Tommaso Campanella, Lettere, n. 79

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AL CARDINAL NIPOTE FRANCESCO BARBERINI IN ROMA

Roma, 14 febbraio 1630

Son venuto più volte e per un anno da Vostra Signoria illustrissima e
reverendissima accompagnato dalla fedeltà, gratitudine, innocenza, veracità
e ragione, che devono essere notissime al mondo, avendomi esse liberato
dalle mani del Re e di regii e dell’Imperatore e del Papa, e dall’implacabile
gelosia di Stato, e da ogni lingua e potenza, senza aiuto umano, solo per l’incorruttibile
giustizia del sapientissimo e santissimo Urbano VIII, chi deve
esser imitato da tutti.

E pur non posso aver audienza per gli occhiali contrari apposti agli occhi
di miei signori da statisti. Del che sperar devo che presto s’avvertirà, pensando
contro i detti loro ch’il sole tanto resta immacolato dal fango quanto dall’oro,
e che Vostra Signoria, sendo illustrissima come il sole, non si macchiarebbe,
ma s’esaltarebbe ascoltando questo vilissimo servo, con imitar Cristo,
Dio nostro, «qui exinanivit semetipsum» ecc. e: «cum publicanis et peccatoribus»
ecc.,«propter quod Deus exaltavit illum». Ma perché non ho la ventura
di Toccio Matto, per carta parlarò a Vostra Signoria illustrissima.

Io desidero dell’ingegni calabresi domenicani esquisiti, acuti e laboriosi,
chi per mancanza di culto si perdeno, fare un colleggio Barbarino de propaganda
fide, fondato nel libro del Reminiscentur et convertentur ad Dominum
omnes fines terrae; e fare tanti scolari armati di dottrina, profezia, testimonianze
e desiderio di martirio e notizia di tutte sette e nazioni per buona
istoria e geografia, affin di suscitar la fede quasi smorta tra Cristiani e moltiplicarla
dove non è. E a questo proposito sarìa la chiesa della Madonna di
Monti, concedendo a noi o tutte l’entrate co’ pesi di debiti e dei luochi pii,
o dandoci solo quel che si dà a preti mercenari in quel luoco, dove serviremo
la beatissima Vergine con più decoro e diligenza. E leggeremo a tutte
persone, etiamforastiere, la invincibilità della fede cattolica e ’l modo di
convincer li settari a prima disputa. E per questo ancora desidero stampar
l’opere mie, etiam senza il mio nome, non per mia gloria, perché consisteno
nella conversion generale, per la quale ho fatto la riforma di tutte scienze
secondo li dui codici divini, natura e sacra Scrittura. Perché le nazioni
non insultino più né discredano a noi, come fa Giuliano apostata e ’l Macchiavello
e li statisti, chi, facendo profession di aver Cristo, Sapienza di Dio,
per mastro, poi mendicamo le scienze da’ filosofi gentili, da noi dannati e
giudicati da tutti santi dottori peste occulta e palese del Cristianesimo.

E questo mi hanno comandato i santi Padri, i santi Concili e san Tomaso,
come io mostrai in un opuscolo; e non ho potuto a Vostra Signoria illustrissima
mostrarlo, perché non ho l’amo e l’esca di quelli chi van pescando la
volontà di prìncipi: e però dicono a Vostra Signoria illustrissima ch’io mi queti,
idest nasconda li talenti dati da Dio, lasci cecar li padroni, correr l’ateismo e
la predestinazione al bene e al non bene, come corre, onde ne siegue ognun
faccia a suo gusto, perché i decreti, quomodocumque opererai, non si pônno
mutare da noi né da Dio. Per lo che le conscienze di molti teologi son più
grosse e derisorie della religione che non quelle di prìncipi, chi al papa, vicario
di Dio, contradicono a torto, dicendo a ragion di Stato: e tutti quasi ci
servimo di Dio e del papa, e non servimo a Dio e al papa. E di qui avvenne
la perdita di duecento regni occupati da Maomettani e di quaranta da Lutero.

E perché i miei libri pugnano contra questi settari e falsi fondamenti, dimandai,
secondo l’ordine fatto dal Santo Officio, che siano stampati e possa
ogni revisore dire il suo parere, se son buoni o no. E quelli chi questa mia
giustizia impediscono, mettano in scriptis quel ch’han contea, e non parlino
di nascosto; né mai mi fan veder le qualificazioni, tirati da falsa politica di
chi non vuole ch’altro lume s’accenda onde il loro paresse o minore o tenebre
in cui s’ascondeno, e non vônno mai venir al paragone – «qui male agit
odit lucem», e fanno a Vostra Signoria illustrissima giudicar senza leggere
quel che giudica secondo il loro pregiudizio. Nel gran giorno dell’universal
giudizio al tribunal dell’ultima appellazione li tenerò questa verità a fronte:
che Vostra Signoria illustrissima è ingannata del concetto che li poser di
me con tante e tali astuzie, che li toglieno anche la voglia di disingannarsi.

Ma Dio alla buona intenzion di Vostra Signoria illustrissima farà noto ben
presto quel che li vorrei dire, perché non faccia torto al suo ingegno, né al
suo gran zio, chi vede più di noi, pieno d’occhi ante et retro, come gli animal
sacri d’Ezechiele; e li statisti vi vorrebben ciechi e sordi, che non vediate né
udi[a]te se non co’ sensi loro. Parlo così, perché il calor della ragione e l’obbligo
che porto a Vostra Signoria illustrissima e a tutta Casa Barberina, e la
vera filosofia ch’io professo, e la buona volontà di Vostra Signoria illustrissima,
che non deveria esser ingannata, così mi comandano. E appello alle prove
di quanto io dico e dimando per gloria di Dio e di santa Chiesa e del mio
gran signore, vero sapiente, Urbano VIII; e resto al suo comando, baciandole
le sacre vesti di Vostra Signoria illustrissima e pregandoli dal Signore, eterno
re delle virtù, augmento di quelle a ben di buoni. Amen.

Dalla Minerva, a dì 14 di febraro 1630.

Di Vostra Signoria illustrissima e reverendissima
umilissimo e obbligatissimo servo fedele
Fra Tomaso Campanella
[A tergo:] All’illustrissimo e reverendissimo signore,
mio padrone colendissimo, il signor cardinal Barberini.

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