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contagio

Francesca Alesse,

Contagio come contaminazione nell’antichità greco-romana

Tra gli studiosi della scienza greca e romana e specialmente della storia della medicina antica è in corso da diversi anni un dibattito e una riflessione sulla nozione che l’antichità classica può aver avuto del contagio, ove questo si intenda come trasmissione di una malattia da un individuo all’altro. La questione è interessante per più di una ragione. Da un lato, infatti, è sempre motivo di curiosità ed interesse constatare che gli antichi, quale che sia la civiltà antica presa in esame, se hanno concepito idee sulla natura e sull’uomo decisamente difformi dalle attuali, hanno anche rivelato, tramite varie forme narrative, sentimenti e percezioni molto simili ai nostri. La paura e la repulsione della malattia, e in particolare della sua rapida espansione; il senso di compassione per il malato, al quale non si può sempre fornire l’aiuto che sarebbe necessario; l’allarme per il morbo esogeno che viaggia nell’aria o nell’acqua, malgrado l’impossibilità di averne sensazione; il disorientamento sociale di fronte ad un’epidemia di vaste proporzioni: sono attitudini psicologiche molto ben documentate e non troppo lontane dalle odierne. Ma, naturalmente, il confronto tra antichi e moderni è utile ad un diverso livello, perché permette di affinare strumenti di studio tali che non solo demarcano la differenza e il progresso della mentalità, ma segnalano anche linee di sviluppo e di trasformazione della cultura, a cominciare dal linguaggio. Come ricorda Fabio Stok nel suo saggio Il lessico del contagio, in P. Radici Colace-A. Zumbo (a c. di), Letteratura scientifica e tecnica greca e latina: atti del Seminario internazionale di studi: Messina, 29-31 ottobre 1997, Messina, EDAS, 2000, pp. 55-89, tra i moderni è materia di discussione l’opportunità di tradurre testi antichi che descrivono fenomeni epidemici usando termini generali, tali da richiamare un insieme coerente di sintomi, laddove esiste, sia in greco che in latino, una nomenclatura ricca in riferimento a singole patologie (si vedano in particolare V. Nutton, The seeds of disease; an explanation of contagion and infection from the Greeks to the Renaissance, «Medical History», 27, (1983) 1-34; D. Gourevitch, Peut-on employer le mot ‘infection’ dans les traductions françaises de textes latins?, e M.D. Grmek, Les vicissitudes des notions d’infection, de contagion et de germe dans la médecine antique, in G. Sabbah (éd.), Études de médecine romaine, Saint-Etienne 1988, pp. 49-52). La questione è aperta, per via del fatto che i testi non offrono un quadro unitario delle conoscenze, quanto piuttosto un sistema di nozioni e teorie sviluppato a partire dalla medicina ippocratica, e al contempo una vasta letteratura descrittiva di morbi epidemici. Letteratura medica e non medica presentano elementi di significativo contrasto. Possiamo fornire, per brevità, la seguente sintesi, certamente semplificatoria rispetto ai numerosi testi, ma abbastanza indicativa dei principali atteggiamenti del mondo antico rispetto alla malattia “contagiosa”.

