano sovrani ingiustamente scacciati dal regno dai loro popoli; dirimono liti; difendono le province dalle incursioni straniere.

Non manca il dato concreto, cui Barrio è estremamente sensibile: il sistema viario romano, ad es., o i porti e le rotte marittime, tutto pensato e realizzato per la sicurezza e la mobilità di quanti percorrevano il territorio e il mare dell’Impero, bonificati da briganti e pirati che li infestavano; oppure il sistema monetario o i monumenti. Ma la grandezza di Roma sta soprattutto nella missione civilizzatrice di cui si fece carico. Furono i Romani, infatti, che insegnarono a vivere in modo umano e civile a coloro che prima vivevano come bestie; proibirono i sacrifici umani; repressero le abitudini immorali di alcuni popoli, come l’incesto, la promiscuità sessuale, la nudità, il comunismo familiare, l’assenza del comune senso del pudore, l’omosessualità, la depilazione dei corpi dei giovinetti (nello specifico il popolo attaccato in questa sede sono gli Etruschi, antenati di quei Tusci che con pari violenza e su un altro piano l’autore attacca nel Pro lingua latina, facendo riferimento, anche qui alla contemporaneità e alle dispute linguistiche in relazione al latino). Roma è, insomma, «optimorum morum magistra» (p. 457) e le virtutes dei Romani sono praeclarae. Per questo, essi dominano sugli altri popoli, perché ottemperano alla legge di natura per la quale «deterioribus semper imperare meliores» (p. 462); per questo Paolo si rimise alla legislazione romana e non a quella degli Ebrei, che pure si dicevano popolo di Dio.

Simili ragioni (che stancamente si trascinano per pagine e pagine, in una scrittura sciatta, appesantita da ripetizioni e dalla tendenza all’accumulo) fanno grande ed eterna Roma, a cui tutto deve il mondo, tutto in special modo deve l’Italia. La celebrazione dell’eternità dell’Urbe diventa così lode della sua grandezza e della sua possanza, cosa che collega, concettualmente e formalmente, quest’opuscolo al successivo, dedicato alle lodi dell’Italia.

5. L’arte di compilare: il De laudibus Italiae

Il libretto, il più breve degli scritti di Barrio, occupa le pp. 405-431 dell’edizione del 1554 e le pp. 558-595 di quella del 1571, offerta al cardinale Girolamo Verallo (1497-1555), arcivescovo metropolita di Rossano, nunzio apostolico presso le corti europee, membro del Sant’Uffizio; l’altra al patrizio romano Carlo Muti, un uomo alla cui famiglia Barrio era legato e che rapporti aveva con la Calabria, essendo stato lo zio di Carlo, Tiberio, vescovo di Locri.

Il De laudibus è l’unica delle tre operette a essere stata stampata a parte, compresa, nella forma del 1571, nel I volume del Thesaurus di Graevius e Burmann (1704 e 1725), il secondo dei quali rileva come essa sia un vero e proprio centone di scritti di autori antichi («totus fere est conflatus ex verbis antiquorum»).

Nella lettera a Muti, Barrio scrive che a conclusione del percorso le cui tappe precedenti sono state la difesa della lingua latina e lo scritto sull’eternità di Roma ha deciso di raccogliere («colligere») le lodi dell’Italia contenute nelle opere di scrittori greci e latini e di inserirle («congerere») in un unico volume, impresa quasi impossibile per la massa di testi da compilare, espressione dell’inesauribile eccellenza dell’Italia. I due verbi connotano il De laudibus, distinguendolo dagli altri due scritti. Ed effettivamente esso è una compilazione, frutto del lavoro di excerptio, di collatio e di compilatio, lavoro faticoso che richiede grande erudizione e capacità di scegliere i passi da giustapporre nel nuovo contesto del florilegio tematico. Barrio è convinto di possedere diligenza e acume, ed è sicuro dell’impatto che la sua compilazione avrà presso gli eruditi del tempo, benché non sia questa l’opera per la quale ritiene di potersi porre come esempio per altri, ma il De antiquitate, meritevole di essere imitato da tutti gli scrittori italiani, esortati qui a scrivere ciascuno della propria regione: «Quare peroptime agerent Itali, si me, qui res Calabras scripsi, imitantes, singuli suas regiones accurate perscribant». Un simile richiamo è costante in Barrio (vedi infra) e dà il senso dell’operazione da lui compiuta col De antiquitate e della relazione dialettica, essenziale benché non sempre esplicita, fra la dimensione regionale (le res Calabrae) e un insieme più ampio quale l’Italia. Barrio ha consapevolezza di dar forma soltanto a una tessera del mosaico, il cui insieme dovrebbe essere il frutto dell’assemblaggio delle altre analoghe tessere, proprio come nel lavoro di compilazione compiuto col De laudibus. Nel contempo, per tale via, è confermata la natura di laudatio del De antiquitate.

È un’Italia “latina” quella di cui Barrio raccoglie le lodi e che magnifica quale genitrice di eroi santi e navigatori («...cum Italia et rerum omnium ac clarorum ingeniorum ac virorum fortium, tum in omni scientiarum genere eruditorum virorum et utriusque sexus sanctorum hominum parens, bonarum litterarum magistra: pp. 558-559). Per la sua degna celebrazione solo il latino è adeguato e il compilatore costruisce ad hoc con i vari excerpta un testo che si colloca nel solco della tradizione delle laudes Italiae, inaugurata da Varrone nel I libro del De re rustica e portata a perfezione da Virgilio nel II libro delle Georgiche (vv. 136-176). In tal modo la sua Italia è nozione meramente retorica e letteraria, al pari dell’Europa di cui è «regio». A conferirle concretezza è solo il sito geografico, i suoi confini presentati già ad apertura del testo, prima che il lettore anneghi nel mare dei consueti luoghi comuni sulla feracità dei luoghi, la salubrità del clima, le condizioni di vita ideali che indussero nel tempo popoli diversi a lasciare le rispettive patrie e a stabilirsi nelle sue contrade. E poi, ancora: gli uomini eccelsi, per ingegno, forza, saldezza d’animo, probità dei costumi, ma soprattutto, nell’ottica di Barrio, per l’uso della lingua latina – elemento di raccordo col Pro lingua Latina – e per le vette altissime raggiunte dalla produzione letteraria, in prosa e in versi, per cui l’Italia, meritatamente può essere detta «omnium gentium magistra» (p. 560).

Il suo primato fra i popoli ha ragioni provvidenziali, avendola Dio scelta come sede della Chiesa terrena e celeste; in eterno, come eterna è la Roma del secondo opuscolo, cui l’autore stesso allude («ut alias dixi»: p. 561) nel passo in cui fa riferimento alle lotte dell’Impero romano contro i barbari, sconfitti «parvo aut nullo prope negotio» (p. 561) proprio grazie alla protezione divina. Una conferma della stretta unità delle diverse opere, concepite insieme e per le quali Barrio immaginava una lettura “unitaria”, favorendola attraverso richiami interni.

Com’era stato annunciato nel proemio, il De laudibus rivela presto la sua natura compilativa, che si traduce nel “copia e incolla” di tantissimi passi di autori greci e latini: da Omero a Sofocle, da Polibio a Dionigi di Alicarnasso, da Strabone ad Ateneo, tra i greci; e da Varrone a Virgilio, da Cesare a Livio, da Vitruvio a Plinio tra i latini, per ricordarne solo alcuni. Essi sono organizzati secondo un criterio tematico e non cronologico, inframmezzati da brandelli di discorso che invece appartengono a Barrio, essi stessi costruiti sulla base di testimonia antichi, talora soltanto sintetizzati, oltre che sulla base sua esperienza personale.

La doppia forma comunicativa – estratti citati alla lettera e brevi sintesi – costruisce un’Italia ideale, come si diceva: il luogo in cui ogni cosa o essere vivente raggiunge l’eccellenza; il giardino ornato di piante ed erbe di ogni specie, le cui viscere producono metalli e pietre preziose, ecc. Un non-luogo più che un locus amoenus, reificato solo, ripeto, dal territorio e dalle città, identificati dalla posizione geografica o dall’indicazione delle distanze (la laudatio assume in questo caso forma di itinerarium, come nel De antiquitate). Solo in questi casi si ha l’impressione del concreto, di una realtà mossa e variegata che trae linfa certo dalla letteratura e di questa si nutre, ma con concreti ancoraggi alla realtà dei prodotti del territorio, degli animali che vi si allevano o che popolano i boschi o ad altre peculiarità.

Non mancano ancora una volta inserti, in forma per lo più di digressione, che riportano all’universo ideologico dell’autore, di cui ripropongono il volto peggiore, attraverso la sua visione aristocratica ed elitaria della cultura, ma anche attraverso la sua chiusura preconcetta al nuovo e a tutto ciò, o a tutti coloro che dal suo punto di vista si pongono come “esterni”, quali sono i barbari sopra evocati, che riappaiono qualche pagina dopo nella veste di portatori di malattie come la sifilide. Torna altresì quella che appare ben più che una preoccupazione ideologica, ossia l’ostilità di Barrio nei confronti del volgare. Riferendosi a Plinio così scrive, infatti:

«Quantum credis et ipse, et Maro, et Cato aliique Itali scriptores, Romanique proceres, quererentur modo si Italiam suam quam tantopere, ut par fuit, et amaverunt et laudaverunt et ornaverunt, a temerariis plebeis scriptoribus et adulatione et sermone deformatam, Italosque suos vel ingenuos et optimates, Latinae linguae maiestate deserta, in vilissimis vulgaribus libellis omne tempus nequicquam terentes vitamque inertem agentes viderint? Qui (indignum), nullo veri adhibito iudicio, unius, nescio cuius, vani, paludosi, crassi, et maligni ingenii, in quo non doctrina, sed doctrinae nomen erat, fallaciis capti, non rationi sed evidenter falsae et captiosae opinioni, veluti divino oraculo, fidem adhibent, et vanum ac caecum ducem sequentes in vanitatis et ignorantiae tenebris versantur. Non perpendentes quam malum sit et turpe, ut probe Cicero scribit, et praesertim ingenuis et optimatibus, nescire, ignorare et decipi ac vana et vilia sectari. Et praeter haec vulgares scriptores ac lectores non modico dedecori et ignominiae sunt Italiae, cum provinciales gravia sectantes cupide et intentissime in Latinam et Graecam linguam incumbant. Aurelius Ruffinus, homo Romanus, Caroli V miles, in Germania a Philippo, Cattorum, id est Hassorum principe, in bello captus, ob Romani nominis reverentiam ab eo in mensam honorifice exceptus est. At cum inter edendum Philippus ipsum Latine interpellaret, et ille se Latine loqui nescire diceret, et ab eo et ab omnibus, quod sua patria lingua loqui nescisset, delusus, et quidem iure, fuit eisque contemptui habitus» (pp. 579-580).

