ILIESI
ILIESI Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee
Consiglio Nazionale delle Ricerche
Villa Mirafiori
Via Carlo Fea 2
00161 Roma
Tel. +39 06-86320517
iliesi@iliesi.cnr.it
ATTIVITÀ | Iniziative
⇦ Illness in ConText: parole di filosofia e orientamento nella pandemia
epidemia/peste
In questa sezione figurano, oltre a un contributo sull’etimologia del termine ‘epidemia’, diversi Consigli per contrastare una delle più terribili malattie epidemiche: la peste; si pubblicano testi di Marsilio Ficino, Francesco Frigimelica e di altri autori dell’età rinascimentale. Si aggiungono il De contagione et contagiosis morbis (1546) di Girolamo Fracastoro, cui si fa riferimento nelle voci, e il Del governo della peste e delle maniere di guardarsene di Ludovico Antonio Muratori (prima ed. del testo: Modena 1714; nella presente sezione figura l’edizione stampata a Brescia nel 1721). Per notizie su quest’ultima opera si veda la scheda nel sito del Centro di studi muratoriani. Si veda anche la voce “peste”, relativa agli scritti di Tommaso Campanella, nel vol. II della Enciclopedia bruniana e campanelliana (Pisa-Roma 2010).
Testi
Ludovico Antonio Muratori, Del governo della peste e delle maniere di guardarsene, Brescia, G. M. Rizzardi, 1721
Guido Giglioni,
Contagio e immaginazione: la peste in Jan Baptista van Helmont
Quando ci si sofferma ad esaminare l’origine latina della parola ‘contagio’ (contagio, contagium, contamen) riferita alla trasmissione di malattie, si scopre che il referente primario del termine è quanto di più corporeo si possa immaginare: è l’atto fisico del toccare, il contatto, e quindi il tatto. Eppure, le azioni del toccare e del contatto, come ci confermano le rispettive voci nei dizionari latini, hanno anche un’immediata relazione con l’idea di influenza, influenza che può essere di natura corporea – mediata quindi da atomi, corpuscoli e altri agenti intermedi di tipo fisico – ma anche incorporea. Valgano per tutti gli esempi delle facoltà mentali e del contatto diretto con Dio, apice dell’unione mistica. Una persona ‘tócca’ è toccata nel cervello, mentre nel caso della mente che tocca il nume divino, questo contagio è ‘virtuale’, per usare il termine di Tommaso d’Aquino nella Summa theologiae (I, q. 105, 2 ad 1), dove la virtus in virtualis va intesa nel senso di forza:
duplex est tactus: scilicet corporalis, sicut duo corpora se tangunt; et virtualis, sicut dicitur quod contristans tangit contristatum. Secundum igitur primum contactum, Deus, cum sit incorporeus, nec tangit nec tangitur. Secundum autem virtualem contactum, tangit quidem movendo creaturas, sed non tangitur: quia nullius creaturae virtus naturalis potest ad ipsum pertingere.
Così, sospeso tra contatto fisico e influenza immateriale, il termine contagio racchiude un viluppo inquietante di significati in cui si intrecciano corpo, emozione e immaginazione. Questa idea di contagio è stato studiato in ogni sua possibile sfaccettatura dal medico fiammingo Jan Baptista van Helmont (1579-1644). Si potrebbe anzi dire che il fenomeno del contagio è alla base della sua speculazione medico-filosofica in senso generale. Se infatti è vero che le malattie specifiche da contagio (tra cui la peste e la sifilide) rientrano in una precisa sezione all’interno del sistema nosologico che van Helmont ha delineato nella sua opera principale, l’Ortus medicinae (La nascita della medicina, pubblicata postuma nel 1648), è anche vero però che l’immaginazione in quanto forza (vis o virtus) è secondo van Helmont all’origine di ogni processo morboso – anzi, a parlar propriamente, è all’origine di ogni processo vitale.1
E qui è dove le cose si complicano enormemente, perché i confini tra il fisico e il mentale – confini che sono problematici in ogni contesto culturale, intellettuale e disciplinare, ma lo sono in modo particolare nell’ambito della medicina – devono essere esaminati e maneggiati con estrema attenzione, pena la caduta nel pensiero frivolo, soprattutto quando i confini tra il fisico e il mentale vengono dissolti attraverso l’agile strumento della metafora. Susan Sontag – a mio avviso, in modo molto pertinente e convincente – ci disse di resistere la tentazione di metaforizzare quando si discute di malattia, nonostante di metafore sia intessuto ogni discorso umano (Illness as metaphor, 1978). L’opera di van Helmont ci esorta a pensare al nesso tra corpo, emozione e immaginazione evitando le insidie delle metafore e degli enti di ragione. Questo, secondo lui, era il pericolo rappresentato all’epoca dalla medicina galenica e scolastica: parlare di una malattia come di un disequilibrio umorale era infatti un modo elegante per trasferire l’orrore dei corpi malati nel regno delle metafore matematiche. Per van Helmont, la malattia è una realtà brutale e spaventosa – questa è l’eredità paracelsiana – e la vera tragedia è che l’immaginazione, lungi dall’essere la facoltà dei sogni a occhi aperti o dei voli pindarici della ragione ogni volta che questa si sforza di unire i sensi all’intelletto, è una forza reale della natura, presente ad ogni livello e struttura della materia. Le malattie sono delle realtà terribili e spaventose per van Helmont proprio perché la natura è sempre nell’atto di immaginare, in ogni momento e ad ogni livello del suo essere. Se il medico non deve metaforizzare quando indaga i processi patogeni e soprattutto cerca di provvedere alla loro cura è perché la metafora – la produttività materiale dell’immaginazione – è all’origine del male che affligge la natura, decaduta dopo il peccato originale. La natura è infatti condannata a immaginare dal momento che è costantemente sollecitata a reagire ad ogni sorta di stimolo percettivo e a mutare di conseguenza incessantemente.