L’indagine della medicina antica si assesta in antitesi alla concezione magico-religiosa relativa al corpo umano, al suo funzionamento, e al rapporto che i fenomeni che lo investono hanno con la sfera divina. Secondo tale mentalità magico-religiosa che perdura anche in età classica, la malattia, e a maggior ragione la malattia epidemica che colpisce un grande numero di persone coabitanti nel medesimo territorio, è riferibile ad una interazione tra dei e uomini che possiamo semplificare come segue: gli dei mandano le malattie ad una comunità come punizione di misfatti molto gravi (generalmente, fatti di sangue, rotture di giuramenti, etc.); gli uomini ricorrono, nei limiti del possibile, a pratiche di ripristino sia dello stato di salute che del rapporto con gli dei. La cura del malato e dei malati è quindi accompagnata da prassi rituali (la più celebre delle quali è certamente il capro espiatorio, ma la più abituale è il consulto oracolare) volti ad allontanare la nemesi divina. Con l’allontanamento fisico del soggetto contaminato, si fa carico ad esso della colpa che potrebbe ricadere sull’intera comunità. Questo arcaico ordine di idee, il cui archetipo, come spesso è stato notato, è certamente in Omero, Iliade I 9-100 e nella sua narrazione della “peste” con cui Apollo colpisce gli Achei, è ampiamente attestato dalla letteratura tragica. Questa ci presenta la contaminazione, detta miasma, preferibilmente come il castigo divino comminato per delitti di sangue, in particolare di familiari (Eschilo, Eumenidi, 280; Sofocle, Edipo re, 96-97; Antigone, 170; Euripide, Medea, 1267-1270, Ifigenia in Tauride, 946, 1177, 1226), o di gravissime violazioni delle leggi divine Eschilo, Supplici, 223; 260-265; Sette contro Tebe, 682; Sofocle, Antigone, 774). La concezione è elaborata in forma escatologica in Empedocle, fr. B 115 DK. Emerge da questa letteratura un modo di intendere il miasma, sul cui etimo e significato torniamo tra breve, non come una malattia ma come una contaminazione morale, la quale sembra poter avere un’implicazione fisica, tale da trasmettersi da un individuo alla sua discendenza o alla sua città. Questa idea di trasmissione del male morale prefigura, per via di metafora, quella del vero contagio patologico, dell’avvelenamento per contiguità (cfr. R. Parker, Miasma. Pollution and Purification in early Greek Religion, Clarendon Press, Oxford, 1983).

La medicina ippocratica rappresenta un cambio drastico di orizzonte culturale. La malattia epidemica o comunque diffusa, è ricondotta al comune modello esplicativo dell’equilibrio degli “umori” (sangue, flemma, bile gialla, bile nera) e quindi ad una causa puramente endogena del morbo. Il contagio è una contaminazione collettiva ma non un passaggio del morbo da un organismo all’altro. La diffusione di una malattia tra individui contigui, avviene, allora, per via di un mezzo (più generalmente l’aria, talora l’acqua), che permette al morbo di introdursi in un organismo. Nasce così la teoria miasmatica (su cui cfr. part. J. Jouanna, Air, Miasma and Contagion in the Time of Hippocrates and the Survival of Miasmas in post-Hippocratic Medicine (Rufus of Ephesus, Galen and Palladius), in Id., Greek Medicine from Hippocrates to Galen: Selected Papers, Brill, Leiden-Boston 2012, 121-146), secondo la quale la malattia è prodotta da un avvelenamento dell’ambiente che spiega il concomitante stato morboso senza ricorrere ad alcuna ipotesi di contatto. In quest’ottica assume grande rilievo anche il rapporto della malattia con le specificità di un territorio ed eventuali suoi mutamenti. Un significativo testimone di questa teoria è il trattato ippocratico Sul morbo sacro (1, 96; 103-109), un’opera che si presenta anche come presa di distanza concettuale e metodologica dalla tradizione dell’origine divina della malattia.