«Quanto credi che si lamenterebbero ora lui stesso, e Virgilio e Catone e gli altri scrittori d’Italia, e le eccellenze romane, se solo vedessero la loro Italia, che così grandemente, come era giusto, amarono, lodarono e ornarono, sfigurata, per lo spirito di adulazione e per il linguaggio, da temerari scrittori plebei? e vedessero i loro Itali, perfino i nobili e gli ottimati, abbandonata la maestà della lingua latina, perdere inutilmente tutto il loro tempo in spregevoli libretti in volgare e condurre una vita inoperosa? Costoro (che vergogna!), senza ricorrere a nessun discernimento del vero, catturati dalle menzogne di un solo ingegno, non so chi, vuoto, fangoso, rozzo e maligno, nel quale non era sapere ma parvenza di sapere, prestano fede come a un oracolo divino non alla ragione ma a un’opinione evidentemente falsa e capziosa, e mettendosi al seguito di un condottiero vuoto e cieco si voltano e rivoltano nelle tenebre della vanità e dell’ignoranza. Senza soppesare quanto sia malvagio e turpe, come giustamente scrive Cicerone, e soprattutto per i nobili e per gli ottimati, non sapere, ignorare, essere ingannati e andare dietro a cose vane e di poco conto. E oltre a ciò, quanti scrivono in volgare e quanti lo leggono sono di non poca vergogna e ignominia per l’Italia, mentre gli stranieri, andando dietro alle cose serie, con passione ed enorme impegno si gettano sul latino e sul greco. Aurelio Ruffino, di Roma, soldato di Carlo V, essendo stato catturato in guerra, in Germania, da Filippo, principe dei Catti, cioè degli Assi, fu da lui accolto a tavola con onore, per rispetto del nome romano. Mentre mangiavano, però, rivolgendosi a lui Filippo in latino e lui dicendo che non sapeva parlare latino, fu preso in giro, e ben a ragione, da quello e da tutti, per il fatto non sapeva parlare la sua lingua nativa, e fu disprezzato da loro».

Retorica come l’impianto dell’intero scritto l’esortazione finale a non dimenticare che l’Italia, oggetto delle lodi raccolte, è stata dotata dei beni che possiede dalla natura e preordinata dal volere divino e dalla virtus romana al dominio sui popoli. Gli Italiani sono stati creati per comandare gloriosamente sui barbari non per asservirsi ad essi: «Barbaris gloriose imperare non turpiter servire soliti sint» (p. 592). È l’altra faccia, la più tetra, del classicismo di Barrio.

6. Una certa idea di Calabria: il De antiquitate et situ Calabriae

La prima attestazione della genesi del De antiquitate si ritrova nella ricordata lettera di dedica delle tre operette al vescovo Perrenot (1554):

«Librum vero, quem De antiquitate et situ Calabriae conscripsi, si mihi certi cuiuspiam moecenatis non defuerit adiumentum, primo quoque tempore in lucem proferam. Nam necesse est ut me in Calabriam, quam et rebus omnibus et viris clarissimam Italiae partem pluribus nominibus merito laudandam esse censui, conferam, ut loca quaedam, quorum nomina immutata sunt, vestigem ne forte eosdem in errores incidam in quos incidere nonnulli recentiores rerum scriptores, utque regionem perlustrem cum vel singula seriatim ac minutatim scribam eiusque formam impressurus sim» (s.n.p.).

«Il libro poi che ho scritto, Antichità e sito della Calabria, lo pubblicherò al più presto, se non mi mancherà l’aiuto di un qualche affidabile mecenate. Infatti bisogna che io mi rechi in Calabria – che ho ritenuto degna di essere meritatamente lodata con più titoli come la più splendida parte d’Italia, sia per tutte le sue risorse sia per i suoi figli –, per seguire le tracce di alcuni luoghi i cui nomi sono stati modificati, in modo da non cadere nei medesimi errori in cui sono caduti taluni storici moderni, e per percorrere la regione, giacché sto scrivendo anche delle più piccole cose, in sequenza e passo passo, e ho intenzione di stampare la sua immagine».

Nel 1554, dunque 17 anni prima che vedesse la luce, il De antiquitate era stato già scritto («conscripsi»); mancava solo chi finanziasse un viaggio (evidentemente Barrio non stava in Calabria), opportuno per verificare alcuni dettagli e per effettuare i controlli indispensabili, soprattutto a causa dei mutamenti dei nomi delle località antiche. Il testo dà anche un’altra notizia, fin qui non rilevata: assieme al libro, e probabilmente in funzione di questo, sembrerebbe che Barrio avesse in mente di approntare una mappa topografica della regione, una forma Calabriae. Nel concreto non se ne ha traccia e non deve averla mai realizzata, ma al De antiquitate attinse a piene mani il cosentino Prospero Parisio, che nel 1589 una carta del genere, la più antica speciale della Calabria pervenutaci, realizzò effettivamente e fece incidere in rame da Natale Bonifacio. Parisio dava esito concreto, in tal modo, a una relazione fra testo e immagine che comunque Barrio sentiva con forza e che molte volte presuppone nella sua stessa opera.

Finalmente, dopo lunga gestazione, il De antiquitate vide la luce a Roma nel 1571. A stamparlo, in 8°, fu Giuseppe de Angelis, un tipografo originario di Spilimbergo che operò con successo a Roma fra 1568 e il 1579, per alcuni anni in collegamento con la celebre stamperia del popolo romano voluta da Pio IV. La prima parte del titolo, De antiquitate..., collega il libro per un verso a un ramo definito della tradizione greco-romana (Varrone, ad es., Dionigi di Alicarnasso, o, in ambito giudaico, Flavio Giuseppe) per un altro all’antiquaria umanistica e rinascimentale. In tal senso l’opera nasce già in qualche modo datata, nel momento in cui ci si cominciava a interrogare sulla validità del paradigma antiquario e sullo stesso principio di auctoritas delle fonti letterarie. La storia di Barrio è antiquitas, non historia; non sono le res gestae come per Fazello, il cui De rebus Siculis era stato pubblicato nel 1558, o per Maurolico, il cui Sicanicarum rerum compendium data al 1562, quel Fazello e quel Maurolico che non a caso sono tra i bersagli polemici preferiti del Nostro. L’accusa che egli muove frequentemente ad entrambi, di commettere errori sui dati e di impadronirsi della memoria storica calabrese a beneficio della Sicilia, nasconde in realtà una presa di distanza proprio sul piano del metodo storiografico, come lascia intravedere, fra i tanti, un passo in cui si fa riferimento a Maurolico:

«Franciscus Maurolycus, homo Siculus, neotericus scriptor atqui bonarum litterarum nescius, Sicula vanitate ac crassitudine delibutus, infans et ieiunus, Arcadium Imperatorem Rhegium nobilissimam urbem Messenae civitati assignasse peculium nulla etiam proposita causa temere nugatur et Miletensem et Marcensem Calabriae episcopatus Messenio Archiepiscopo olim subiectos fuisse blaterat. Apertissimum et vanissimum commentum Siculae genti peculiare» (s.n.p.).

«Francesco Maurolico, siciliano, scrittore di quelli nuovi ma privo di cultura letteraria, impregnato di vanità e rozzezza siciliana, incapace ancora di parlare e digiuno di sapere, con leggerezza va celiando, senza mettere in campo alcuna ragione, che l’imperatore Arcadio ha assegnato la nobilissima città di Reggio come rendita agli abitanti di Messina e blatera che gli episcopati calabresi di Mileto e di San Marco un tempo erano soggetti all’arcivescovo di Messina. Una menzogna assolutamente senza ritegno e priva di fondamento, tipica della gente di Sicilia».

Vanità, rozzezza, inaffidabilità, inclinazione alla menzogna connotano non solo il personaggio, ma anche la sua opzione storiografica, come s’è detto. Un approccio che Barrio sente come disonestamente ideologico, privo di adeguata erudizione. Ma de antiquitate è prima di tutto una determinazione cronologica, che rimanda alla fase più antica della storia regionale, ricostruita per il tramite dei libri – e sono davvero tanti quelli citati! – e della cultura materiale, come non poteva non essere nell’ottica antiquaria fatta propria dallo scrittore. In tal senso, il libro di Barrio contiene un ricco catalogo di antichità della Calabria, epigrafi, monete, opere d’arte, oggetti d’uso, ecc., repertoriate in relazione al territorio.

E proprio al territorio rimanda la seconda parte del titolo, ...de situ, che pure ha dietro un preciso modello classico (si pensi al De origine et situ Germanorum di Tacito – la cui effettiva presenza nella nostra opera meriterebbe di essere verificata e valutata – o ai De situ orbis di Strabone, di Pomponio Mela e di Solino…) e che ritroviamo in altre compilazioni del secolo XVI, come il De situ insulae Siciliae di Claudio Mario Arezzo (1537) o il De situ Iapigiae di Antonio De Ferrariis Galateo (1553, ma era stato scritto fra il 1510 e il 1511). Situs rende in qualche modo la nostra idea di “territorio”, nella quale lo spazio geografico, i loca, si aprono alla storia, che vi lascia le sue tracce sovrapposte secondo la consueta immagine del palinsesto. Ma il territorio è anche lo spazio per un’antropologia priva ovviamente di qualsiasi statuto epistemologico. Analoga per certi versi a quella tacitiana, essa si esprime in una “curiosità” rivolta a taluni aspetti della Calabria contemporanea, da certe realtà economiche e sociali, al dialetto, dalle usanze ai riti religiosi.

