Tommaso Campanella, Lettere, n. 125
A NICOLAS-CLAUDE FABRI DE PEIRESC IN AIX-EN-PROVENCE
Parigi, 17 luglio 1635
Illustrissimo e reverendissimo signore e padrone colendissimo,
l’officiosissima e gratissima delli 3 di luglio ho letto con piacer singolare, sì
per quanto conosco da quella la
molta affezione e gelosia che porta Vostra Signoria
illustrissima e reverendissima a me e alle cose mie, e che non lascia
per
questo ammirabil zelo e filosofico animo di non avvisarmi quello ch’ad altri
sarebbe causa di doglio e dispetto; sì
anche perché, esaminando me stesso,
mi trovo a punto di quella maniera che Vostra Signoria illustrissima mi desidera
e
cerca farmi. E sol mi duole, che non mi conosce ancora per fatto tutto
a suo gusto, e perché, secondo comprendo, di quattro
cose vengo accusato.
Prima, che non lascio di murmurar contra il signor Cassendo; secondo, che
non conosco la libertà
francesa e mi beffeggio di quanti non son della mia opinione;
terzo, che non ho pensato ancora, dopo tanti studi e
vecchiezza, che ci
pônno esser cose divine in quei libri che più si spreggiano, e che non tutti potemo
saper tutto;
quarto, che lo scriver libri grossi, e confutando l’altrui opinioni,
deventano fastidiosi, che nessun ha tempo di leggerli,
e odiosi per la
maldicenza e per voler ad altri tôr la licenza di meglio filosofare. Laus Deo.
Quanto al primo, mi basta l’innocenza e la relazion che può aver Vostra
Signoria illustrissima da quei che prattican meco
continuamente, com’io non
solo non dico né dissi mal del signor Cassendo, ma sempre bene, e quel che
deve un omo
filosofico; e quanto scrissi nella nuova Etica, tutto l’osservo.
Donde provenga adesso che Vostra
Signoria illustrissima ha lettere tante
in contrario, non ho che dire, se non che tante lettere non potrebben venir
a
lei così false ed empie, ruinose alla sacrosanta amicizia, eziandio s’io non
facessi altro tutti i giorni che tener catedra
contra il signor Cassendo ecc.
Ma questa è impresa o fingimento di sfacendati e poco ben animati verso
me e peggio
verso tutto il genere umano; o ver di persona discortese, che
mai non mi vede né guata, e finge di non farlo, perché mi
trova disputante
contra gli amici e contra filosofi tutti: e non per sua discortesia, o per parer
che sa dar giudizio di
me non conosciuto da lui, ma s’imagina che io, sendo
d’opinione lontana dalle volgari, non fo altro che detestar gli altrui
detti e
scritti. Né può esser che gente chi prattica meco possa far questa relazione
a Vostra Signoria illustrissima, se
non fosse diavolo nato a tentare. Di grazia,
s’informi da chi sempre è meco, e vedrà l’innocenza mia, della quale io fo
stima assai venendo al tribunal di
Vostra Signoria illustrissima; ché, se fosse
altro, non farei conto alcuno, e direi solo: – Mente chi lo dice – ecc.
Quanto al secondo, dico ch’io son venuto in Francia per cercar libertà, e
parteciparla dove la trovo, assai sitibondo dopo
tanti guai, privato di quella. E
or come può imaginar Vostra Signoria illustrissima ch’io voglia tôrla ad altri,
quando
insieme necessario fora tôrla a me? Io, in verità, a quanti vengono a
dirme l’opinion loro non volgari, non solo non
contradico, ma li prego che
provin le lor cose e mi faccian parte; e commendo la generosità, che non si
contenta di cose
ordinarie, e con ogni carità e termino civile io dico che mi
favoriscan insegnarmi tutto il lor dogma, perché io resti
sodisfatto senza contradir
alla parte; e amo e stimo tutti studiosi, e li conorto al meglio, né mai
propongo le cose mie
senza creanza, e pregando che, s’han opinion migliore
e se par a loro ch’io erro, m’insegnino meglio. Anzi, essendo venuto a
trattar
con Calvinisti in casa delli signori Puteani, dopo qualche picciolo discorso
m’offersi a provar che stanno in
errore, con patto che, se mi vincono, io
mi farò Calvinista, e s’essi son vinti, che non possan rispondere, si faccino
catolici;
e non han voluto accettar il patto, forsi perché conoscan la forza delle
mie ragioni, o han la religion per
politica ecc. E nelli ragionamenti filosofici
sempre mi rimetto a chi per consenso di tutti astanti mi dirà miglior
ragioni
ecc. Però non so come Vostra Signoria può aver relazione contraria, se non
da chi non prattica meco e, perché si
sa ch’io non son dell’opinion peripatetica
commune, stima far ottimo giudizio di me appresso Vostra Signoria illustrissima
con dire che contradico a tutti incivilmente, perché questo parrà credibile
a chi sa che non son del commune senno ecc.
Io imparo dalle formiche,
dalle mosche e da tutte le minutezze naturali sempre qualche cosa, e Vostra
Signoria può
creder ch’abborrisco l’imparar dagli uomini?
Talché rispondo al terzo, che io ho cercato tutte le sette del mondo, più
che san Giustino il filosofo, non solo di
legislatori e religioni varie, come si
può veder dal libro intitulato il Reminiscentur ecc.; ma anche
di tutti filosofi,
come vedrà dalla Metafisica. E ho visto che nelle più sprezzate sette vi
son
pensieri mirabili; e quando io le rapporto, è necessario che mostri confutarle,
come fa il Galileo del Copernico: e
pur questa cautela non li bastò. Ma io le
metto al teatro del mondo per ben di tutti. E solo contradico ex
animo, dove
si tratta de fide catholica supernaturali. In vero, s’io fossi qual sono a
Vostra
Signoria descritto, non ci sarebbe persona che mi fiutasse; e con tutto ciò
non ho tempo di mangiare, tanto è il
concorso ecc., salvo di quelli che vi dicono
ch’io sia senza rispetto, e senza ragioni m’antepongo a tutti, e dico
mal
di tutti quanti mi parlano e scriveno. Certo, se fosse così, non tornarebbono
né mi ascoltarebbono né cercarebbeno i
scritti e le stampe e l’intender da me.