Ma a lato dello sviluppo delle scuole mediche, permane una letteratura, poetica, storiografica, geografica e naturalistica, che non si limita a descrivere importanti fenomeni epidemici ma talora li accompagna con interessanti annotazioni sulla particolare velocità ed espansione dell’epidemia, sulla spiccata vulnerabilità dei medici e dei terapeuti che assistono i malati, e addirittura sulla constatazione che i malati guariti non si ammalano nuovamente, nonostante rimangano prossimi ai malati. Questa documentazione inizia con Tucidide e le sue celebri pagine sulla peste di Atene (II 47-54), e prosegue per secoli, fino all’età imperiale. Ne sono alcuni esempi addirittura Platone, Plutarco, Apollonio Rodio, tra i greci, e Livio, Plinio il Vecchio, Lucrezio e Virgilio, tra i latini. Dell’eccezionale resoconto di Tucidide vanno segnalati: il riferimento all’impotenza dei medici anche per via della natura ignota della malattia, della quale essi sono le prime vittime, data la loro vicinanza ai malati (II 47, 4); l’inutilità delle consuete pratiche religiose (II 48, 1); la notazione geografica del percorso della malattia, partita dall’Etiopia e passata per l’Egitto, la Libia, la Persia e giunta infine al Pireo, da dove si propaga per tutta Atene (II 48, 1-2); l’interessante proposizione di metodo, che lascia al medico e al profano ogni elucubrazione sulle cause del morbo, riservandosi di descrivere i sintomi e tutti gli elementi di fatto, nella speranza che tale descrizione meticolosa possa risultare utile in futuro (II 49); lo scoramento a cui la malattia dà luogo (II 51, 4), nella constatazione che proprio prestandosi soccorso gli uni con gli altri, gli Ateniesi si ammalavano sempre più numerosi (II 51, 5); infine, l’osservazione forse più significativa, perché dettata da un giudizio di tipo politico: la constatazione che l’opera di inurbamento dalle campagne alla città, con il conseguente affollamento di Atene ha potenziato senz’altro la mortalità (II 52, 1-3). Che la densità abitativa, per così dire, sia una concausa della mortalità, Tucidide ribadisce a II, 54, 5, osservando che la malattia non toccò il Peloponneso ma solo Atene e altri centri particolarmente popolosi (poluanthropotata; su ciò cfr. J.E. Atkinson, Turning Crises into Drama: the Management of Epidemics in Classical Antiquity, “Acta Classica”, 44, 2001, pp. 35-52).

Anche in Platone, Leggi, 866 B, la colpa connessa all’omicidio è spesso chiamata miasma, ed è stabilito che essa ricada anche su quel parente della vittima che non persegue l’assassino. La colpa del delitto è contaminante, cioè trasmissiva, ma in un senso, se così si può dire, secolarizzato rispetto alle epoche precedenti e ad altra letteratura, grazie all’estensione della responsabilità a chi non persegue il delitto: il miasma diventa correità. Sempre nelle Leggi, 871 A, è sancito il bando dell’omicida per non contaminare la città e precisamente “templi, mercati e porti”, dove vale la pena notare che i primi due sono luoghi di raccolta dei cittadini e il terzo è un luogo di partenza per altre terre: anche qui abbiamo sottesa la percezione di una trasmissione “fisica” della contaminazione morale, che giustifica l’isolamento del criminale. In ambito romano, Livio (IV 21, 6; V 14, 4) ripropone il modello religioso-cultuale nel descrivere le epidemie del 433 e del 399 a.C., richiamando la consultazione dei libri sibillini, ma si sofferma anche sul senso di sgomento e di desolazione in cui la popolazione versava a seguito dei tanti morti, un elemento che ricorda lo sconforto di cui parla Tucidide. Lucrezio, se da un lato aderisce al modello ippocratico della propagazione aerea del morbo, insistendo sull’importanza di fattori ambientali, geografici e climatici (De rerum natura, VI 1090-1137), dall’altro lato, nel rievocare la peste ateniese, fa suoi gli elementi narrativi tucididei e sottolinea sia che gli Ateniesi rapidamente si trasmettevano il contagio gli uni agli altri (ex aliis alios, VI 1236), sia che i più generosi nel soccorrere i malati finivano per essere prostrati contagibus atque labore (VI 1243). Virgilio, similmente a Lucrezio, pare aderire al modello ippocratico miasmatico della corruptio caeli (Eneide, III 137), ma segnala, a proposito di una epidemia animale, la necessità di abbattere i capi malati perché non si allarghi il contagio (Georgiche, III 468-469). E malgrado qualche descrizione posteriore, ad esempio quella lucreziana, abbia in Tucidide una chiara fonte di ispirazione, ciò non toglie che la percezione del fenomeno epidemico in vari autori greci e latini sia orientata verso una nozione, benché primitiva, di contagio tra individui.