Una sintesi poderosa dei temi caratteristici del pensiero medico helmontiano si trova nell’opera intitolata Tumulus pestis, il cui frontespizio invita il lettore a pensare al libro come alla tomba in cui giace sepolta la peste, finalmente debellata da rimedi efficaci e dall’applicazione di un metodo corretto. Il testo di circa 180 pagine, pubblicato a Colonia nel 1644 per i tipi di Jost (Jodocus) Kalckhoven, è una sorta di lugubre sinfonia sul tema della peste. La struttura è straordinariamente composita. Oltre alle tradizionali sezioni diagnostiche, terapeutiche e profilattiche, il libro contiene infatti delle parti che non ci aspetteremmo in un trattato medico, come il resoconto di un’elaborata visione onirica, storie narrate sul modello del romanzo epistolare pseudo-ippocratico, una rapida rassegna delle opinioni degli antichi e un’articolata teoria dell’immaginazione. Peter Coens, canonico della cattedrale di Antwerp incaricato di esaminare e eventualmente censurare il testo, dichiara alla fine del volume che «la peste è stata descritta e trattata con precisione, dal celeberrimo ed espertissimo Jan Baptista van Helmont, e, dopo aver rivelato al pubblico un gran numero di segreti della natura, l’opera è degna di essere divulgata attraverso la stampa»..2 Si tratta di un nihil obstat importante perché appena sette anni prima van Helmont era ancora agli arresti domiciliari per aver pubblicato il De magnetica vulnerum curatione (1621), trattato in cui si sosteneva l’effettiva realtà di azioni a distanza in natura, compresa l’azione «magnetica» del contagio. Le idee mediche, filosofiche e teologiche discusse nel Tumulus pestis sono fondamentalmente le stesse di quelle difese nel trattato sulla cura magnetica delle ferite. La differenza è che nel 1644, le gerarchie ecclesiastiche cattoliche erano diventate meno ostili nei confronti di van Helmont. Nel 1646, due anni dopo la morte, sarebbe stato ufficialmente riabilitato dall’arcivescovo di Malines.
Come accennato, la teoria helmontiana del contagio pestilenziale riprende il modello esplicativo già esposto nel De magnetica vulnerum curatione. Le azioni a distanza di attrazione e repulsione presuppongono da parte di ogni ente naturale la capacità di percepire ed essere affetto in vari modi da altri enti naturali, reagendo di conseguenza. Questa forza è l’immaginazione. Van Helmont appartiene a quel genere di teorici della malattia per il quali la malattia è un prodotto della vita. Un corpo si ammala quando lotta per la propria sopravvivenza. L’essere della malattia (ens morbosum) risiede nel principio vitale, che van Helmont, in linea con i principi della medicina paracelsiana, chiama archeo. La grande catena dell’essere helmontiana è costituita da gradi diversi di immaginazione. I livelli più potenti sono quelli chiamati «archeali», ovvero quelli che appartengono ai principi originari dell’essere. L’immaginazione intesa come una facoltà rappresentativa della mente umana, per quanto potente, è in realtà un effetto secondario e molto illanguidito di questa originaria carica energetica. Soprattutto, l’immaginazione umana ha la caratteristica di essere inaffidabile, poiché, oltre ad essere facile preda delle emozioni, tende a proiettare sulla natura indebite associazioni di idee elaborate da una coscienza – l’anima sensitiva – anch’essa sfigurata dal peccato originale.
1 Jan Baptista van Helmont, Opera omnia, a cura di Michael Bernhard Valentini, Frankurt, Hieronymus Christian Paulli, 1707, pp. 530, 580-581. All’interno di quella che van Helmont chiama phalanx morborum, le epidemie da contagio rientrano nella categoria recepta inspirata, ovvero tra le malattie che un organismo riceve dall’esterno attraverso il medium dell’aria.
2 Jan Baptista van Helmont, Tumulus pestis, Köln, Jost Kalckhoven, 1644, sig. M3r. (Si veda in questa sezione l’indicazione che figura alla pagina sig. Yyy3v dell’edizione del testo pubblicato in Id., Opuscula medica inaudita, Lugduni, Sumptibus Ioan. Baptist. Devenet, 1655, pp. 141-192)
Testi
Jan Baptista van Helmont, Tumulus pestis, in Id., Opuscula medica inaudita, Lugduni, Sumptibus Ioan. Baptist. Devenet, 1655, pp. 141-192
Delfina Giovannozzi,
Il tema dei Consilia contro la pestilenza
Tra le malattie epidemiche che hanno flagellato il continente europeo, la peste è – sin dall’età classica – una delle più temute e, forse proprio per questo, più raccontate, sia nelle fonti storiche che letterarie. I medici, a partire da Ippocrate, hanno tentato di spiegarne l’eziologia con paradigmi teorici più o meno complessi, dispensando al tempo stesso precetti pratici che consentissero di arginare il rapido dilagare del morbo – connesso soprattutto con grandi movimenti migratori, o il perdurare di eventi bellici, con il conseguente peggioramento delle condizioni socio-sanitarie della popolazione.
A partire dalla metà del XIV secolo, quando un’ondata pandemica originatasi in Asia centro-settentrionale travolse nel breve volgere di pochi anni il cuore dell’Europa, cominciarono a moltiplicarsi gli scritti medici con finalità pratiche che vanno sotto il nome di Consilia. Si tratta per lo più di opuscoli brevi, in cui a una rapida ricognizione delle cause che sono all’origine del morbo (e che vengono rintracciate soprattutto in particolari congiunture astrali) e dei signa, celesti o ambientali, che ne precedono l’insorgere, fanno seguito consigli pratici per riconoscere la malattia e curare gli infermi. Redatti per lo più in latino, tramandano contenuti fortemente standardizzati, anche se non manca l’attenzione ai problemi sanitari specifici della malattia o il richiamo a casi particolari, che i medici dichiarano di aver curato con successo con l’applicazione dei loro personali remedia. Solo nella seconda metà del XVI secolo, in corrispondenza di una recrudescenza dell’epidemia che con cicli intermittenti continuava ad affliggere l’Europa, si registra un notevole proliferare di Consigli in volgare.
Si presentano in questa sezione alcuni testi di autori della prima età moderna dedicati alla peste. Va precisato che con questo termine veniva indicata sia la peste bubbonica sia altre malattie epidemiche manifestatesi nel corso del XV e del XVI secolo. In questo periodo si ipotizza ci sia stata in Europa anche un’alta incidenza della tubercolosi, del morbo cui fu dato il nome di ‘sudore anglico’, dello scorbuto (particolarmente in caso di carestie e assedi, o di lunghi viaggi per mare), nonché del morbus Gallicus, che dalla fine del Quattrocento divenne una delle minacce più gravi per la salute, prima in forma epidemica, quindi in forma endemica, e che comunque non veniva distinto da altre malattie a trasmissione sessuale.