All’intersezione fra storia e geografia sta pure, per nulla secondaria, la dimensione religiosa, anzi il cristianesimo, parte integrante per Barrio dell’identità storica della Calabria (definita dal suo essere cristiana e cattolica tanto quanto dal suo essere magnogreca) e insieme radicata nel territorio, appunto: attraverso i santi uomini nati o vissuti nella regione, che come l’Egitto fu patria di monaci (cfr. II, 17); attraverso le reliquie, conservate in varie località; attraverso i santuari; attraverso le tradizioni, gli usi e i costumi legati al culto dei santi o della Madonna. Né manca la Chiesa-istituzione, rappresentata soprattutto dalla storia e dalla geografia delle diocesi oppure dalla storia e dalla geografia delle mitiche origini cristiane della regione (importanti, a riguardo, i capp. 17 e 18 del I libro), le quali convivono con i miti classici senza tensioni interne, nel quadro costruito, a partire dal titolo, da questo erudito di spirito cristiano e infarcito di letteratura classica. Tutto nel segno della tradizione, anzi della conservazione.

Il volume stampato nel 1571 si apre col motu proprio di Pio V, che tutela i diritti d’autore di Barrio, cui segue il prooemium, in forma di dedica a Niccolò Bernardino Sanseverino (1541-1606), V principe di Bisignano, che forse sovvenzionò l’impresa editoriale. Al di là delle espressioni di maniera, la dedica contiene informazioni utili sulla genesi, la natura e le finalità dell’opera, messa dall’Autore in relazione agli scritti editi nel 1554:

«...sedit animo ultro munia obire, ut totius Italiae laudes ex pluribus et Graecis et Latinis auctoribus excerpens librum de eius laudibus, necnon pro lingua Latina et de Urbis aeternitate, scriberem. Nimirum Latinae linguae honos, et Urbis laus ad Italiae gloriam attinet, quod Latium, a quo illa dicta, et in quo Urbs est, in Italia sit. Inde vero Calabriae laudes, quae itidem ad Italiae gloriam pertinent, colligere et librum de ipsius antiquitate et situ scribere mihi certum fuit: quo patria charitate devinctus pensum meum pro virili parte solvens meritis eam illustrarem laudibus, qui etiam eam per se primum ex nomine ipso inde vero postea a plerisque gravibus auctoribus illustratam ostenderem. Ceterum nequaquam legentes id fugere velim, quod movit quoque me scilicet, ut Pro lingua Latina et De aeternitate Urbis et De Italiae laudibus, ac De antiquitate et situ Calabriae, communis omnium studiosorum utilitas et delectatio, non tantum patriae charitas et amor» (p. 1).

«…decisi di andare oltre il mio dovere, così da scrivere, traendo le lodi dell’intera Italia da più autori greci e latini, un libro De laudibus Italiae, oltre a un Pro lingua Latina e a un De Urbis aeternitate. Ovviamente, l’onore della lingua latina e la lode dell’Urbe pertengono alla gloria dell’Italia, giacché sta in Italia il Lazio, da cui prende il nome quella lingua, e in cui si trova l’Urbe. Da lì invero mi risolsi a raccogliere le lodi della Calabria, che parimenti pertengono alla gloria dell’Italia, e a scrivere un libro De antiquitate et situ Calabriae. Affinché, legato dal vincolo dell’amor patrio, adempiendo per quanto possibile al mio dovere, io le dessi lustro con le lodi dovute o meglio per mostrarla illustrata dapprima in sé, dal suo stesso nome, e poi da parecchi autorevoli autori. Peraltro vorrei che non sfuggisse affatto ai lettori che mi mossero anche – a scrivere, intendo, il Pro lingua Latina, il De aeternitate Urbis, il De Italiae laudibus, e il De antiquitate et situ Calabriae – la comune utilità e il piacere di tutti gli uomini di cultura, non soltanto la carità e l’amor di patria».

Si falsa la percezione dell’opera, in definitiva, se la si isola dalle tre precedenti: il De antiquitate completa una costruzione di cui gli altri opuscoli sono premessa e parte integrante, almeno nelle intenzioni dell’autore, confermate significativamente in un passo del De laudibus Italiae aggiunto nell’edizione del 1571:

«Curae esse debeat singularum Italiae regionum primatibus ac potentibus conterraneos suos eruditos viros deligere, qui regionem quisque suam accurate et fideliter scribant et quae a vetustibus auctoribus dicta sint et quae regio gignat perscrutantes. Sicut de Calabria feci, ut inde unum totius Italiae volumen conficiatur. Nam haud dubium quidem multa memoratu digna gignit Italia priscis auctoribus ignota» (p. 590).

«A prìncipi e potentati delle singole regioni d’Italia dovrebbe stare a cuore di scegliere uomini di cultura conterranei che descrivano in modo accurato e fedele ciascuno la propria regione, ricercando con attenzione sia ciò che hanno detto gli autori antichi sia quel che produce la regione. Così come io ho fatto per la Calabria, in modo che a partire da qui si confezioni un solo volume di tutta l’Italia. Non c’è proprio nessun dubbio infatti che l’Italia genera molte cose degne di memoria ignote agli antichi autori».

E l’auspicio è ribadito nella pagina conclusiva del De antiquitate, dove Barrio si augura che gli altri Itali siano spinti a imitarlo e a «scrivere con diligenza e accuratezza delle loro regioni» (V, 20).

Il dichiarato amor patrio è riferito a un insieme che non si identifica esclusivamente con la regione di origine. La Calabria per Barrio è parte dell’Italia, così come il Lazio nel quale sta la città di Roma. Non si intende correttamente il “regionalismo” di Barrio fuori dall’implicita dialettica con l’Italia e con Roma, con la quale la Calabria ha un legame privilegiato che egli non manca di ribadire tutte le volte che può e che assume valenza in qualche modo istituzionale a proposito del Cristianesimo: «Romanis exceptis» (I, 17, p. 35), la Calabria fu la prima regione ad accogliere la religione di Cristo, e ciò ovviamente agli albori, secondo il comune schema dell’origine apostolica delle diocesi. Pure in questo caso Barrio è “legittimista” e nei difficili tempi post-tridentini, quando la stessa Calabria, nei Valdesi di Guardia, era stata infettata dall’eresia luterana (cfr. II, 5), ribadisce il legame privilegiato con la Chiesa romana, anche attraverso la presenza nello spazio, geografico e storico, della sua terra dei due apostoli-simbolo: Paolo a Sud e Pietro a Nord. Legame e insieme sottomissione alla Chiesa di Roma, al suo capo e alla sua dottrina. Lo storico non entra nel merito delle questioni dottrinali; gli basta definire il protocollo istituzionale e collocare la fedeltà a Roma sul piano della diacronia: numquam..., collegandola all’evangelizzazione paolina:

«Hinc Rheginus Archiepiscopus in generalibus Conciliis post Romanum pontificem sive eius legatum semper primum locum obtinuit. Quae regio tanti Apostoli discipula, nunquam a sui magistri doctrina ac fide descivit, numquam haeresi infecta est» (I, 17, p. 36: il corsivo è stato aggiunto nel 1571, dunque dopo la strage dei Valdesi del 1561).

«Perciò l’arcivescovo di Reggio, nei concili generali, ha sempre occupato il primo posto dopo il pontefice di Roma o il suo legato. Questa regione, discepola di un sì grande apostolo [scil. Paolo], mai si è scostata dalla dottrina e dalla fede del suo maestro, mai è stata infettata dall’eresia».

Intento dello scrittore è dunque attribuire le giuste lodi alla Calabria, dopo averlo fatto per la lingua latina, la città di Roma, l’Italia. Non si tratta di espressioni generiche o di una semplice volontà apologetica, frutto dell’amor di patria. Da erudito qual era, Barrio sapeva bene che la laus di una città, di un paese, di un territorio, rientra nei confini del discorso epidittico, da cui col tempo si era resa autonoma dando vita a un genere o sottogenere letterario, che godette di fortuna continua dall’antichità classica. Esso era ancora vitale nell’umanesimo e nel rinascimento, quando il ricorso a questa forma antica di discorso assunse più spiccate valenze “civiche”, contribuendo a rafforzare l’identità delle comunità locali. Il più delle volte pertanto la laus urbis è laus patriae, ciò che non annulla la dimensione retorica, ma la canalizza, subordinandola alla costruzione identitaria; e se al posto dell’urbs si pone una “regione” lo schema non cambia. È questo il terreno di coltura formale di un’opera come il De antiquitate: la tradizione epidittica riferita alle città, già estesa, anche prima di Barrio, a territori più ampi, regionali o nazionali, si pensi solo, per la Calabria, all’oratio De laudibus Calabriae in Lelium et Angelum aliosque Calabriae maledicentes, di Aurelio Gauderino (edita postuma nel 1524) o al De situ, laudibusque Calabriae, deque Arochae nymphae methamorphosi di Francesco Grano (1570?). Lodi come espressione dell’amor civicus, cui non può certo sottrarsi la parte culturalmente più elevata della popolazione.

