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ILIESI Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee
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⇦ Illness in ConText, parole di filosofia e orientamento nella pandemia

carcere/segregazione

Quella del carcere è tra le più drammatiche esperienze umane. Segregazione, isolamento sono parole che rinviano a una situazione trattata non di rado dalla letteratura; tuttavia, la realtà dell’esperienza carceraria può essere tanto più dura di quella che viene rappresentata. Abbiamo presente la finestrella con la grata che fa vedere un frammento di cielo azzurro, ma è un’immagine poetica; l’esperienza effettiva della prigione e della costrizione è tutt’altra cosa. Collegata a tale costrizione (ancora oggi) c’è l’esperienza della perdita della dignità umana; ci sono tanto spesso forzata promiscuità, sudiciume, abbandono, violenza. L’esperienza carceraria diventa allora quella estrema dell’essere umano, che per porvi fine può desiderare la morte.

Il “carcere” è anche una formidabile metafora letteraria e filosofica, a partire dall’antichità: quella filosofica pagana, ma anche dei Padri cristiani; si pensi all’immagine del corpo come carcere dell’anima, con tutto quello che segue riguardo ai “sensi” rispetto a ragione e intelletto. Sono anche da ricordare le esperienze di sopportazione e testimonianza di liberazione – di poesia, forza morale ed elevata lievità – stando incarcerati: Socrate, Boezio e altri filosofi, profeti, come pure personaggi politici, sindacalisti perseguitati per le loro idee. Certo, l’inquisitore (politico-tirannico-poliziesco o tirannico-religioso) ha oggi il volto della geometria variabile dell’impersonale coronavirus.

Nella sezione saranno pubblicati testi relativi a esperienze diverse di segregazione.

Testi

Martino Rossi Monti, Il carcere, la tomba, il fango. Sulla fortuna di alcune immagini da Platone all’età di Plotino, ILIESI-CNR, 2020

Germana Ernst, La condizione del carcere: Cardano, Tasso, Campanella, ILIESI-CNR, 2020


Pamela Barletta,

Narrare per avvicinare e liberare. Le favole dal carcere di Antonio Gramsci

«Mi dispiace molto di non poter essere vicino ai miei cari ragazzi e di non poterli aiutare nel loro lavoro per la scuola e per la vita». Antonio Gramsci rivolge queste parole al figlio maggiore, Delio, nell’aprile del 1935, durante la detenzione nel carcere di Turi. La distanza dai figli durante la prigionia è per Gramsci motivo di grande rammarico ed è nella narrazione che rintraccia la sua unica possibilità di colmare l’assenza. A Delio e Giuliano, ma anche alla moglie Giulia, alla cognata Tania e ad altri familiari, indirizza lettere con frammenti di favole di cui è autore e molto tempo dedica alla traduzione di celebri fiabe dei fratelli Grimm.

Certamente l’analisi delle favole, letta all’interno dell’attività gramsciana, permette di individuare finalità care al pensatore, dall’impegno pedagogico a quello politico, come pure di ricostruire l’itinerario filologico e comunicativo della sua officina letteraria. C’è ampio spazio, inoltre, per riflessioni teoriche sull’esercizio di traduzione delle fiabe, sia per ciò che riguarda l’attività in se stessa, sia per le ragioni che la sottendono. Tuttavia, ciò che appare chiaro, e ciò che in questa sede ci interessa indagare, è l’intento di costruire un ponte con chi gli è lontano. Gramsci ricorre alla favola per ridurre le distanze con i suoi cari e superare l’isolamento a cui lo costringe la reclusione. La favola si carica dunque di un potente valore affettivo e traccia il profilo di un uomo che scava nella sua memoria e si aggrappa alle proprie radici nel tentativo di entrare in relazione con la sua dimensione più intima, lo fa e ci riesce.