Delfina Giovannozzi,
Il Consilio contro la pestilentia di Marsilio Ficino
L’impegno medico-scientifico di Marsilio Ficino in occasione dell’epidemia scoppiata a Firenze nell’agosto del 1478 si concreta nella stesura di una serie di Ricette e di un trattato organico, il Consilio contro la pestilentia, redatto nel 1479, diffusosi rapidamente attraverso la stampa del 1481 (inserita nella presente sezione) e più volte ristampato nel corso del XVI secolo. Nel 1516 il Consilio fu tradotto in latino da Girolamo Ricci e pubblicato ad Augsburg nell’ottobre del 1518. Il testo viene presentato da Ficino stesso come «atto di carità inverso la patria» in un momento drammatico come l’infuriare della peste sulla sua «Fiorenza»; esso si inserisce a pieno titolo nella tradizione dei Consilia, brevi trattati di argomento medico dalle finalità pratiche, rivolti a un pubblico non necessariamente specialistico e contenenti indicazioni precise per riconoscere e contrastare la malattia.
Tra i primi scritti medici redatti in volgare, il Consilio presenta molte analogie con testi della medesima tradizione, ma offre anche spunti di novità, inserendosi con coerenza nella produzione medico-filosofica di Ficino; con essa condivide gli stessi strumenti interpretativi dei fenomeni naturali e della fisiologia umana, riservando grande spazio alla teoria e alla prassi astrologica e al ruolo dello spirito, l’elemento di mediazione tra l’anima incorporea e la materialità del corpo, attraverso il quale si esplicano le funzioni vitali dell’organismo, sia a livello individuale sia sul piano cosmico, e che risulta corrotto con l’insorgere del morbo. Già dalle prime battute del testo, in cui si cerca di definire cosa sia la pestilentia, essa viene descritta come un «vapore velenoso concreato nell’aria, inimico dello spirito vitale»; tale vapore si origina a seguito di particolari congiunzioni degli astri ed è favorito a livello sublunare da diversi fenomeni (venti e vapori «maligni», pantani e terremoti) che interessano determinate regioni terrestri; per la loro natura specifica queste ultime reagiscono in modo peculiare a un influsso astrale che si estende in realtà sul tutto.
Come difendersi allora dalla furia del morbo? Ficino dispensa consigli pratici e ricette – prima fra tutte quella della celeberrima teraica –, prevede l’uso delle immagini incise su particolari materie facendo attenzione alla disposizione del cielo; ma soprattutto raccomanda uno stile di vita sobrio – non disgiunto dalla letizia che «fortifica lo spirito vitale» – che consentì a Socrate di conservarsi «in molte pestilentie extreme che furono nella città d’Athene». Come ribadirà in De vita, III, 4, fuggire gli eccessi, respirare un’aria temperata, mantenere l’animo lieto e lontano da pensieri minacciosi e tristi corrobora e fortifica lo spirito individuale ponendolo sotto l’influsso benefico del Sole e rendendolo immune dalla putrefazione e dal contagio.
Testi
Marsilio Ficino, Consilio contro la pestilenza, impressum Florentie, apud Sanctum Iacobum de Ripolis, 1481
Delfina Giovannozzi,
Il Trattato de la pestilentia di Girolamo Manfredi
Intellettuale poliedrico, medico, filosofo e astrologo, Girolamo Manfredi (1430 ca.-1493) incarnò in maniera esemplare il modello dello scienziato di scuola aristotelica nella Bologna del secondo Quattrocento. Si laureò in filosofia nel 1455 presso lo Studio di Ferrara e nel 1466 in medicina a Parma; dal 1455 al 1493, anno della sua morte, fu lettore presso lo Studio di Bologna di logica, filosofia, medicina e astronomia, con successo crescente, come si evince dal suo salario, notevolmente più alto di quello dei suoi colleghi medici e artisti.
Il suo Tractato de la pestilentia ebbe una prima edizione in volgare nel 1478 e venne tradotto in latino dallo stesso Manfredi l’anno successivo. Pur inserendosi nella scia di una consolidata tradizione medico-astrologica, l’opuscolo è una testimonianza acuta del percorso intricato della conoscenza medica sulla peste; l’approccio al tema è decisamente divulgativo e antiaccademico, il ricorso alle auctoritates resta limitato a poche indicazioni cliniche. Nel complesso l’opuscolo tenta di offrire un sistema coerente e razionale delle conoscenze disponibili sul morbo, dando al tempo stesso una serie di consigli pratici, senza i quali la salvezza del malato è necessariamente delegata «alla fortuna». L’autore si dice mosso a redigere l’opuscolo sotto la spinta della «compassione» e della «pietà», poiché i medici competenti, per paura del contagio, si rifiutano di curare chi ha contratto il morbo e solo gli ignoranti accettano di correre il rischio, spesso procedendo senza la competenza necessaria, «casualiter», somministrando a tutti indifferentemente gli stessi rimedi, senza valutare come i medesimi influssi astrali agiscano in realtà in modi diversi, a seconda dei luoghi, delle geniture e del temperamento del malato. La scienza medica propugnata da Manfredi è sempre fortemente collegata con l’astrologia.
Il trattato si articola in nove capitoli, dedicati rispettivamente (I) alla definizione del morbo, (II) alla descrizione delle cause che lo originano, (III) dei segni (astrologici) che lo anticipano, (IV) di quelli che ne dimostrano la presenza nell’aere corrotto; si passa quindi ad esaminare (V) quali siano gli individui predisposti a contrarre la malattia, (VI) quali i luoghi più facilmente soggetti all’infezione; (VII) quali siano i segni in chi ha contratto il morbo senza recare tracce corporee come l’apostema, (VIII) quali le regole e i precetti per prevenire l’infezione, (IX) i rimedi per chi l’avesse contratta. Pillole, ricette, impiastri da preparare sempre tenendo conto della complessione specifica dell’ammalato e infine una prescrizione generale, che giova a ogni temperamento, che i non esperti in medicina possono somministrare con successo a ogni ammalato. Non mancano, nel caso il paziente «fosse povero», varianti economiche di ricette che prevederebbero l’uso di minerali preziosi e il ricorso alla chirurgia per intervenire sul bubbone; tutti i rimedi indicati sono volti a «confortare gli spiriti del core», coerentemente con la definizione del morbo data in apertura del trattato: «infirmità venenosa & contagiosa la quale se genera ne le vie del core per putrefatione & corruptione del spirito vitale che è in esso core: unde quello corrupto & venenato mancha la vita del homo».