Si conferma anche per questa via che agli occhi del suo autore il De antiquitate non era storia neutra, e neppure oggettiva descrizione, della Calabria. Anzi, è un discorso decisamente “di parte”, quello che Barrio annuncia al lettore attraverso la lettera al Sanseverino. L’enfasi, l’iperbole, le amplificazioni, il pathos, che tanto infastidiscono gli esegeti dei nostri giorni, erano i tratti espressivi propri della laudatio. Lo stesso vale per il ricco arsenale di tòpoi, da quello ripetuto all’infinito, della feracità senza paragoni della regione o delle sue località. Esso è presente in tutta la variegata produzione della storiografia locale dei secoli XVI e XVII, non solo calabrese: un vero e proprio codice convenzionale con alto tasso di formalizzazione retorica, che trasfigura la realtà e ne nasconde i segni tra le maglie apparentemente uniformi della lode e dell’enfasi. Non si tratta tuttavia di mere costruzioni fittive, miti ingannevoli, illusioni ottiche tese a distrarre dalla realtà di un presente non accettato. L’iperbole, come scrivevano i retori classici, aumenta o diminuisce le realtà, allo scopo non di ingannare ma di condurre al cuore della verità. Che ovviamente è quella che l’autore vede e vuole a sua volta mostrare ai propri lettori. Di ciò bisogna tener conto quando si parla, ad es., del mito di una Calabria felix del passato contrapposta alla decadenza del presente o quando si valutano i proclami di eccellenza rispetto ad altre regioni e città: non è possibile liquidarli come “letterari” e “patriottici” o, per altri versi, considerarli tout court espressione del reale. Si tratta di individuare volta a volta il significato attuale che quelle “macchine del senso” costruiscono e veicolano, non di snaturarne gli intenti e le funzioni.

Il De antiquitate è diviso in cinque libri, il primo dei quali è una sorta di archaiologia che fa da premessa all’opera, presentandone le coordinate essenziali: i tempi mitici delle origini della Calabria, la sua collocazione geografica, i tratti identitari. C’è spazio anche per un breve compendio storico, dai Greci all’alto medioevo e per una ricostruzione delle origini e dello sviluppo del cristianesimo nella regione. Il libro si conclude con un cenno alla lingua, ai prodotti meravigliosi della regione, agli usi delle donne calabresi, e col celeberrimo Calabriae planctus (I, 22).

Definiti confini e posizione geografica, Barrio dichiara subito l’antichità della sua terra, nel segno della tradizione noachica: «Est scilicet Calabria omnium Italiae regionum vetustissima a diluvio quidam inhabitari coepta» (I, 1, p. 3). Primo suo abitatore fu uno dei discendenti di Noè, Askenaz, cui è attribuita la fondazione di Reggio: una di quelle «genealogie incredibili» che sono funzionali alla celebrazione e alla legittimazione della realtà di riferimento. In un contesto come il nostro, in sovrappiù, essa aggiunge una marginale ma essenziale caratterizzazione universalistica alla dimensione regionale, attraverso il richiamo biblico, ciò che ancora una volta lega la prospettiva del De antiquitate a quella delle altre opere dello stesso Barrio.

Di fronte a miti del genere, è assurdo utilizzare la categoria ermeneutica della verosimiglianza storica, mai ricercata dagli autori. Il loro senso sta nel costituire tradizione, ovvero nell’efficacia condivisa ad essi riconosciuta dalle comunità che li tengono in vita, le quali nel carattere straordinario della loro storia (e del loro territorio) celebrano sé stesse, la loro unicità, la loro forma. È proprio nel segno dell’eccezionalità infatti che i diversi elementi del vivere comune entrano in relazione fra loro: la Calabria diventa in qualche modo culla dell’umanità; il mitico progenitore sceglie la terra di Reggio per la sua meravigliosa feracità, che a sua volta genera speciali condizioni di vita. Askenaz si ferma lì «loci amoenitate captus» (I, 1, p. 4). Poi, i suoi discendenti si stabiliscono nel Lazio, fondandovi una nuova città (ibid.), ulteriore riprova del legame privilegiato della terra calabra con Roma. Tutto ciò, prima che le genealogie bibliche lascino il posto a quelle classiche greche, con gli eroi della guerra di Troia, Ulisse in testa, o altri personaggi dei miti ellenici.

Vero e falso non sono le corrette categorie di approccio a questo genere di notizie, frutto peraltro di un faticoso lavoro di compilazione da testi di poeti, mitografi, lessici e raccolte etimologiche, nei quali il materiale non mancava certo per costruire filiazioni inverosimili, magari ricoperte di una patina di credibilità storica. Nulla a che vedere con le contraffazioni antiquarie che a scopo propagandistico o con finalità polemiche creavano dal nulla realtà inesistenti, consapevolmente reinventate sulla base di fonti date come originali; testimonianze di autori mitici quali Beroso caldeo o Manetone egiziano, che si ritrovano nell’opera-emblema di questo tipo di produzione: le fortunate Antiquitates (1498) del domenicano Annio da Viterbo (Giovanni Nanni), che pure Barrio conosce ed utilizza.

Dell’eccezionalità della regione resta traccia anche nei nomi, che etimologie a loro volta “incredibili” piegano verso qualsiasi significato utile. Più si va indietro nel tempo più le parole, toponimi compresi, disvelano il nucleo autentico delle realtà di riferimento. Così, il carattere superlativo della regione sta tutto nel suo più antico nome, Auxonia, «ab auxo verbo Graeco idest augeo», perché «lì sempre è accresciuta l’abbondanza delle cose» (I, 2, p. 5). E lo stesso nome più recente di Calabria verrebbe da «calon, quod bonum, pulchrum et honestum significat, et brio, idest emano et scaturio», per il fatto che essa è piena di ogni bene (I, 8, p. 16). Anche il nesso “Magna Grecia” (identificata da Barrio con la sola Calabria), rende, nell’attributo, la fecondità della regione e la moltitudine degli uomini che la abitano.

Quando invece dal mito si passa alla storia, i nomi diventano oggetto di un’attenzione particolare del Barrio erudito, alla ricerca appunto dei nomi (e dei siti) delle antiche città. Gli studiosi, gli antichisti in specie, hanno sempre ritenuto questa come la parte più debole e caduca del lavoro di Barrio, che effettivamente appare privo di adeguati strumenti filologici e topografici, oltre che dell’acume necessario per avanzare ipotesi fondate. Da qui le prudenze di Sirleto, le severe correzioni di Quattromani e le successive annotazioni di Aceti.

Ma un altro elemento, la relazione fra Magna Grecia e Brettia, assume valor caratterizzante ed emerge con evidenza ancora dalle pagine del primo libro: da una parte le città che furono colonie greche, la tradizione culturale della Grecia, i grandi filosofi, i legislatori; dall’altra i Brettii, che Strabone definisce “barbari”, la cui forza stava nelle armi e nella guerra, la cui dura educazione era condotta nelle selve e che si nutrivano di caccia, bevendo acqua e miele. Sono le due anime della Calabria antica, che Barrio non sente in conflitto e che non contrappone – come non contrappone la Calabria pagana, magnogreca, e quella cristiana –, ma di cui sa invece cogliere i tratti di contaminazione culturale, come mostra bene ad es. il capitolo dedicato alle monete dei Brettii (I, 10). Lo scrittore non si pone come erede della sola tradizione ellenica, ma fa propria la doppia anima della regione e non esita a prenderne le difese contro gli attacchi esterni. La difesa, e se serve l’attacco, come quello sferrato contro coloro che a vario titolo e in vario modo denigrano la Calabria o i suoi abitanti, Greci o Brettii che siano. Nel mirino sono «certi saputelli innovatori a tutti i costi» («neoterici quidam scioli»), che modificano «falso et temere» il nome dei Brettii in Brutium (I, 11, p. 22). Un’etimologia falsa e tendenziosa tradisce i sentimenti ostili nutriti da «mordacissimi et maledicentissimi homines» nei confronti della Calabria e dei Calabresi, i quali invece «morum probitate, animorum magnitudine, et corporum robore pollent, regionis felicitate valent, iudicio florent, et ingenio praestant» (ibid.).

La lingua è tutt’altro che veicolo asettico, per Barrio, il quale al contrario ha piena consapevolezza del peso ideologico del mezzo linguistico, un’autentica ossessione, che lo induce alle forzature irrise da Quattromani, che nel nostro caso, ad es., smonta la furia di Barrio, correggendone la distorsione etimologica: «Coloro che i Greci chiamano Brettii, i Latini, con un’alterazione del nome, li chiamano Bruzi, non per sfotterli, ma per caratteristiche proprie della lingua» («Quos Graeci Brettios appellant, Latini corrupto nomine Brutios dicunt, non convicii loco, sed linguae proprietate»: p. 23). Un’ossessione che è parte fondamentale di un rigido schema oppositivo, più forte del dichiarato intento laudativo. L’autore lo applica a qualsiasi realtà della regione, minacciata da nemici di ogni sorta, che corrompono i testi, modificano le etimologie, o più scopertamente offendono, insultano, rubano la memoria, si appropriano delle tradizioni, ecc. Da un lato c’è la felicitas della Calabria e dei Calabresi dall’altra il livor dei nemici; l’una scatena l’altro. La lingua, intesa in senso lato comprensivo della filologia testuale, è lo strumento per operare plagi e forzature; il canale multifunzionale per esprimere il livor. Al contrario, la conoscenza della lingua è l’arma con cui smascherare, correggere, denunciare. Quasi a ogni pagina del suo libro, Barrio oppone due sistemi valoriali antitetici: da una parte i contrassegni positivi del popolo calabro e del suo territorio, così come l’autore li vede e si fa carico di mostrarli; dall’altro la percezione esterna, per così dire, attribuita agli invidiosi e ai detrattori della regione. Essenziale il punto di vista, insomma; l’ideale collocarsi dentro o fuori i confini della regione. E lo scrittore si colloca decisamente “dentro”, a differenza di coloro che vengono da “fuori” come il celebre Leandro Alberti, del quale così scrive:

«Quare quicquid contumeliae in primis auctoribus Brettiis aliisque Calabris attributum legitur, a falsariis maledicentissimis obtrectatoribus adscriptum aut immutatum esse haerendum non est. [...] Id quod non vidit lusciosus vulgaris scriptor Leander, qui, quod Latine scribere nescisset, ingens volumen conviciis et mendaciis refertum sibi suique similibus dignum scripsit. Videat nunc eruditus et pius lector obtrectatorum ac detractorum malignitatem et perversitatem sitque aequus iudex» (I, 16, p. 34).