Io chiamo tutti alla scola di Dio nel libro dell’universo, dove Dio
vivamente
scrisse i suoi concetti e dogmi; e li revoco dalle scole umane e dalla mia; e li
scongiuro che non mi tengan per mastro – «Unus magister vester, qui in Coelis
est» –, ma per condiscepol loro nella
scola di Dio: e a tutti protesto questo.
E Vostra Signoria intende ch’io, come fan li pedanti arrabbiati dell’amor
di
loro bagattelle, dico: – Credete a me solo. «Addiscentem oportet credere»
ecc. Vostra Signoria mandi la copia di questa
lettera a questi giudici e testimoni
falsi, ché ben vedrà quando restan convinti e confusi del contrario; e
tutti sanno
che questo è il principio de’ miei ragionamenti e officio a che
mi trovo nato: di rivocar gli uomini dalle scolo umane alla
divina, e dai libri
degli uomini a quel di Dio. E di ciò parlai col signor Cassendo, e gustai molto
del suo studio sul
libro di Dio con li strumenti atti. E parlai degli atomi, dicendo
che non mi parean bastanti si non alla materia
dell’universo, ma non
all’arte mirabile e cause altre d’ogni sorte. E lui mi disse che era del medesimo
pensiero; e che
conosceva il senso delle cose, e praecipue delle comete, e l’artefice,
e tutte cause. Io mi spanto
dunque donde a Vostra Signoria vengono
questi avvisi tanto continui; e di più aggiunge che non perdono pur al
signor
Nodeo. Invero m’atterrisco di tante calunnie. Dice Salomone: «Calumnia
conturbat sapientem et perdet robur cordis
illius»; or quanto più di me,
che mi conosco per omo che desidera sapere, ma non sa. Vostra Signoria vedrà
nel primo
libro della Metafisica, dove dimostro che nessun omo sa tutte
cose, ma «quae scimus sunt minima pars
eorum quae ignoramus»; e che di
questa minima parte «Habemus scientiam ex parte, non ex toto»; e che
non la sapemo«prout sunt», ma «prout nobis apparent». E però son tante
opinioni nel mondo; e io non so se devo creder alla capra, quando
dice che la
ginestra è dolce, o a me, che dico amara; e se devo creder al cane, ch’è odorosa
quella cosa ch’a me puzza;
et sic de caeteris. Non son tanto grosso, che
creda a me solo e che non lasci filosofar meglio.
Dispiacemi che non sia a lei
presente per poter mostrare quel che dico ecc.
Al quarto rispondo che tutti i libri miei son aforistici, come può veder,
salvo la Metafisica, dove
fui forzato diffondermi per le cause ch’ella può
considerare. E qua tutti mi dicono che scrivo troppo compendioso e
assai
più ch’Aristotele: e son amicissimo di Salomon in questo e d’Ippocrate.
Né scrivo per dir male, ma per invitar
tutti a trovar il vero e ’l buono a
chi Dio ci ha creato; e s’io confuto le opinioni altrui, non ci è scrittor che
non
lo faccia, con minor, forsi, rispetto: vedi Aristotele. È necessario, per
seminare, levar le spine prima ecc., e però ho
fatto poi li compendi della
Metafisica. Galeno, sant’Agostino, san Tomaso e tanti altri, chi scrisser assai,
son letti da chi
n’ha voglia; così sarò io nella Metafisica, dove non confuto
per confutare, ma per avvertir gli altri
a cercar cose più e megliori. Vostra
Signoria illustrissima diasi pace nel servo suo, ch’è qual lo desidera, e se
le
pare dirmi altro, mi ammenderò sempre ad ogni cenno: e creda che vivo
come scrivo nelli Morali ecc. E
creda a chi mi conosce e non a chi pensa far
giudizio astuto dell’incognito. Ho ripreso Nodeo, che mi tenne li scritti, e
per ciò non li posi a stampa con quel di Iesi; nel resto li son servitore, e io
li feci dar la piazza dal conte
di Brassach; e fo quel che posso per gli amici,
né mi diletto dir li difetti ecc.
Mi piace che le sia venuto il pecorello; e se lo manderà a me, li protesto
che questo lo ricevo per segno di volermi separar
dalla servitù e grazia sua; io
lo feci venir solo per lei e a me non serve. E così le medaglie; e restai
scornatissimo
che non sian tutte, né l’abbia tenute. E per questo adesso, e perché
rifiuta come vanità l’officiosità mia
nello stampar qualche cosa col suo nome
per memoria del mio debito e di quel che le deve il mondo, come a statua
viva
della eterna beneficenza, verrei in pensiero che Vostra Signoria non ha a
gusto ch’io le sia servitore e mi par un volermi
licenziare, tanto più che tien,
almeno probabilmente, ch’io sia quel che m’han descritto a Vostra Signoria
illustrissima
questa ociosa gente zizzaniosa, parlante di quel che non sa.
Dio lor perdoni, e a Vostra Signoria illustrissima e
reverendissima dia lunga
vita e sempre maggior forze per beneficio di tutti buoni. Saluto ecc.
Parigi, a’ 17 luglio 1635.
servitore obligatissimo e veracissimo
Fra Tomaso Campanella ecc.