Testi
Girolamo Manfredi, Tractato de la pestilentia, Bologna, Johann Schriber, 1478
Delfina Giovannozzi,
Il Testamento preservativo e curativo per defensione dell’umana generazione dal morbo pestilenziale di Bonino Mombrizio
L’umanista e filologo Bonino Mombrizio nacque a Milano attorno al 1424 e morì nella stessa città nel 1482 ca; compì gli studi universitari (humanae litterae, ma forse anche medicina e diritto) a Ferrara e con la città e la corte estense mantenne a lungo profondi legami. Gli anni più documentati della sua vita sono quelli relativi al periodo milanese che va dal 1458 al 1478, in cui ricoprì diverse cariche ufficiali e insegnò latino e forse anche greco, come successore di Francesco Filelfo. Fu strettamente legato alla corte degli Sforza, ai quali dedicò diversi componimenti d’occasione.
Gli interessi di Mombrizio furono molto vari, scrisse su temi disparati: storici, filologici, medici, religiosi. Si occupò di testi grammaticali (una traduzione latina della grammatica greca di Costantino Lascaris e l’edizione a stampa del Glossarium Papiae), di testi storici (le Historiae Augustae); pubblicò una traduzione latina della Teogonia di Esiodo, ma si interessò anche ad argomenti geografici (curò un’edizione del Polystor o De situ orbis terrarum di Solino), e a opere scientifiche e mediche. La sua produzione poetica è testimoniata dai Momidos libri, un poema sui vizi delle donne. Il suo contributo più significativo è nella storia dell’agiografia con il Sanctuarium seu Vitæ sanctorum, una raccolta di storie di santi da lui edita in due volumi in folio (1478).
Gli scritti che vanno sotto il suo nome sono caratterizzati in apertura da qualche verso di presentazione o dedica. Non sempre però si riesce a stabilire con certezza se Mombrizio sia stato l’autore o soltanto il curatore-editore delle opere che vanno sotto il suo nome. È il caso del Testamento preservativo e curativo per defensione dell’umana generazione dal morbo pestilenziale, dato alle stampe a Milano, per i tipi di Antonio Zarotto, nel 1477; Mombrizio è senz’altro autore dei tre distici iniziali indirizzati al lettore, che sono stati interpretati da alcuni studiosi come una presentazione del libretto, non dell’autore. L’opuscolo sarebbe l’unico testo in volgare di cui Mombrizio si sia occupato, insieme con la Vita di Caterina d’Alessandria.
Il trattato esordisce esplicitando le ragioni che hanno mosso l’autore a comporre il testo e che ricalcano quelle degli analoghi trattati redatti nello stesso scorcio di tempo, sotto l’urgenza concreta del dilagare dell’epidemia; in primo luogo la «compassione», e la necessità «di provvedere al bisognio et scampo del humana generatione per lo pericolo del morbo pestilentiale». Il volumetto è scritto intenzionalmente in modo semplice e chiaro, perché ogni persona «litterata e non, lo possa chiaramente intendere et usare». L’autore ha cura di anticipare nel dettaglio i contenuti dell’operetta, dichiarandone la struttura bipartita – una prima sezione dedicata alla definizione del morbo secondo le autorità del passato e una seconda parte riservata alla cura, preventiva e d’intervento su chi abbia già contratto la malattia – e l’articolazione in 4 ampi capitoli: il primo dedicato alle ragioni che scatenano il morbo e alle diverse tipologie; il secondo relativo al regimen da osservare per mantenersi in salute, il terzo alle questioni mosse dai disputantes, che però vengono velocemente archiviate come beghe di litterati, il quarto riservato alla cura degli infermi.
La peste viene definita come «una mutazione facta nell’aere», che ne corrompe la natura e pregiudica la salubrità; le cause che «corrompono e occidono l’aere» vanno rintracciate in primo luogo nelle congiunzioni astrali negative (quelle che coinvolgono Saturno e Marte «in la casa de la vita») e nelle eclissi di Sole e Luna, che fanno marcire l’acqua e causano la putrefazione della terra; un ruolo centrale hanno poi i cadaveri in decomposizione, dai quali si levano vapori («fiati») che corrompono l’aria, gli alberi «de mala complexione» (noce, sambuco e fico, tra gli altri) e gli animali «velenosi» (Draghi, serpenti e tigri). Tra le 4 ragioni «particulari» che concorrono al diffondersi del morbo vengono indicate prima di tutto la specifica disposizione del paziente, quindi la «forteza de l’agente», la «picadeza», ovvero la contiguità fisica con qualcuno che sia già ammalato, e che si realizza attraverso il contatto, non necessariamente diretto ma mediato dall’aere corrotto dai «fiati» dell’infermo; la «dimoranza», ovvero il soggiornare nelle zone infette. Si passa quindi alla descrizione delle buone pratiche che devono preservare i corpi dalla malattia e che coincidono, in sostanza, con quelli indicati dalla tradizione: respirare un’aria salubre e temperata, mangiare e bere con moderazione, evitando i cibi troppo umidi, rispettare un giusto equilibrio nel ritmo tra il sonno e la veglia, lavoro e riposo. Fondamentali sono poi gli affetti dell’animo, alcuni dei quali fiaccano le energie del corpo (ira, tristezza, paura etc.) altri contribuiscono a fortificarlo; importante è allora «stare con alegreza et consolatione, con canti e cansoni e solazo e lezere historie, fabule et novelle de consolatione e de letitia». Tra le letture raccomandate figurano il Decameron, l’Iliade, le storie romane, compendi della Bibbia, ma anche l’Ars amandi di Ovidio e le Epistole, la preghiera e la contemplazione.
Nei luoghi in cui la malattia non si è ancora diffusa, va comunque «schifata la conversatione de la gente», dal momento che il contagio si diffonde attraverso l’aria e il respiro; è importante dunque che «i rectori de i luochi sani» facciano divieto a chi arrivi da zone già infettate di entrare nelle aree non ancora interessate dal morbo e condurre quanto più possibile una vita ritirata e solitaria; ove possibile, si raccomanda di fuggire verso luoghi remoti e sani alle prime avvisaglie del diffondersi della malattia. Gli ambienti chiusi vanno depurati con fumigazioni ricorrenti, i muri lavati con aceto, acqua rosata o altre sostanze aromatiche, che possono essere anche racchiuse in un panno e portate con frequenza al naso; per i più poveri si consiglia un mazzetto di erbe aromatiche e si raccomanda di lavarsi e sfregare il corpo con aceto, laddove a chi ne avesse disponibilità viene consigliato l’utilizzo di buon vino. Ricette e pillole, dalla teriaca al bollo armeno, dall’urina dei «mamoleti» allo sciroppo benedetto, sono raccomandate per questa prima fase preventiva.