«Perciò, qualsiasi offesa si legga negli autori antichi riferita ai Brettii e agli altri Calabri non bisogna dubitare che è stata aggiunta o frutto di manipolazione di falsari e denigratori calunniosi. [...] Cosa che non vide il miope Leandro, che scrive in volgare e che, per il fatto che non sapeva scrivere in latino, riempì di insulti e menzogne un grosso volume degno di lui e di gente come lui. Veda ora il lettore erudito e pio la malvagità dei denigratori e dei detrattori e sia giudice equo».

La Descritione di tutta Italia, nella quale per la prima volta nei tempi moderni la Calabria era stata fatta oggetto di una descriptio, era frutto di una sterminata serie di letture, ma anche di personali esperienze di viaggio, che tra il 1525 e il 1528 avevano portato il bolognese Alberti anche in Calabria (nel 1526 era stato a Cosenza). Come per Fazello e Maurolico, non sono gli errori materiali, tanto spesso denunciati, la colpa più grave del frate domenicano agli occhi di Barrio, per il quale quello non conosceva e non capiva la sua Calabria. Ma c’è di più: Alberti si collocava agli antipodi delle scelte di Barrio, avendo di fatto abbandonato il sogno umanistico espresso nell’Italia illustrata di Biondo Flavio (1453) e l’immagine di un’Italia unita che alle lacerazioni politiche opponeva «la fiducia nella recuperata Latinitas e nella cultura umanistica comune ai dotti di ogni regione» (G. Petrella, L’officina del geografo. La «Descrittione di tutta Italia» di Leandro Alberti e gli studi geografico-antiquari tra Quattro e Cinquecento. Con un saggio di edizione (Lombardia-Toscana), Milano, Vita e Pensiero, 2004, p. 18). La scelta di Alberti era incompatibile col progetto di Barrio, espresso già nelle opere minori, dove egli aveva vagheggiato l’idea che i dotti d’Italia, sotto la guida dei propri prìncipi, celebrassero le singole regioni, come lui stava facendo. E non a beneficio dei lettori comuni, ai quali Alberti si apriva, abbandonando il latino e adottando il volgare, ma dei soli uomini di cultura e di religione insieme («eruditus et pius lector»), quelli per i quali invece Barrio scrive. La sua opera non è destinata infatti a domatori di cavalli, mulattieri, macellai, cuochi, osti, fornai, facchini, scimuniti, pescatori, rammendatori, venditori di dolci, artigiani, robivecchi, e uomini di tal genere di bassissima condizione; vecchiette stravaganti, donnicciole e sgualdrine. Al contrario dei «neoterici scriptores»,

«Graves autem et eruditi viri gravia ac Latinae linguae nitorem, gravitatem ac maiestatem sectantur et Latina scripta legunt et Latine scribunt, quo sua ingenia, iudicia, ac doctrinae ubique gentium pateant, cunctis utilitati sint et aeternitate donentur; vulgares vero libellos uti indignas et viles res abominantur et execrantur» (II, 2, pp. 81-82).

«Gli uomini seri, poi, e i dotti ricercano le cose serie e il nitore della lingua latina, la sua dignità e la sua maestà; leggono scritti latini e scrivono in latino, così da manifestare dappertutto il proprio ingegno, le proprie idee e le proprie conoscenze; così da essere di utilità a tutti e di ricevere il dono dell’eternità. I libretti in volgare invece li aborriscono e li detestano come cosacce indegne e senza valore».

Parole che ritroviamo quasi identiche nel Pro lingua Latina. Solido terreno comune dell’intero progetto concepito e realizzato da Barrio, la questione della lingua mostra qui tutta la sua forza in relazione alla stessa collocazione ideologica dell’autore. Essa giustifica e sostanzia la famosa “maledizione” contro i potenziali traduttori delle sue opere, al cui interno Barrio ribadisce che le sue «lucubratiunculae» non sono concepite per un popolino ignorante da cui presto saranno dimenticate. A garantire la loro sopravvivenza nel tempo saranno i dotti, senza confini nazionali, coloro che usano il latino e sanno che presto (almeno nell’augurio di Barrio) accadrà che «Latina lingua in ligno crucis cum Hebraea et Graeca consecrata simul cum fide et Imperio Romano rursus universum orbem permeet» (ibid.). I «libretti in volgare spariranno insieme coi loro autori» (ibid.), mentre il cattolicesimo romano trionferà e il mondo intero sarà dominato dall’Impero, esso stesso romano, e parlerà di nuovo la lingua di Roma.

Certo, il De antiquitate è il libro che crea per la prima volta un’immagine e un’idea di Calabria, alla quale conferisce precisa individualità storica (l’antiquitas) e territoriale (il situs), ma la prospettiva del suo autore non è quella del localismo regionale, va ribadito. Egli ritiene di costruire un paradigma valido per tutti gli Italiani e non solo (ubique gentium), all'interno del quale la dimensione regionale entra in relazione strutturale con la visione “universalistica”; una relazione analoga a quella, essa stessa implicita, fra le «antiquitates» e la contemporaneità, da cui non è vero che Barrio sfugga o che rimuova.

L’edificio ideologico da lui costruito si regge, è evidente, su un equilibrio oggettivamente precario, già ai suoi tempi; i suoi punti di forza, la terna costituita dalla «Latina lingua», dalla «fides» e dall’«imperium Romanum» derivato da Dio, sono tanto identitariamente caratterizzanti quanto insufficienti a supplire un vuoto epistemologico che emerge a ogni passo. Essi sono purtuttavia gli assi portanti dei quattro scritti, dei quali il De antiquitate costituisce il punto di arrivo e il coronamento; sono l’elemento di continuità fra il trittico e il De antiquitate, e, all’interno di questo, il tessuto connettivo delle tante sfaccettature dell’opera, e insieme il tratto che la distingue da quelle dei «neoterici scriptores», i quali illudono il volgo e disseminano errori, leggende e calunnie. Smascherare falsari che sono anche obtrectatores è il compito, profondamente etico dal suo punto di vista, che in nome dell’amor patrio Barrio si è assunto con la difesa del latino, con l’elogio di Roma e dell’Italia, e ora con le lodi della Calabria, espressione del suo amor patriae, appunto, di cui si coglie così tutta la pregnanza, al di là della retorica e della banale referenzialità.

Tutti i libri del De antiquitate, tranne il primo, danno forma a un itinerarium, genere a cui rimanda anche l’indicazione più o meno costante delle distanze fra i luoghi e l’individuazione di ideali stationes lungo il percorso. Lo schema è quello fissato a suo tempo da Leandro Alberti: da nord a sud e dalla costa verso l’interno. Si parte dal fiume Talao, che divide Lucania e Calabria per arrivare alle porte di Reggio, lungo la costa tirrenica (l. II); quindi, sullo Ionio, approssimativamente da Reggio a Squillace (l. III); da Catanzaro a Cariati (l. IV); e da Thurii a Roseto (l. V).

Aceti divise i libri dal II al V in 20 capitoli (in 22 il primo). Varia la loro estensione, così come varia è la struttura: talora si riducono a pochi cenni su antiquitates e situs talaltra presentano stucchevoli elenchi, espressione del gusto dell’accumulazione e del catalogo proprio della scrittura antiquaria, che porta Barrio a rilevare e annotare tutto quanto può su una città, un paese o un territorio e a sciorinarlo al lettore. Godono invece dello spazio di interi capitoli le città, la cui presentazione – va precisato – esclude l’ottica municipalistica. L’orgoglio civico si integra perfettamente per lui nel quadro regionale, senza le competizioni sfibranti che segnano, ad es., la coeva storiografia siciliana.

Dopo un primo capitolo di taglio metodologico, diciamo così, il II libro ha nella trattazione dedicata a Cosenza il suo momento più significativo. «Civitas nobilis divitiis pollens et vetustissima» (II, 6, p. 77), la città è sede arcivescovile, una delle più antiche del regno di Sicilia; più delle altre ha contribuito allo sviluppo della cultura umanistica, con personaggi quali Giano Parrasio, Coriolano Martirano, Carlo Giardino, Pietro Paolo Parisio, Antonio e Bernardino Telesio, Giovanni Tommaso e Giovanni Antonio Pandosio (Pantusa), Giovanni Battista Amico, tutti ricordati da Barrio.

In gran parte d’origine greca, magnogreca e bizantina, sono invece gli uomini illustri che danno fama a Reggio e a Gerace/Locri, le città più in evidenza del III libro. Reggio (cui sono dedicati i capp. I-IV) è «urbs equidem longe nobilissima et vetustissima, totius Calabriae metropolis, utpote prima in Calabria, imo vero in Italia, Roma excepta [...] Christi fidem sit complexa» (III, 1, p. 186). Ben sei i capitoli dedicati invece a Locri, che fu, per testimonianza di Platone «flos Italiae, nobilitate, divitiis et gloria rerum gestarum» (III, 8, p. 225). Lo spazio è dovuto al suo passato e alla sua storia gloriosa (capp. 7-8), ma anche agli uomini e alle donne che le diedero lustro in ogni campo.

Crotone e la sua scuola filosofica dominano incontrastate il IV libro: i capp. 6-21 ricostruiscono gli eventi essenziali della storia della città greca e romana. All’interno di questo blocco di capitoli, la parte del leone la fa Pitagora: «Floruit Crotone diu famosissimum illud amplissimumque studium philosophiae, a quibus Italicum philosophiae genus nuncupatum est» (IV, 9, p. 311). Attingendo a un ben noto repertorio dossografico, che dava rilievo agli aspetti etici della filosofia pitagorica e sulla scia di un certo “pitagorismo cristiano”, Barrio fa di Pitagora la personificazione del filosofo antico, riprendendo i moduli del pitagorismo e dello stoicismo, e ne lascia intravedere i tratti precristiani o naturaliter cristiani.

E il filosofo torna anche nel libro V, dominato dalle città di Rossano, Thurii e Sibari, sospese tra grecità e cristianesimo bizantino (un capitolo è riservato al beato Nilo, e altri monaci italogreci sono ricordati). Fu filosofo pitagorico, infatti Ippodamo, che Barrio ritiene di Thurii e al quale dedica i capp. 13-14; e pitagorici furono anche altri filosofi di cui parla nel cap. 15.