I testi primari e secondari menzionati in questa scheda possono dare un’idea sommaria di questo scenario. Le osservazioni sul sovraffollamento, al pari di quelle sulla necessità dell’allontanamento del contaminato, che avvenga per motivi religiosi, giuridici o sanitari, non trovano giustificazione nel modello ippocratico, basato sulla corruzione dell’ambiente, ma piuttosto nell’intuizione di un contagio da vicinanza. A conferma di ciò, una modesta osservazione lessicale. Come sostenuto dagli studiosi citati, in particolare da Danielle Gourevitch, la parola latina infectio non solo non deve essere intesa nel senso di una infezione di tipo virale (e quindi non andrebbe mai usata la parola infection/infezione per tradurre un testo medico antico) ma nemmeno nel senso di un termine medico. Il vocabolo attiene alla pratica della coloratura delle lane (cf. Plinio, Storia naturale, XI 2 e Seneca, Questioni naturali, III, 25, 4), e l’infector è il tintore. La parola conosce occorrenze metaforiche in campo pedagogico e morale, ma non in ambito medico. Fabio Stok opportunamente fa notare che il miasma, alla base della teoria miasmatica, viene da μιαίνω, che significa letteralmente “macchio” ma con il colore, quindi “tingo”, abitualmente con la porpora. Il termine greco conosce in letteratura (cf. Iliade, IV 141; 146; XVI 795; Eschilo, Sette, 341, Eumenidi, 280, etc.) varie occorrenze in relazione prevalente con il sangue, probabilmente per similarità con la porpora, il che non può non aver evocato l’idea di contaminazione in senso letterale. Ora, possiamo concludere che tanto l’innocua colorazione delle lane quanto il più inquietante macchiare con il sangue non avrebbero senso se non presupponessero il contatto fisico o la strettissima vicinanza. Usare immagini che presuppongono il contatto tra individuo e individuo per descrivere fenomeni morbosi va quindi nella direzione dell’intuizione del contagio interindividuale. Con ciò non si può non rimanere sorpresi di come una percezione empirica e, anzi, decisamente anti-scientifica, aliena non solo, ovviamente, dalle nozioni della scienza moderna ma anche dalle teorie sviluppate dalle coeve scuole di medicina, possa accompagnarsi ad un realismo così spiccato ed equilibrato, in grado non solo di conservare testimonianza precisa dei sintomi della malattia e dei concomitanti fattori sociali, ma anche di delineare in alcuni casi prassi e stili di comportamento che di nuovo, oggi, ci paiono opportuni e ben accetti.

Testi

J.E. Atkinson, Turning Crises into Drama: The Management of Epidemics in Classical Antiquity, Acta Classica, Vol. 44 (2001), pp. 35-52

Johann Andreas Fischer, Dissertatio inauguralis medica de contagio..., Erfurt, 1724

Jacques Jouanna, Greek Medicine from Hippocrates to Galen: Selected Papers,Translated by, Neil Allies. Edited with a preface by, Philip van der Eijk. (Studies in Ancient Medicine, 40.), Brill, 2012

Lisa Kallet, Thucydides, Apollo, the Plague, and the War, The American Journal of Philology, Vol. 134, No. 3 (FALL 2013), pp. 355-382

Robert Parker, Miasma: Pollution and Purification in Early Greek Religion, (1996, Clarendon Press)

Fabio Stok, Il lessico del contagio, in P. Radici Colace-A. Zumbo (a c. di), Letteratura scientifica e tecnica greca e latina: atti del Seminario internazionale di studi: Messina, 29-31 ottobre 1997, Messina, EDAS, 2000, pp. 55-89

Fabio Stok, Medicus amicus. La filosofia al servizio della medicina, "Humana Mente", 9 (2009), pp. 76-85

Fabio Stok, Peste e letteratura, in Medicina e letteratura, Atti del Convegno svoltosi a Salerno il 25 ottobre 2012

M. Vegetti, La medicina in Platone, (1966, Rivista di Storia Della Filosofia)

M. Vegetti, La medicina in Platone, (1967, Rivista di Storia Della Filosofia)

M. Vegetti, La medicina in Platone, (1968, Rivista di Storia Della Filosofia)

M. Vegetti, La medicina in Platone, (1969, Rivista di Storia Della Filosofia)


Ultimo aggiornamento 08/04/2020

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