Il capitolo quarto è invece esplicitamente dedicato alla cura di chi avesse contratto il morbo, ricordando come «l’aere attosegato» non dà vita – come nelle condizioni di sanità – ma arreca morte, pertanto si deve quanto più possibile ripulire dai fiati pestiferi dell’ammalato. In questa fase, in cui molti dei rimedi suggeriti per prevenire l’insorgere del morbo restano comunque validi, è necessario affidarsi alle cure del chirurgo o del «barberio», che sappia intervenire con salassi e flebotomia nelle aree del corpo poste in relazione con la presenza del bubbone (non necessariamente in prossimità di questo) e liberare così il corpo dalle superfluità degli umori; si raccomanda vivamente l’uso della chirurgia per l’asportazione dell’apostema. Viene raccomandato inoltre l’uso di impiastri, elettuari «freschi e cordiali», cioè capaci di recare sollievo al cuore, l’organo principale del corpo, motore della raffinazione del sangue che porta alla formazione degli spiriti vitali, che nel caso di malattia risultano contaminati e illanguiditi. Le ultime indicazioni del trattato riguardano la scelta del medico, che deve essere istruito tanto nella teoria quanto nella pratica della medicina, competente nella fisica come nell’astrologia, perché l’una scienza presuppone l’altra; ma soprattutto – conclude l’autore – è necessario guardarsi dal medico privo di carità verso il prossimo, che si mostra interessato solo al denaro, ricercando quello di «conscientia […] e di scientia perfecta […]. Imperzò sel non ha queste conditione tu potrai perire».
Testi
Bonino Mombrizio, Testamento preservativo e curativo per defensione dell’umana generazione dal morbo pestilenziale, Milano, Antonio Zarotto, 1477
Delfina Giovannozzi,
La Descrizione della peste di Firenze di Niccolò Machiavelli
Il testo, incluso negli opera omnia machiavelliani sin dall’edizione delle Opere del Segretario fiorentino pubblicate sullo scorcio del Settecento (Opere di Niccolò Machiavelli, Cittadino e Segretario Fiorentino, 8 tomi, s.l., s.n.t., 1796-1799: VIII, pp. 49-74), si presenta come un’epistola, «conforto non piccolo in tutte le miserie umane», indirizzata a un amico momentaneamente allontanatosi da Firenze per fuggire all’infuriare della peste. Dilagata in Toscana nell’autunno del 1522, la ‘moria’, come veniva chiamata nel linguaggio comune, avrebbe raggiunto il momento della sua massima virulenza nella primavera del 1523, che è esattamente la data alla quale va ricondotta la stesura del testo, benché nell’edizione del 1799 e nelle successive edizioni ottocentesche, si indichi, già nel titolo, la data del 1527, anno della morte di Machiavelli. Sulle complesse questioni di attribuzione dell’epistola, che a partire dal 1885, fu ascritta a Lorenzo Strozzi, si è recentemente soffermato Pasquale Stoppelli (Niccolò Machiavelli, Epistola della peste, edizione critica secondo il ms. Banco Rari 29, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2019), restituendola in maniera assai convincente alla penna machiavelliana. Nella sapiente finzione letteraria che permette all’autore di utilizzare registri diversi, che alternano i toni tragici ai passaggi comici e grotteschi, il testo si presenta come una sorta di realistico itinerario nella città sconvolta dall’imperversare del morbo, stravolta nei suoi ritmi quotidiani e nella gestione dei rapporti interpersonali e affettivi. Con una sapiente ripresa di temi e stilemi boccacciani, e un debito evidente con l’Introduzione alla prima giornata del Decameron, l’epistola si apre con la descrizione della «misera Fiorenza» che, come «una città dagli Infedeli forzatamente presa, e poi abbandonata», appare deserta, sudicia, priva della vitalità della quale pullulavano strade e mercati, in balia di ladri e di assassini che approfittano della sospensione della legge legata alla chiusura dei tribunali, irriconoscibile:
Le pulite e belle contrade, che piene di richi e nobili cittadini esser solevano, sono hora puzzolenti e brutte, di poveri ripiene, per la impromptitudine de’ quali e paurose strida, difficilmente e con paura si và. Sono serrate le botteghe, gli esercitj fermi, i Fori tolti via, prostrate le Leggi: ora s’intende questo furto, ora quell’omicidio; le piazze, i mercati, dove adunarsi frequentemente i Cittadini solevano, sepolcri sono ora fatti e di vili brigate ricettacoli.
I rapporti umani sono sovvertiti, «gli huomini vanno soli», gli stessi familiari si allontano dai loro cari e «ciascuno và largo»; madri e padri «schifano» i propri figli e li abbandonano. Non è raro invece incontrare avventori che camminano portandosi frequentemente al naso fiori, erbe aromatiche, spugne ed ampolle contenenti spezie, secondo «i provvedimenti», le raccomandazioni e i rimedi empirici che circolavano sia oralmente sia nei Consilia medici, che continuavano a essere stampati sull’onda emotiva del diffondersi dell’epidemia. Non senza una punta di ironia l’autore ricorda come egli stesso, prima di uscire, sia solito ricorrere ai rimedi suggeriti dai medici per prevenire il contagio, «ne’ quali, quantunque lo egregio Mingo (Mengo Bianchelli, che esercitò l’arte medica nella Firenze di fine Quattrocento e inizi Cinquecento, una ricetta del quale era stata ripubblicata nell’edizione del marzo 1523 del Consiglio ficiniano dagli Eredi di Filippo Giunta) dica che son corazze di carte, ho fede certamente e non piccola».
Al registro tragico di apertura presto si sovrappone infatti il tono comico-grottesco delle pagine seguenti, che raccontano le avventure occorse al narratore in questa giornata di primavera («il calendimaggio», per l’esattezza) tanto diversa dal consueto. Un itinerario cittadino che lo porta ad attraversare il centro di una Firenze semideserta, passando da San Miniato tra le Torri, per il Mercato Nuovo, fino alla Chiesa di Santa Reparata; da qui verso Piazza della Signoria e poi Santa Croce, Santa Trinita e «il pancone degli Spini», infine Santa Maria Novella, prima del ritorno a casa – quando è già sera – dalla «desiata consorte», finalmente libero dal pensiero della «horrenda peste» e già pronto a pregustare il piacere intellettuale della stesura di una «futura commedia».