È questo, in estrema sintesi e con tantissime ovvie omissioni, lo schema della trattazione di Barrio per ciò che concerne le città, tutte egualmente “nobili” e “fiorenti”, che siano brettie o greche, presentate in spazi-contenitori pieni di oggetti che lo scrittore mette in bella mostra a beneficio del lettore: dalla storia al territorio, dai prodotti agli uomini illustri, dagli eroi magnogreci ai santi cristiani, dai comandanti ai vescovi. Tutto, sempre, sotto il segno dell’eccellenza. La storia è ricostruita sia attraverso gli antichi auctores, di cui Barrio ora sintetizza il dato di informazione ora cita interi blocchi testuali, sia attraverso le antichità della regione: monete, epigrafi e altre fonti antiquarie. Il territorio, invece, il lettore può vederlo con gli occhi dello stesso Barrio, che indugia in qualche caso a descrivere la natura di determinati luoghi o fenomeni che attirano la sua attenzione, come il flusso e il riflusso delle acque nello stretto di Messina (II, 19). Un repertorio di mirabilia esteso all’opera dell’uomo come nel caso del provetto artigiano reggino Girolamo Fava, fabbricante di carrozze, ciabattino, pittore, scultore, intagliatore del legno (II, 20). C’è in questo contemplare ammirato – della natura, dei luoghi, delle persone, delle opere d’arte – un Barrio inatteso, che ha il gusto dello stupore infantile e lo esprime con un’immediatezza che buca la rigida cortina linguistica del suo artificioso latino.

Nel 1571 il De antiquitate fu stampato, «inepte foedeque» come scrive Aceti, con intere pagine ripetute e quaternioni fuori posto. L’errata corrige all’inizio del libro era evidentemente insufficiente a eliminare refusi ed errori; si rendeva necessaria una revisione integrale del testo, a quanto pare sollecitata anche da Sirleto. Barrio la intraprese subito, ma la sua morte impedì che il lavoro fosse completato, secondo quanto scrive Aceti.

L’opera ebbe immediato successo testimoniato non solo dagli emuli e continuatori, a partire dallo stesso Parisio, che sulla base del De antiquitate realizzò la propria carta speciale della Calabria. Altrettanto presto cominciarono però a circolare voci sulla reale paternità del De antiquitate. Aceti le liquida come risibili: «...non defuere qui hoc Barrii opusculum supposititium putarent, ac Cardinali Guilelmo Sirleto, alii Cardinali Sanctoro adscriberent, at id tam ridicule commenti sunt quam quod maxime» (p. XII). Ma esse continuarono a circolare e ne rimane traccia nei cataloghi di biblioteca. Nel catalogo storico dell’Angelica, ad es., alla voce Barius si legge: «Barius Gabriel», con soprascritto: «est Card. Sirletus»: De antiquitate et situ Calabriae...». E alla voce Sirletus: «Sirletus (Card. Gabriel [sic]. Sub nomine Gabrielis Barii Francicani De Calabriae antiquitate et situ...». E ancora: nella Historia Carbonensis monasterii (1601), Paolo Emilio Santoro, nipote del Cardinal Santoro, scrive: «...unde merito et verissime queritur Gabriel Barrius Francicanus in sua Calabria, si is libri auctor fuerit, licet nomine eius in lucem prodierit. Nam multi et fortasse non insulse Gulielmi Cardinalis Syrleti praestantis doctrinae et exacta studiorum disciplina celebris ingenio adscribunt» (p. 14). Non dice, Santoro, quel che invece riporta D’Amato nella sua Pantopologia Calabra (1725), e cioè che molti ritenevano «Opusculum [...] a Cardinali Sanctorio exaratum fuisse» (p. 194).

Di quanto Barrio aveva fatto nel lavoro di revisione della sua opera restava (e resta) testimonianza nel Vat. Lat. 7374 (oggi Vat. Lat. 10908), un esemplare dell’edizione del 1571 abbondantemente riscritta e fittamente annotata. Di esso si servì Tommaso Aceti, un Cosentino trapiantato a Roma, che fra il 1714 e il 1726, approntò una nuova edizione del De anquitate pubblicata nel 1737.

Essa si apre con la dedicatoria a Clemente XII (1730-1740), il quale aveva voluto l’edizione del Bullarium romano a cui Aceti aveva collaborato come ricorda nella medesima lettera. Lo stesso Pontefice, l’11 ottobre del 1732, aveva fondato a San Benedetto Ullano (Cosenza) il Collegio Greco per gli Albanesi delle Due Sicilie, collegio che aveva avviato la sua attività nel febbraio del 1733. Il coinvolgimento di un Calabrese nel lavoro sul Bullarium e l’apertura del collegio Corsini (come si chiamerà dal cognome dello stesso papa) giustificano la scelta di dedicare a lui le lucubrationes aggiunte all’opera di Barrio, un altro Calabrese. Aceti chiede infine a Clemente XII di accogliere nella biblioteca vaticana o in quella corsiniana l’esito del lavoro da lui svolto sulla gens Calabra.

Nella sua convenzionalità, la pagina di apertura del libro di Aceti documenta l’ormai assodato ambito regionalistico in cui, quasi due secoli dopo, è letta e collocata l’opera di Barrio, avulsa dall’originaria dimensione antiquaria. Del resto, il libro di Barrio aveva già dato buoni frutti in questo senso, producendo una schiera di emuli e continuatori come Girolamo Marafioti (1600), Domenico Martire (la sua opera fu redatta dal 1677 al 1698 ed è ancora parzialmente inedita), Giovanni Fiore (1691-1743), Elia D’Amato (1725), per non ricordare che i maggiori. L’opera di Barrio si identifica con la Calabria stessa; è una storia e una geografia della Calabria.

Tutti gli autori appena ricordati sono elencati da Aceti nella lettera prefatoria a Luigi Sanseverino (1705-1772), principe di Bisignano, scritta in linea di continuità con quella a Bernardino che apriva l’opera di Barrio. Aceti lamenta lo stato editoriale dell’opera, sfigurata «prope innumeris mendis», le quali avevano suscitato l’indignazione del grande cartografo fiammingo Abraham Ortelius. Il riferimento è al commento aggiunto da Ortelius alla sua riproduzione della carta della Calabria nel Theatrum orbis terrarum (15742): «Calabria exactissime descripsit Gabriel Barrius Francicanus libris quinque Romae mendosissime excusis ex quibus haec excerpsimus». Pochi anni dopo la sua edizione, l’opera da laudatio è diventata descriptio, come si vede, mentre è chorographia per Burmann, che definisce il suo autore «praestantissimus celeberrimae provinciae Calabriae chorographus».

Aceti afferma di avere saputo dell’esistenza della copia vaticana e di averla letta con attenzione, traendone fedelmente aggiunte e correzioni per inserirle ciascuna nel proprio contesto di pertinenza, segnalandole mediante doppi apici. Dichiara poi di avere aggiunto «annotationes [...] additionesque» e insieme «celeberrimas Sertorii Quattrimani Patritii Consentini animadversiones ad ipsum Barrium, quae manu exaratae itidem Romae in Bibliotheca Angelica S. Augustini asservantur» (p. X).

In un unico volume sta pertanto la storia di quasi due secoli di un testo passato per mani diverse, legate dal filo della calabresità. Calabrese era l’autore; Cosentini erano Sertorio Quattromani (1541-1603), il quale lo corredò di sobrie postille, erudite e corrette, anche se spesso animate da spirito polemico, e Tommaso Aceti, preoccupato soprattutto di aggiornare i dati e di colmare presunte lacune contenutistiche con fiumi di notizie e di rimandi bibliografici.

I pur utili accorgimenti di Aceti non sempre bastano a distinguere le diverse stratificazioni testuali: gli apici per le aggiunte di Barrio; la doppia colonna per le proprie annotationes; il corpo minore per le postille di Quattromani. E le cose si complicano ulteriormente con l’unica traduzione esistente (su cui cfr. B. Clausi, Per la Calabria, oltre la Calabria. Prospettive di indagine sul De antiquitate di Gabriele Barrio, in «Virtù ascosta e negletta». La Calabria nella modernità, a cura di R. Calcaterra e G. Ernst, Milano, Franco Angeli, 2011, pp. 99-112). Non tutte le aggiunte e/o correzioni/modifiche di Barrio, poi, furono accolte da Aceti e ignoriamo il criterio secondo cui egli scelse di recepirle o di rifiutarle né è possibile stabilire se l’eliminazione di blocchi testuali presenti nell’edizione del 1571 sia da attribuire a Barrio oppure ad Aceti, il quale però a dire il vero non afferma di aver soppresso parti di testo. Un problema analogo si pone per le varianti, che non è facile stabilire se siano o meno d’autore. Quanto alla divisione in capitoli con l’indicazione degli argomenti («appositis argumentis»), essa stessa dovuta ad Aceti come si è detto, lo scopo dichiarato era quello di andare incontro alle esigenze del lettore, migliorando la leggibilità dell’opera. In qualche caso, però, la divisione forza le scansioni del discorso e comunque veicola una lettura – e quindi una percezione – dell’insieme che non appartiene a Barrio, il quale nemmeno nell’esemplare vaticano da lui postillato inserì alcuna divisione del testo oltre quella in libri. La commoditas dei lettori non era certo una delle sue preoccupazioni prioritarie!