D’altra parte può risultare tangibile, oggi, come l’isolamento, che esclude il mondo esterno, abbatta i confini con il proprio mondo interiore, crei un continuum tra ciò che è stato e ciò che è, trasformi l’assenza in presenza. Ed ecco che nei racconti ai figli è continuo il richiamo alla sua infanzia e, come è proprio del genere fiabesco, usa formule d’esordio che ricorrono in maniera diversa, ma simile, «io da ragazzo», «quando io ero bambino», strutture che utilizza allo scopo di stabilire un contatto emotivo con i due giovani, bambini anche loro, che non può vedere, ma ai quale vuole essere vicino comunicando in modo affettuoso e semplice. Allo stesso tempo è vivo e forte il richiamo alla propria terra, la Sardegna: «al mio paese si racconta questa storia», come a voler suscitare, e stabilire lui stesso, un legame identitario che è confortevole nell’operazione di ricordo e necessario nella distanza che li separa. Quello di Gramsci è un tentativo di sintonia che passa per la narrazione delle sue storie affinché Delio e Giuliano gli raccontino le loro. Quello che si legge è l’uomo, il marito, il genitore amorevole, ma responsabile, che vuole concorrere al processo di formazione dei figli e prepararli alla vita. Gramsci vuole fare il padre, ma è un ruolo difficile da assolvere nella condizione di recluso, la mancanza di un riscontro immediato a conferma di una relazione positiva è motivo di incertezza, come emerge dalle parole che rivolge al figlio minore:

Caro Giuliano […]. Mi dispiace di non poter discutere con te a viva voce. Non credere che io sia molto pedante, mi piacerebbe ridere e scherzare con te e con Delio di tante cose che interessavano molto anche me quando ero un ragazzo.

La distanza assume qui una diversa e più spaventosa connotazione. Gramsci sente certamente il bisogno di indicare ai figli la via da seguire per diventare uomini capaci di governare la realtà con consapevolezza e capacità critica; d’altro lato teme che le sue esortazioni possano aggiungere alla distanza fisica che li separa, una meno curabile distanza emotiva. Vorrebbe ridere e scherzare con il figlio, il suo è un atto comunicativo che guarda alla relazione in assenza di relazione, è consapevole che il messaggio auspicato ne esce indebolito. La favola è dunque lo strumento narrativo che più si presta al mantenimento di questo equilibrio tra dovere pedagogico e συμπάϑεια.

Leggendo le favole scritte da Gramsci, è subito evidente come esse siano strettamente legate al mondo animale. Gli animali sono spesso i protagonisti dei suoi racconti, non solo, come si è detto, per avvicinare a sé i destinatari della narrazione, ma perché individua un legame significativo tra mondo animale e quello degli esseri umani. A questo proposito mi sembra particolarmente calzante, anche ai fini di un discorso che guarda alla reclusione come esperienza di autodisciplina, quella che la studiosa Gounalis chiama ‘metafora dell’addomesticamento’. Eloquente è la storia dei due passerotti che Gramsci alleva nella sua cella:

Cara Tania, [...] Ti racconterò la storia dei miei passerotti. Devi dunque sapere che ho un passerotto e che ne ho avuto un altro che è morto, credo avvelenato da qualche insetto […]. Il primo passerotto era molto più simpatico dell'attuale. Era molto fiero e di una grande vivacità. L'attuale è modestissimo, di animo servile e senza iniziativa. Il primo divenne subito padrone della cella. [...]. Ciò che mi piaceva di questo passero è che non voleva essere toccato. […]. Si era addomesticato ma senza permettere troppe confidenze. Il curioso era che la sua relativa familiarità non fu graduale, ma improvvisa. […] Un mattino, rientrando dal passeggio, mi trovai il passero vicinissimo; non si staccò più nel senso che da allora mi stava sempre vicino […]. Ma non si lasciò mai prendere in mano, senza rivoltarsi e cercare subito di scappare. È morto lentamente […]. L'attuale passero, invece, è di una domesticità nauseante […].