In questo percorso solitario in cui sono spente tutte le voci della città e solo «grande e non molto desiderato silentio» accompagna i passi del nostro personaggio, gli incontri più interessanti avvengono tutti all’interno delle chiese, teatri involontari in cui la commedia della vita prosegue con le sue meschinità e le sue debolezze, relegando la «mortifera pestilentia» su uno scenario per certi versi lontano: il sacerdote legato mani e piedi per resistere alla tentazione di ghermire le penitenti nell’atto della confessione; tre donne «vecchie scrignute, e forse zoppe» che attirano gli sguardi lascivi di tre solitari devoti in Santa Reparata; la giovane adultera che piange la morte dell’amato e la sollecita «carnale affezione» carica di maliziose allusioni che il narratore è pronto ad offrirle; l’ira mista a disperazione dei pochi frati rimasti in Santo Spirito, fiaccati dalla malattia e dalla fame, che lanciano verso il cielo orrende bestemmie; l’audace innamorato che mette in pericolo la sua vita per rimanere vicino all’amata, illuso di poter sfuggire la «pestifera mortalità» in virtù del suo sentimento salvifico; la giovane donna vestita a lutto in Santa Maria Novella, certamente l’incontro più fortunato della giornata, alla quale il narratore offre il suo conforto e la sua non disinteressata protezione, preludio alle «nozze» carnali che egli comincia a pregustare; infine l’immagine vivida di «un ozioso Frate a testa ritta, atto più al remo che al Sacrifizio», pronto a calarsi, come un falco sulla preda, sulla giovane indifesa, ma costretto prontamente ad allontanarsi con la coda tra le gambe da chi lo aveva preceduto nella caccia.
Come il viaggio avventuroso verso la casa londinese di Fulke Greville descritto con penna magistrale oltre mezzo secolo più tardi da Giordano Bruno nella Cena de le Ceneri, il cammino solitario del nostro personaggio nel sinistro andirivieni di bare, croci, becchini e sprazzi di ritrovata umanità rivela tutto il suo significato di esperienza, letteraria e reale, e sembra, chissà, «precipitarsi in una topografia morale» proprio come quello del Nolano. La peste, da sempre emblema tragico dell’esistenza umana, sotto «l’unghia leonina» di Machiavelli – per usare l’espressione di Oreste Tommasini (La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, II, Roma, Loescher, 1911, pp. 354-355) – è affrontata, con audacia decisamente anticonvenzionale, in una chiave comico-grottesca, che dà occasione all’autore di mettere in campo la sua vocazione irriverente verso istituzioni e valori generalmente condivisi e mostrare l’uomo nella sua fragile, e spesso meschina, natura.
Testi
Niccolò Machiavelli, Descrizione della peste di Firenze dell’anno 1527, in Opere di Niccolò Machiavelli, Cittadino e Segretario Fiorentino, 8 tomi, s.l., s.n.t., 1796-1799: VIII, pp. 49-74
Luca Simeoni,
A proposito dell’etimologia di epidemia
Nell’enciclopedia on-line Treccani, epidemia è definita come «manifestazione collettiva d’una malattia (colera, influenza ecc.), che rapidamente si diffonde fino a colpire un gran numero di persone in un territorio più o meno vasto in dipendenza da vari fattori, si sviluppa con andamento variabile e si estingue dopo una durata anche variabile». Il termine è un calco del greco ἐπιδημία, che nel lessico medico è attestato a partire dal Corpus hippocraticum. Come altri lemmi tecnici, anche questo è tratto per specializzazione dalla lingua comune.
Dal primitivo δῆμος (dēmos, popolo) e dalla proposizione di luogo ἐπί (epi, sopra, presso, tra) si forma una famiglia di parole, che esprime l’idea dello stare o stabilirsi in un luogo:
l’aggettivo ἐπίδημος (epidemos) o ἐπιδήμ-ιος (epidemios), letteralmente tra il popolo: πόλεμος ἐπιδήμιος, guerra civile, Il. 9, 64; ἐπιδήμιοι ἁρπακτῆρες, bravi a derubare i propri concittadini, 24, 262; ἔφαντ’ ἐπιδήμιον εἶναι σὸν πατέρ, dicevano che tuo padre era in patria, Od. 1, 194; Ἐλληνὲς [...] ἐπιδἠμιοι ἔμποροι, mercanti Greci residenti nel paese, Hdt. II 39, 2;
il verbo ἐπιδημ-έω, sto o vivo a casa, in patria (Thuc. 1, 136; Plat. Theat. 173e, Criti. 52b); giungo a casa o in patria da un paese estero (Xen. Mem. II 8, 1; Plat. Symp. 172c); arrivo in una città, risiedo in un luogo, detto di stranieri (Xen. Mem. I 2, 61; ps. Dem. In Neaer. 37; Plat. Parm. 126b); sto in un posto, sono in città (Lys. In Erat. 35; Plat. Prot. 309d);
il sostantivo ἐπιδημ-ία, visita, soggiorno (Plat. Parm. 127a; ps. Xen. Ath. I 18).
Nella letteratura Ἐπιδημὶαι, è il titolo scelto per una delle sue opere da Ione di Chio, contemporaneo di Sofocle e annoverato fra i cinque tragici del canone alessandrino. Lo scritto è andato perduto, ma Viaggi (o Soggiorni) indica bene quello che doveva esserne il contenuto: dalle testimonianze si ricava infatti che Ione aveva raccolto qui le memorie dei luoghi in cui era giunto e delle persone che aveva incontrato, come pure di quelle che si erano recate a fargli visita.
Non è possibile dire se lo scritto di Ione abbia ispirato la nascita di un vero e proprio genere letterario, quello appunto delle memorie di viaggio, né se abbia suggerito il titolo di uno dei trattati più conosciuti e importanti del Corpus hippocraticum, ossia ΕΠΙΔΗΜΙΩΝ. Se così fosse, il titolo rimanderebbe all’esperienza professionale dei medici antichi, che si spostano di città in città, di regione in regione per offrire i servizi della loro arte, proprio come facevano sofisti e letterati. E proprio come il libro di Ione, il trattato raccoglierebbe le memorie di questi soggiorni: storie cliniche, affermazioni metodologiche generali, aforismi prognostici, descrizioni delle condizioni geo-climatiche e patologiche che caratterizzano una determinata località in un certo periodo.