Sempre nell’edizione del 1737, a ogni capitolo Aceti aggiunge poi le proprie annotationes e additiones, e successivamente le observationes di Quattromani. Ad apertura dell’opera invece i Prolegomena, la dissertazione de primis Calabriae coloniis e un’altra per riscattare i Brettii dall’accusa di aver crocifisso Gesù. Segue una Synopsis chronologica di eventi accaduti in Calabria dalla nascita di Cristo fino al secolo XVIII e, in calce al volume, un elenco delle città e di tutti gli altri luoghi che in vari tempi erano scomparsi; un catalogo di uomini e donne illustri in qualsivoglia genere di attività e infine un ricco indice di notabilia. Tutti strumenti utilissimi, ma assenti nell’originale ed estranei allo spirito di Barrio della cui opera viene inevitabilmente falsata la prospettiva, nonostante la dichiarazione dello stesso Aceti di non volersi staccare di un’unghia da Barrio. In questo senso l’edizione del 1737 del De antiquitate rappresenta una fase a sé stante della storia del testo, filologicamente e ideologicamente autonoma dall’originale. Di ciò si deve tener conto quando ci si accosta al Barrio di Aceti, tanto più che esso è di più facile accesso, più agevole e più completo dell’originale.

Molto resta da fare sul testo di Barrio, movendo da un’edizione e da una traduzione affidabili. Da qui può partire una seria ricognizione di dati utili a ricostruire il metodo di lavoro dello storico, a verificare i titoli della sua biblioteca, al di là di quelli da lui indicati, a individuare i suoi reali punti di riferimento, a disvelare le tecniche delle citazioni, ecc. Tante sono le piste di ricerca che si aprono a specialisti di diversa estrazione e alcune sono state già messe in evidenza. Qui è utile almeno rilevarne due: le relazioni col ricco mondo dell’antiquaria rinascimentale romana e quelle con le parallele storie regionali. Manca infatti un’indagine comparativa fra le opere più o meno coeve che della dimensione regionale fanno il loro baricentro tematico e formale (De Ferrariis Galateo, soprattutto, Fazello e Maurolico). Esse mostrano legami evidenti, ancora non adeguatamente valorizzati da una mirata indagine critica, che sarebbe essenziale anche per cogliere le peculiarità dell’approccio di Barrio e della sua stessa idea di Calabria, e nel contempo permetterebbe di verificare l’esistenza di un comune progetto genetico di quelle storie regionali o almeno di un loro comune terreno di sviluppo.

7. Di Barrio o non di Barrio? La Ioachimi Abbatis Vita

Nel 1585, nella campana Vico Equense è pubblicato dall’editore Giuseppe Cacchi un volumetto bilingue in 12°, contenente i Ioachimi Abbatis Vaticinia circa Apostolicos viros / Le profetie dell’Abbate Gioacchino intorno alle vite de Sommi Pontefici. I Vaticinia veri e propri sono preceduti da una Vita dell’abate Gioacchino da Fiore, schedata in molti cataloghi come opera autonoma di Barrio ma la cui autenticità è negata o messa in dubbio dalla maggior parte degli studiosi. La Vita rimane sia nella più ampia edizione dei Vaticinia apparsa a Venezia nel 1589 sia nelle successive ristampe e traduzioni (l’ultima presa qui in considerazione è del 1625). Wadding conosce la ristampa veneziana del 1600, ma ne attribusce la paternità, come s’è detto, a un Gabriel Baronus di cui non precisa l’origine né fornisce alcun elemento biografico, ma che distingue da Gabriel Barrius, «Italus Calaber», autore del De antiquitate (p. 142).

In realtà, non esiste alcun Baronus autore della Vita, la quale peraltro è sì di Barrio, ma non è un’opera autonoma, bensì la riproduzione della biografia del monaco calabrese estrapolata dal De antiquitate (II, 8) e per la prima volta oggetto di una traduzione in volgare da parte di chi evidentemente ignorò o sfidò gli anatemi dell’autore e tutti i privilegi papali. Risolta senza troppa fatica la faccenda dell’attribuzione, l’interesse per la Vita permane, anzi per certi versi aumenta, e non unicamente in relazione a Barrio, se solo si ha voglia di conoscerla e di comprenderne il contorno.

Tutto comincia per noi a Bologna, nel 1515, quando è pubblicato un libretto che si pone nel solco tradizionale delle pseudoprofezie papali attribuite a Gioacchino da Fiore, un vero e proprio genere nato pare negli ambienti degli Spirituali francescani. Si tratta dell’edizione bilingue (in latino e in volgare) di una «profezia» o «vaticinio» sui pontefici romani attribuita appunto all’abate Gioacchino (Ioachini abbatis Vaticinia circa Apostolicos viros et Eccle. R.), una raccolta di profezie combinate con immagini a tutta pagina, corredate a loro volta di didascalie allusive alla futura successione dei pontefici. Tutto ciò era preceduto da una breve Vita de Ioachino Abbate de S. Flore. Per F. Leandro delli Alberti Bolognese or. Predicatorum breuemente composta.

L’intera iniziativa è da attribuire a un Leandro Alberti allora all’inizio della sua attività, lo stesso contro cui nel De antiquitate si appuntano gli strali di Barrio. La biografia presenta un Gioacchino nato da genitori sconosciuti e «totalmente senza cognitione de littere», almeno da ragazzo, perché poi invece, con gli anni, «diventò eruditissimo», non si sa bene se per il suo impegno o perché «afflato dal divino nume et spirito». Alberti accetta la tradizione dello «spirito profetico» dell’abate calabrese, ne riconosce la cultura, sia pure a partire da uno stato di iniziale analfabetismo, allontana da lui ogni sospetto di eresia, avendo egli sottoposto ad approvazione ecclesiastica tutti i suoi scritti.

Non è questa la sede per entrare nel merito e nelle ragioni che stanno dietro il libretto di Alberti, di cui sono stati fra l’altro rilevati i legami con la predicazione di Savonarola (A. Prosperi, Vaticinia Pontificum. Peregrinazioni cinquecentesche di un testo celebre, in Tra Rinascimento e Controriforma: Continuità di una ricerca, a cura di M. Donattini, Verona, QuiEdit, 2012, pp. 77-111. Cfr. anche L’Italia del Cinquecento 2007, pp. 97 e sgg.). Non possiamo nemmeno seguire le vicende successive delle profezie pseudogioachimite e la loro trasformazione nel tempo, sotto la spinta della bufera luterana che investì il mondo cattolico e poi nella Chiesa tridentina e post-tridentina, in un’Europa angosciata dalla minaccia turca («La pasta dei vaticinii era particolarmente molle e capace di amalgamarsi con ingredienti d’ogni genere», scrive Prosperi, «E fu così che l’ingrediente della profezia turchesca giunse a intrecciarsi coi vaticinii papali pseudo-gioachimiti»). Quel che qui interessa rilevare è che a un certo punto della storia alla Vita di Alberti fu sostituita quella di Barrio. Ciò avvenne per la prima volta, per quanto ho potuto ricostruire, proprio nell’edizione di Vico Equense dei Vaticinia (1585) e può essere ritenuto segno della rinomanza ormai raggiunta da Barrio col suo De antiquitate. A citarlo sovente nei suoi scritti (soprattutto agiografici) era l’allora vescovo di Vico (lo fu dal 1583 al 1607), Paolo Regio, per volontà del quale fu creata proprio la stamperia che produsse il nostro libretto. Fu lui, si può ipotizzare, a operare la sostituzione, che resterà nelle edizioni e traduzioni successive.

Il medaglione biografico approntato per il De antiquitate è più lungo e articolato della Vita di Alberti, che con buone probabilità Barrio non conosceva, altrimenti non avrebbe perso l’occasione di riaccendere la polemica o almeno di rilevare il confronto. Ora i genitori di Giovanni Gioacchino, come Barrio lo chiama, hanno un nome, Mauro e Gemma, anche se non un cognome, non essendo tabellionem un patronimico, ma soltanto il mestiere di Mauro, con buona pace di Mancuso, che traduce: «fu figlio di Mauro Tabellione e di Gemma» (G. Barrio, Antichità e luoghi della Calabria, Cosenza, Brenner, 1979, p. 206) e inserisce il presunto cognome nell’indice dei nomi propri! La biografia prosegue con alcuni dettagli agiografici, che qualche evidente punto in comune mostrano con la Vita di S. Francesco di Paola presente nello stesso De antiquitate (cfr. B. Clausi, «Lumen Calabriae». San Francesco di Paola e la Calabria nella storiografia erudita dei secoli XVI e XVII, in Prima e dopo san Francesco di Paola. Continuità e discontinuità, a cura di B. Clausi, P. Piatti, A.B. Sangineto, Catanzaro, Abramo, 2012, pp. 291-345). Il Gioacchino di Barrio studia grammatica e si reca in pellegrinaggio a Gerusalemme. Esegeta per ispirazione divina, redige la Concordia duorum Testamentorum, il Commento all’Apocalisse e il Psalterium decem chordarum. Ancora qualche analogia col Paolano ritroviamo nel regime di vita di Gioacchino, che al ritorno da Gerusalemme visse l’esperienza della grotta, in Sicilia, dedicandosi alla preghiera e senza toccar cibo nei giorni di mercoledì, venerdì e sabato. Cenobitica fu invece la vita calabrese a Corazzo, a Pietralata e poi nel monastero florense. Anche nel contesto cenobitico, però, Gioacchino condusse vita eremitica continuamente pregando come in colloquio ininterrotto con Dio, per l’intera quaresima mangiando, anzi appena gustando, pane e acqua. Compiva miracoli, infine, scriveva molto e riversava nelle sue opere lo «spiritum prophetiae». E alla profezia è dedicata la parte centrale della Vita, in cui Barrio si sforza di dimostrare la natura intellettuale e non ispirata di essa e a tal fine confeziona un sostenuto discorso, intessuto di riferimenti biblici e patristici, nell’intento di giustificare la profezia di Gioacchino e di difenderlo dall’accusa di eresia. In proposito afferma di conoscere l’esistenza nella Biblioteca Vaticana di una bolla di Onorio III del 2 dicembre 1216 proprio in difesa dell’ortodossia di Gioacchino.

