Tommaso Campanella, Lettere, n. 73
AL PADRE IPPOLITO LANCI IN ROMA
Roma, aprile 1627
Padre reverendissimo,
scrivo di mala voglia, però lasciai di farlo fin ora, ch’ella m’astringe, non 
 solo perché sto scontento per non
            poter ottener un minimo favore da questi 
 Signori, ma guai, donde speravo requie dopo ventotto anni di afflizioni; ma 
 ancora perché scrissi di questa
            materia a richiesta di don Virginio Cesarini 
 un opuscolo, e dissi a Vostra Paternità reverendissima sel facesse venire, e
            
 stavo in questa speranza. Ora dunque scrivo in fretta e a forza.
Lascio la definizion del vocabulo e dell’essenza di titoli; e dico qualche 
 divisione per saper quali titoli son alterabili,
            e venir a risponder s’è bene alterarli, 
 massime ne’ cardinali. Altri titoli son dell’offizio o funzione che han 
            nella republica i personaggi atti al governo, come tra laici d’«imperatore», 
«re», «duca», «conte» ecc.: e questi non si
            pônno alterare, né si deveno. Così 
è nella Chiesa titoli di «papa», «cardinale», «arcivescovo», «patriarca», «vescovo»,
            
«abbate» ecc., tutti inalterabili per le cause ivi dette. Altri son titoli 
 della professione, come di «teologo»,
            «medico», «poeta», «fisiologo», «oratore», 
«grammatico», «pittore», «mercante», «marinaro» con gli altri spettanti 
            all’arti speculative e mecaniche, liberali e servili: e questi non si pônno 
 alterare per quel che ne scrissi in detto
            opuscolo. Altri sono titoli significativi 
 della dignità delle persone egreggie, come «illustrissimo», «santissimo»,
            «reverendissimo», 
«venerabile», «clarissimo», «serenissimo», delli quali alcuni 
 han il sostantivo, come «Riverenza»,
            «Santità», altri non l’hanno, come «illustrissimo», 
«clarissimo», dico nell’usanza. Ci è poi titolo di «Altezza» solo
            
 sostantivo, e non s’usa «altissimo», come «signore» e «Signoria».
E tutti questi titoli s’alterano dall’usanza e da’ prìncipi a lor modo; perché 
 si legge nell’epistole di san Geronimo e di
            san Bernardo e nei Concili, ch’al 
 papa si dava il «reverendissimo» e a’ cardinali il «venerabile», il «deoamabile», 
            ad altri il «santissimo». Anzi, Geronimo ad Agostino scrive così: «Beatissimo 
 papae Augustino»; e non ebbero mai fermezza
            i titoli. Alli re scrive Pietro 
 Crescenzo: «All’eccellentissimo misser Carlo d’Angiò, re di Napoli»; poi 
 fu trovato
            il «serenissimo» e l’«invittissimo»; e si lasciò il «missere», che vuol 
 dire «mio signore, e si dice «signore». Di più,
            questi vocaboli non si considerano 
 dall’imposizione per etimologia, ma dall’onor a che significar son imposti; 
            perché «illustrissimo» come il sole è più che «serenissimo» come l’aer 
 disnebbiato, e nondimeno quello è titolo di baroni
            e questo di re.
Or, perché il clero si dice eletto per sorte al governo, come profetò 
 Isaia, e laico vol dir plebeo, a cui l’esser
            governato conviene, è necessario 
 fare ch’i titoli ecclesiastici non communichino co’ laici. Il «santissimo» sta 
 bene
            al papa; ma l’«illustrissimo» a cardinali, a vescovi, a baroni e a camerieri 
 del papa non deve esser commune. E perché già
            è communicato, né si 
 può senza disturbo contraere a cardinali, fu ben pensato dal Papa mutar i 
 titoli di cardinali.
            E perché aequiparantur regibus, secondo i canonisti, li si 
 potria dar la «Maestà» e «serenissimo»,
            o l’«Altezza» e «altissimo»; ma perché 
 non conviene, sì perché i laici si doleriano, sì anche perché la comunanza 
            loro non giova, ma noce alla dignità clericale per le prove assai fatte 
 da me in detto discorso, per questo io dissi che
            il Papa deve alterarli, e accennai 
 i modi. E di più, che altri vocabuli son laudativi, altri onorificativi, 
 altri glorificativi, altri
            mirificativi, secondo scrissi nell’Etica, parlando della 
 virtù della beneloquenza e benevolenza e
            beneficenza, che ci guidano verso 
 il prossimo: si deve considerare dal Papa quali siano e a che grado di superiorità 
            e inferiorità convengono.
Io son un verme, non voglio dar consulta in ciò se non sono comandato 
 per obedienza, nè voglio più mostrar di saper più che
            li volgari cortigiani, 
 già che tanto mi noce l’avere filosofato per servire a’ padroni non volgarmente.
 Quanto
            all’alterazione, non può nocere né dar causa di lamentanze 
 a nessuno, mentre si va con questa regola: di non dare a’
            cardinali e vescovi 
 quei titoli de’ quali si pregiano i prìncipi. Dunque, né «Maestà», né «Altezza», 
 nè
            «Eccellenza», né «Signoria», né «Mercè», vocaboli di Spagna, né altri 
 d’altra nazione a lor conviene; ma altri, cavati
            dalla filosofia morale per 
 utile della republica e dalla santa Scrittura. Quanto sia utile il titolo e a che 
 serve e
            che utilità reca al titolato, a’ titolanti, alla republica, io lo dichiarai in 
 quel discorso; e come dalla confusion di
            titoli presenti ne nascon inconvenienti 
 a tutta la politica e tardamenti di beni, dove non c’è effetto di male, 
Resto al suo comando.