Va detto, tuttavia, che nel Corpus nessuna delle occorrenze di ἐπιδημία e dei termini correlati si riferisce alla condizione del medico itinerante, ma si trovano in contesti nei quali si parla di stati morbosi. Il loro ambito semantico non si limita peraltro alle sole malattie infettive come noi oggi le intendiamo. Piuttosto, a partire dal significato d’uso comune esse designano in maniera più ampia affezioni che colpiscono gli abitanti di una particolare località: le malattie che il medico viene a conoscere durante la sua permanenza in un determinato luogo, come anche le malattie che in un determinato periodo “soggiornano”, sono diffuse tra la popolazione. Questo impiego si coglie bene nel latino, che rende ΕΠΙΔΗΜΙΩΝ non solo con Epidemiae ma anche con De morbis popularibus.
La nozione di epidemia rimanda dunque a tutte quelle malattie che nel De aëre, aquis et locis sono definite come πάγκοινα (pankoina,) ed ἐπιχώρια (epichōria, cfr.), comuni e locali (cfr. 2, 8; 1, 6 e 3, 13 Littré). In epoca imperiale, Galeno ne circoscrive con più precisione il significato, distinguendo epidemia da endemia: ἔνδημος (endemos, endemica) è la malattia che si manifesta costantemente in una determinata zona per via delle caratteristiche stesse del territorio; ἐπίδημος, epidemica, quella che invece colpisce inaspettatamente una località per una causa accidentale (cfr. In Hipp. Epid. VI comm. p. 5, 16-18 Wenkebach).
Bisogna infine notare che nel Corpus non è presente l’idea di contagio, come trasmissione di una malattia infettiva tra individui. Per il medico ippocratico la salute dipende dall’equilibrio dei costituenti del corpo, siano essi elementi, umori o qualità: quando esso viene alterato, subentra la malattia. Significativo a questo proposito è il diverso impiego di μίασμα (miasma) da parte della medicina religiosa e di quella ippocratica. Per la prima, il termine indica l’impurità in cui si trova chi si macchia di una grave colpa nei confronti della divinità; per l’altra, è l’esalazione nociva presente nell’aria, che inspirata altera l’equilibrio degli umori.
Indicazioni bibliografiche
Deichgräber, K. Die griechische Empirikerschule, Berlin, 1933, 19652.
Robert, F. La pensée hippocratique dans les Épidémies, in Formes de pensée dans la Collection Hippocratique, Actes du IVe Colloque international hippocratique (Lausanne, 21-26 septembre 1981), par F. Lasserre et Ph. Mudry, Genève, 1983, pp. 97-108.
Langholf, V. Medical theories in Hippocrates. Early Texts and the “Epidemics”, Berlin - New York, 1990.
Stok, F, Il lessico del contagio, in P. Radici Colace-A. Zumbo (a c. di), Letteratura scientifica e tecnica greca e latina: atti del Seminario internazionale di studi: Messina, 29-31 ottobre 1997, Messina, 2000, pp. 55-89.
Riferimenti lessicali
ION
SCHOL. ARISTOPH. 835 = 36 A 2 D.-K.:
… φέρεται δὲ αὐτοῦ καὶ
Κτίσις [Χίου] καὶ Κοσμολογικὸς [d. i. Τριαγμός] καὶ Ὑπομνήματα [d. i. (15)
Ἐπιδημίαι] καὶ ἄλλα τινά.
ATHEN. 3, 44 p. 93 A = FGrH 3 B 392, 4:
τῶν δὲ χημῶν μνημονεύει Ἴων ὁ Χῖος
ἐν Ἐπιδημίαις.
ID. 3, 69 p. 107 A = FGrH 3 B 392, 4:
καὶ ὁ Χῖος δὲ Ἴων ἐν ταῖς Ἐπιδημίας
ἔφη• «τῶι ἐπίπλωι ἐπικαλύψας».
ID. 13, 81 p. 603 E—604 D = FGrH 3 B 392, 6:
… φιλομεῖραξ δὲ ἦν ὁ Σοφοκλῆς,
ὡς Εὐριπίδης φιλογύνης. Ἴων γοῦν ὁ ποιητὴς ἐν ταῖς ἐπιγραφομέναις Ἐπιδη-
μίαις γράφει οὕτως• «Σοφοκλεῖ τῶι ποιητῆι ἐν Χίωι συνήντησα,
ὅτε ἔπλει εἰς Λέσβον στρατηγός, ἄνδρι παιδιώδει παρ’ οἶνον
καὶ δεξιῶι.
SCHOL. M AISCHYL. Pers. 432 = FGrH 3 B 392, 7:
Ἴων ἐν ταῖς Ἐπιδημίαις παρεῖ-
ναι Αἰσχύλον ἐν τοῖς Σαλαμινιακοῖς φησίν.
CORPUS HIPPOCRATICUM
ἐπιδημίη
De natura hominis 9, 33 Littré:
… Ὁκόταν δὲ νουσή-
ματος ἑνὸς ἐπιδημίη καθεστήκῃ, δῆλον ὅτι οὐ τὰ διαιτήματα αἴτιά (33)
ἐστιν, ἀλλ’ ὃ ἀναπνέομεν, τοῦτο αἴτιόν ἐστι, καὶ δῆλον ὅτι τοῦτο
νοσηρήν τινα ἀπόκρισιν ἔχον ἀνίει.
ἐπιδημίην - ἐπιδημίης
Epistulae 2, 3 e 5 Littré:
Παῖτος βασιλεῖ βασιλέων τῷ μεγάλῳ Ἀρταξέρξῃ
χαίρειν.
Τὰ φυσικὰ βοηθήματα οὐ λύει τὴν ἐπιδημίην λοιμικοῦ πάθους• (3)
ἃ δὲ ἐκ φύσιος γίγνεται νοσήματα, αὐτὴ ἡ φύσις ἰᾶται κρίνουσα•
ὅσα δὲ ἐξ ἐπιδημίης, τέχνη τεχνικῶς κρίνουσα τὴν τροπὴν τῶν σω- (5)
μάτων. Ἱπποκράτης δὲ ἰητρὸς ἰῆται τοῦτο τὸ πάθος•
ἐπιδήμιον
De affectionibus interioribus 20, 2 Littré:
Περὶ δὲ τοῦ φλέγματος τὰς αὐτὰς γνώμας ἔχω, ἃς καὶ περὶ
χολῆς, ἰδέας αὐτοῦ πολλὰς εἶναι. Καὶ ἐπιδήμιον μέν ἐστι τὸ νεώ- (2)
τατον ἑωυτοῦ, καὶ ἡ ἴησις ῥᾴστη
Epistulae 17, 63 Littré:
… Καθί-
σαντος δέ μου, πάλιν φησὶν, ἴδιον οὖν ἢ ἐπιδήμιον πρῆγμα διζή- (63)
μενος δεῦρο ἀφῖξαι, φράζεο σαφέως• καὶ γὰρ ἡμεῖς ὅ τι δυναίμεθα
συνεργοῖμεν ἄν.