Questa in estrema sintesi la Vita che, estrapolata dal contesto originario del De antiquitate, dal 1585 almeno troviamo inserita nel nuovo contesto dei Vaticinia. Il colorito agiografico dello scritto di Barrio, del tutto assente dalla Vita di Alberti, piacque probabilmente a un cultore del genere come Paolo Regio, al quale qualcosa dovette pure dire la comune origine calabrese del santo e dell’agiografo, più titolato a parlarne, quindi. Ma quel che probabilmente giustifica la presenza della Vita barriana in tutte le edizioni e traduzioni successive è la difesa più argomentata, rispetto ad Alberti, della veridicità della profezia dell’Abate florense e della sua ortodossia di fede, comprovata dalla bolla di Onorio III. Ottimo e autorevole suggello a una raccolta di profezie e vaticini sempre più pericolosi nel clima caldo della Controriforma.

Note

*: Traduco, qui e sempre, dall’edizione del 1737 curata da T. Aceti (v. Bibliografia), la sola in cui il testo è diviso in capitoli, ciò che ne rende più agevole la consultazione.

 

Bibliografia

Carte d’archivio e manoscritti

Archivio di Stato di Roma (ASR), Ospedale di Santo Spirito, filza 115, f. 243 (Mandato di Francesco de Landis, 4 agosto 1541): R. Benvenuto, Gabriele Barrio... [vd. infra], Appendice, p. 73.

Archivio di Stato di Roma (ASR), Ospedale di Santo Spirito, Reg. 122, f. 159v-160r (Mandato di Antonio Lomellino, 25 settembre 1555): R. Benvenuto, Gabriele Barrio... [vd. infra], Appendice, p. 73.

Archivio Segreto Vaticano (ASV), Secretaria Brevium 37, ff. 466v-467v = Secretaria Brevium 68, ff. 189v-192v (breve di Gregorio XIII 23 agosto 1576): F. Russo, Regesto Vaticano per la Calabria, vol. V, Roma, Gesualdi, 1979, p. 25, n. 22777.

Biblioteca Angelica (Roma), Cod. GG. 3.35, interno 2, ff. 1-24 (Annotationes D.ni Sertorii Quattrimani in Barrium).

Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Reg. Lat. 2023, f. 29r (lettera di Barrio al cardinal Sirleto, certamente posteriore al 1565): G. Scalamandrè, I viaggi [vd. infra], pp. 109-110.

Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 6149, ff. 142r-150v (censura di Barrio): M.A. Passarelli, Petrarca scelestus auctor... [vd. infra], pp. 193-220.

Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 6180, f. 96 (lettera a Sirleto): B. Cianflone, Gabriele Barrio... [vd. infra], p. 91.

Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 6189, pt. I. f. 242r (lettera a Sirleto di Ottaviano Santacroce, del 16 settembre 1564, da Badolato): F. Russo, Regesto Vaticano, cit., vol. IV, Roma, Gesualdi, 1978, n. 21311; G. Scalamandrè, I viaggi [vd. infra], pp. 108-109.

Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 6416, f. 144r (lettera a Marcello Del Negro, del 5 aprile 1566, da Francica): G. Scalamandrè, I viaggi [vd. infra], pp. 110-111.

Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 10908 (già Vat. Lat. 7374; esemplare dell’edizione del 1571 del De antiquitate, fittamente annotato dall’autore. Testo-base dell’edizione di Aceti).

British Library, Additional Manuscripts 10263, ff. 259 e 261 (lettere di Barrio a Pier Vettori, 20 settembre e 21 ottobre 1578): F. Solano, Contributo…[vd. infra], pp. 223-224.

British Library, Additional Manuscripts 10276, f. 109 (lettera di Barrio a Pier Vettori, 29 agosto 1578): F. Solano, Contributo…[vd. infra], pp. 222-223.

Edizioni, ristampe e traduzioni

De antiquitate et situ Calabriae

Gab. Barrii Francicani De antiquitate et situ Calabriae libri quinque, Romae, Apud Iosephum de Angelis, 1571 (rist. Locri, Franco Pancallo, 2012).

Gаb. Barrii Francicani De antiquitate et situ Calabriae libri quinque, in Italiae illustratae seu Rerum urbiumque Italicarum scriptores varii, notae melioris. Nunc primum collecti simulque editi [curante Andrea Schotto], Francofurti, In Bibliopolio Cambieriano, 1600, coll. 991-1218.

Gabrielis Barrii, Francicani, presbyteri secularis, De Calabriae antiquitate et situ libri quinque. In quibus urbes, castella, vici, pagi, montes, sylvae, flumina, promontoria, sinus aliaque loca; nес non sanctorum reliquiae; ut et caetera notabilia perspicue descripta. Editio novissima, emendata atque indice aucta, in Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, quo continentur optimi quique scriptores, qui Campaniae, Neapolis, Magnae Graeciae, confiniumque populorum atque civitatium res antiquas, aliasque vario tempore gestas memoriae prodiderunt. Digeri olim coeptus cura et studio Ioannis Georgii Graevii. Accesserunt variae e accuratae tabulae, tam geographicae, quam aliae, ut et indices ad singulos libros locupletissimi, cum praefationibus Petri Burmanni..., Tomi noni pars quinta, Lugduni Batavorum, Sumptibus Petri Vander Aa, Bibliopolae et Typographi Academiae et Civitatis, 1723 [doppia numerazione delle pagine: quella dell’edizione di Schottus e una autonoma da col. 1 a col. 188. Non numerate le pagine contenti gli indici].

Gаb. Barrii Francicani De antiquitate et situ Calabriae Libri quinque, in Delectus scriptorum rerum Neapolitanarum, qui populorum ac civitatium res antiquas, aliasque vario tempore gestas memoriae prodiderunt. Partim nunc primum editi, partim auctiores ac emendatiores. Accesserunt variae, ac accuratae tabulae geographicae, ac aliae cum indice locupletissimo [cura et opera Dominici Iordani], Neapoli, Franciscus Ricciardi, 1735, coll. 119-346.

Thomae Aceti, Academici Consentini et Vaticanae basilicae clerici beneficiati, In Gabrielis Barrii Francicani De antiquitate et situ Calabriae libros quinque, nunc primum ex autographo restitutos ac per capita distributos, Prolegomena, Additiones et Notae. Quibus accesserunt Animadversiones Sertorii Quattrimani Patricii Consentini, Romae, ex Typographia S. Michaelis ad Ripam, Sumptibus Hieronymi Mainardi, 1737.

Gabriele Barrio, Antichità e luoghi della Calabria, trad. it. di Enrico A. Mancuso, Cosenza, Brenner, 1979 (rist. Cosenza, Brenner, 1985).

Ioachimi Abbatis Vita

Ioachini Abbatis Vita per Gabrielem Barrium, in Ioachini Abbatis Vaticinia circa Apostolicos viros / Le profetie dell’Abbate Gioachino intorno alle vite de Sommi Pontefici, In Vico Equense, Appresso Gioseppe Cacchii, 1585.

Ioachimi Abbatis Vita per Gabrielem Barium Franciscanum edita, in Vaticinia, siue Prophetiae abbatis Ioachimi, et Anselmi episcopi Marsicani, cum imaginibus aere incisis, correctione, et pulcritudine plurium manuscriptorum exemplarium opere, et uariarum imaginum tabulis, et delineationibus aliis antehac impressis longe praestantiora. Quibus Rota, et Oraculum Turcicum maxime considerationis adiecta sunt. Vna cum praefatione, et adnotationibus Paschalini Regiselmi / Vaticinii overo Profetie dell’abbate Gioachino & di Anselmo vescouo di Marsico. Con l’imagini intagliate in rame, di correttione, et uaghezza maggiore che gl’altri sin’hora stampati,... A qualli e aggionta una Ruota, et un Oracolo turchesco di grandissima consideratione. Insieme con la prefatione et annotationi di Pasqualino Regiselmo, Venetiis, Apud Hieronymum Porrum, 1589, pagine non numerate. Segue la traduzione italiana: La vita dell’Abbate Gioachino composta per Gabrielle Barrio Franciscano (= Venetiis, apud Ioannem Baptistam Bertonum Sub insigne Peregrini, 1600).

Profetie ouero vaticinii dell’abbate Gioachino, et di Anselmo vescovo di Marsico, con le loro imagini in dissegno, intorno a pontefici passati, e che hanno a venire. Con due ruote figurate...et un oracolo turchesco ... Revisti, e corretti, con aggionta d’alcune maravigliose profetie non piu uscite alla stampa & con le annotationi del Regiselmo, In Ferrara, Per Vittorio Baldini, 1591 (= In Padoua, Nella Stamparia Camerale, 1625).

Pro lingua latina. De aeternitate urbis. De laudibus Italiae

Gab. Barii Francicani Pro lingua latina libri tres. De aeternitate urbis liber unus. De laudibus Italiae liber unus, Romae, Apud D. Hieronymam de Cartulariis, 1554.

Gab. Barrii Francicani Pro lingua latina libri tres. De aeternitate urbis liber unus. De laudibus Italiae liber unus, Romae, Apud Iosephum de Angelis, 1571.

Gabriel Barrius, Francicanus, De laudibus Italiae ad Carolum Mutium, Patritium Romanum, in Thesaurus antiquitatum et historiarum Italiae, mari Ligustico et Alpibus vicinae, quo continentur optimi quique scriptores qui Ligurum et Insubrum, seu Genvensium et Mediolanensium, confiniumque populorum ac civitatium res antiquas, aliasque vario tempore gestas, memoriae prodiderunt. Collectus cura et studio Ioannis Georgii Graevii. Accesserunt variae et accuratae tabulae geographicae, aliaeque, ut et indices ad singulos tomos locupletissimi, Tomi I pars prior, Lugduni Batavorum, Apud Petrum Vander Aa Bybliop., 1704, pp. 9-19.

Studi

L. Accattatis, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, vol. 2: Secoli XVI e XVII, Cosenza, Tipografia Municipale, 1870 (rist. Bologna, A. Forni, 1977), pp. 21-24.

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R. Almagià, La più antica carta geografica speciale della Calabria, «Rivista Critica della Cultura Calabrese», 1, 1921, pp. 3-11.

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E. Arnoni, La Calabria illustrata, vol. 1, Cosenza, Tipografia Municipale, 1874, pp. 171-174.

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