La condizione dei due passerotti è la stessa, entrambi chiusi con lui nella cella, ma mentre il primo ha stabilito, come dice Gounalis, «un rapporto vantaggioso con il suo ambiente», l’altro «cede(re) a chi è più potente». Il passerotto simpatico a Gramsci, sa dove si trova, è «subito padrone della cella», sa che non è libero, ma non si lascia abbrutire da questa condizione, rimane vivace, curioso e si addomestica da solo, si autodisciplina. Da una parte è dunque forte il richiamo di Gramsci a mantenere un contatto vivo con il mondo reale, che passa anche attraverso lo studio e la conoscenza della storia, in una lettera a Delio dice: «studia solo le cose concrete». Dall’altra è necessario un distacco che ha luogo nella mente, in cui le coordinate spazio temporali rimangono salde, ma può agire la fantasia. Quest’ultima è intesa da Gramsci non come esercizio fine a stesso, che può rivelarsi anche inutile e dannoso, ma come luogo del miglioramento e, si potrebbe dire, di salvezza.

Emblematica, in questa chiave di lettura, è la storia della monaca di clausura che racconta nel 1933 in una lettera indirizzata alla cognata Tania. Anche in questo caso la protagonista è una “reclusa”, un essere umano nell'impossibilità fisica di entrare in contatto con il mondo esterno:

[…] Una suora anziana passeggiava in un cortiletto interno con altre, tutte a capo chino, secondo la regola dell'ordine. Per caso proprio in quel momento, nella visuale dello stretto cortile incassato nell'alto fabbricato, si sente il rombo di un motore e apparve a bassa quota un aeroplano gigantesco. La monaca dimenticò per un istante la regola dell'ordine, levò gli occhi al cielo, vide l'aeroplano e morì poco dopo di rottura d'aneurisma. Credette a un mostro dell'Apocalisse o chissà a che. Non sapeva che ci fosse la guerra, non sapeva che si potesse volare, ecc. [...] quella monaca «mancava di fantasia».

La storia, gli eventi, offrono la possibilità di adattarsi, oggi appare chiaro, ma serve autodisciplina. La conoscenza, lo studio, sono un modo di addomesticare se stessi, ma dipende anche dal modo in cui si agisce, da come si risponde all'ambiente circostante, in breve, da come si esercita la fantasia. Le favole scritte da Gramsci riflettono questa sua visione del mondo, cioè la funzione della fantasia nella realtà storica dell'individuo. Così scrive alla moglie Giulia nel febbraio del 1928:

[...] non devi pensare che la vita mia trascorra così monotona e uguale come a prima vista potrebbe sembrare. Una volta presa l'abitudine alla vita dell'acquario e adattato il sensorio a cogliere le impressioni smorzate e crepuscolari che vi fluiscono (sempre ponendosi da una posizione un po' ironica), tutto un mondo incomincia a brulicare intorno, con una sua particolare vivacità, con sue leggi peculiari, con un suo corso essenziale[...]. Se si conserva la propria posizione estrinseca, se non si diventa un lumacone o una formichina, tutto ciò finisce per interessare e far trascorrere il tempo.

Nell'esperienza carceraria che è isolamento, distanza, privazione, attutimento dei sensi, è necessario conservare «la propria posizione estrinseca», cioè il legame con ciò che proviene dall’esterno, attivando risorse nuove che permettano di sopportare le mutate condizioni fisiche e psicologiche. Il ricorso di Gramsci alla favola può dunque essere letto come una forma di adattamento nella sua declinazione letteraria. È in questa connotazione che l’atto di narrare diventa una possibilità di avvicinamento e di liberazione.

Nella presente nota si fa riferimento ai seguenti testi:
A. Gramsci, L’albero del riccio, a cura di G. Ravegnani, Milano 1948;
A. Gramsci, Favole di libertà, a cura di E. Fubini e M. Paulesu, Firenze 1980;
A. Gramsci, Lettere dal carcere, a cura di S. Caprioglio e E. Fubini, Torino 1965;
N. Gounalis L’addomesticamento come metafora chiave nelle favole di Antonio Gramsci e nei Quaderni del carcere, in Antonio Gramsci e la favola. Un itinerario tra letteratura, politica e pedagogia, a cura di A. Panichi, Pisa 2019, pp. 103-115.


Ultimo aggiornamento 30/04/2020

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