ἐπιδήμιος
De affectionibus interioribus 37, 1 Littré:
Ἄλλος ἴκτερος• ἐπιδήμιος οὗτος καλέεται, διότι πᾶσαν ὥρην (1)
ἐπιλαμβάνει• γίνεται δὲ ἀπὸ πλησμονῆς μάλιστα καὶ μέθης, καὶ
ἐπειδὰν ῥιγώσῃ.
ἐπιδημίου
De morbis popularibus (= Epidemiae) VII 1, 59. 1 Littré:
Χάρητι, χειμῶνος, ἐκ βηχίου ἐπιδημίου προσγενόμενος πυρε- (1)
τὸς ἐπέλαβεν ὀξύς• τὰ ἱμάτια ἀπέβαλλεν• κῶμα μετὰ πόνου ἐγένετο•
De affectionibus interioribus 20, 21 Littré:
Αὕτη μὲν οὖν τοῦ ἐπιδημίου φλέγματος ἡ ἴησις.
De affectionibus interioribus 21, 3 Littré:
Ἢν δὲ τύχῃ παλαιότερον ἐὸν τὸ φλέγμα, λευκὸν δὲ καλέεται
τοῦτο τὸ φλέγμα, πάσχει τάδε• βαρύνει τὸν ἄνθρωπον μᾶλλον, καὶ
ἰδέην ἀλλοίην ἔχειν τοῦ ἐπιδημίου δοκεῖται, ὠχρότερός τέ ἐστι, καὶ (3)
οἰδέει οἰδήματι πᾶν τὸ σῶμα, καὶ τὸ πρόσωπον ἐρεύθει, καὶ τὸ
στόμα ξηρὸν, καὶ δίψα ἐπέχει, καὶ ὁκόταν φάγῃ…
De visu 9, 1 Littré:
Ὀφθαλμίης τῆς ἐπετείου καὶ ἐπιδημίου ξυμφέρει κάθαρ- (1)
σις κεφαλῆς καὶ τῆς κάτω κοιλίης• καὶ εἰ ἔχοι τὸ σῶμα, αἵματος
ἀφαίρεσις ξυμφέρει πρὸς ἔνια τῶν τοιούτων ἀλγημάτων…
ἐπιδημιῶν
Epistulae 19, 23 Littré:
Ἐν δὲ τῷ πέμπτῳ τῶν ἐπιδημιῶν ἱστόρησα ὡς ἐγίνετο ἀφωνίη, (23)
ἄγνοια, παραληρήσεις συχναὶ καὶ ὑποστροφαί•
Dagmar von Wille,
Francesco Frigimelica e il Consiglio sopra la pestilentia
Francesco Frigimelica (Padova, 1490-1558), medico e filosofo. Nel 1516 si laureò nelle arti presso lo Studio di Padova ed entrò a far parte del Collegio degli Artisti. La sua carriera accademica prese avvio nel 1518, dopo il riordinamento dello Studio patavino in seguito alla guerra della Lega di Cambrai, con l’insegnamento di filosofia morale e sofistica. Addottoratosi poi in medicina nel 1524, divenne membro del Collegio dei Medici e passò l’anno seguente all’insegnamento di medicina teorica, incarico da lui ricoperto fino al 1535, quando gli venne affidato l’insegnamento di medicina pratica.
Nella storia della medicina, il nome del Frigimelica è legato alle ricerche pionieristiche nel campo delle cure termali (bagni e fanghi, ma anche cure idropiniche), i cui risultati diedero luogo al De balneis metallicis artificio parandis del 1550, ma edito soltanto nel 1659, in cui si discute della possibilità di una preparazione artificiale dei bagni termali, alterandone la composizione ai fini terapeutici. Le acque termali venivano utilizzate nei casi di ulcera e, a immersione o irrorazione, per curare le malattie della pelle, specialmente la scabbia, nonché la sifilide; alla terapia di questa malattia il Frigimelica dedicò il De morbo Gallico tractatus e la Lucubratiuncula adversus defluvium pilorum, editi da Luigi Luisini nella raccolta De morbo Gallico omnia quae extant, II, Venetiis, G. Ziletti, 1567, pp. 28-43 (ried. ampl. col titolo Aphrodisiacus, II, Lugduni Batavorum 1728, pp. 985-1000).
Il Frigimelica contribuì agli studi epidemiologici con un Consiglio sopra la pestilentia qui in Padoa nell’anno MDLV, edito a Padova (G. Perchacino) nel 1555 (testo che figura nel presente sito), che si inserisce nella folta trattatistica coeva sulla peste, che veniva diversificandosi rispetto a eziologia e terapia. Maggiormente diffusa era la teoria classica dei “miasmi”, che spiegava l’origine della peste con un mutamento dell’aria nella “sostanza”, che comportava la “putrefazione”. In opposizione a essa si poneva la teoria del contagio, di cui il medico e filosofo Girolamo Fracastoro presentò una sintesi nel De contagione et contagiosis morbis (1546; nel presente sito si riproduce il testo nell’edizione stampata a Lione nel 1554), accolta favorevolmente dal Frigimelica: “et per tanto concludendo dico, la causa di questa infermità essere contagione”; “una sola contagione venuta da altre terre” sarebbe sufficiente a trasmettere la peste. Sebbene il Frigimelica considerasse la peste come “febbre velenosa”, “generata da grandissima putredine”, egli rifiutò la teoria dei miasmi: “Non si truova alcuno che habbia peste, che non l’habbia per contagione”, avvenuta attraverso “vapori contagiosi” emanati da persone (anche decedute) o indumenti infetti (Consiglio, cc. *5r-*7r). Questa opinione fu condivisa dal suo allievo Marino Massuzzi (o Massucci), il quale ne La preservazione dalla pestilenza (1577) insiste sulla teoria del contagio.
Testi
Girolamo Fracastoro, De contagione et contagiosis morbis et curatione, in Id., De sympathia et antipathia rerum..., Lugduni, apud Ioan. Tornaesium et Guil. Gazeium, 1554, pp. 139-351
Francesco Frigimelica, Consiglio sopra la pestilentia qui in Padoa nell’anno MDLV, Padova, G. Perchacino, 1555