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ILIESI Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee
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Parole bibliche della crisi

Gaetano Lettieri,

apocalisse, ladro, lebbra, κοινός, crisi, preghiera

apocalisse - Il libro dell’Apocalisse di Giovanni pullula di morbi, pestilenze, carestie, stragi, cataclismi, per di più implacabili punizioni divine contro l’empietà degli uomini: l’ira di Dio rovescia coppe di sventura, suona trombe di distruzione, scioglie i sigilli del libro del giudizio, dando avvio all’annientamento di potenze politiche ed economiche, alla punizione degli empi, al trionfo vendicativo degli eserciti di Dio. Questa disseminazione di morte, questa furia del dileguare sono comunque il rovescio della denuncia della violenza dominante del mondo, del trionfo mondano di ingiustizia, empietà, indifferenza colpevole, manipolazione e sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Pertanto, l’accezione tremenda e comunemente riconosciuta di ἀποκάλυψις come furiosa distruzione e annientamento del mondo fa emergere quella più profonda e autentica di ἀποκάλυψις come salvifica rivelazione (dal greco ἀποκαλύπτω, svelo, scopro, rivelo): l’apocalisse è apertura alla venuta di Dio, invocazione al suo ultimo manifestarsi, unico atto capace di sanare e guarire la creazione dal male e dalla violenza che la sfigura. La visione apocalittica più autentica e profonda è, allora, quella paradossalmente messianica dell’agnello sgozzato innalzato sul trono di Dio (5,6), dell’innocente ucciso e divinizzato, delle vittime richiamate in vita e glorificate: «Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?» (6,10). La violenza ormai intollerabile della simbologia apocalittica, l’orrenda contraddizione di una logica della vendetta che vanifica l’invocazione di liberazione delle vittime creandone di nuove, vanno comunque riconosciute come guscio mitico e patologico di una ragione escatologica, di un’inestinguibile domanda universale di senso, che attende la venuta di giustizia, pace, carità, rappresentate da quella Gerusalemme celeste, redenta città politica nella quale ogni lacrima verrà asciugata da Dio (21,1-5). «Apocalisse dell’apocalisse, Vieni è apocalittico» (Jacques Derrida, D’un ton apocalyptique adopté naguère en philosophie, 1983). «Quando l’Agnello sciolse il primo dei sette sigilli, vidi e udii il primo dei quattro esseri viventi che gridava con voce di tuono: “Vieni!”» (6,1): «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni”. E chi ascolta ripeta: “Vieni!”. Chi ha sete venga; chi vuole attinga gratuitamente l’acqua della vita… “Sì, verrò presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù!» (22,17 e 20). Lo sguardo apocalittico, allora, è in qualche modo strabico, cerca un nuovo bene vedendo il male ubiquo: il Vieni! è rifiuto dello status quo, denuncia contro ingiustizia, inganno, violenza dilaganti, non si rassegna a “giustificarli” o a “tollerarli”, fa propria la sofferenza delle vittime, grida a Dio di venire e manifestarsi, seppure continuando a richiedere una punizione implacabile per gli ingiusti dominatori del mondo. Il Vieni! apocalittico dissesta ogni assicurazione e violenza identitarie, guasta qualsiasi pretesa illusoria di salvaguardia dalla tremenda, rischiosa novità del futuro, che si ostina a invocare e a sperare come possibilità messianica di redenzione. Per questo si ricapitola nella febbrile attesa dell’escatologica resurrezione dei morti, nella fede folle che vuole la restituzione di vita, senso, felicità a ogni vittima della storia, a qualsiasi singola creatura che abbia sofferto offesa e morte.

ladro - «Voi sapete che come un ladro di notte, così verrà il giorno del Signore» (Prima lettera ai Tessalonicesi 5,1). Come la disavventura, la sciagura, la morte, ma anche come l’amore, la novità di senso, il dono, il regno di Dio spezza il tempo consueto e la pretesa ingenua di esorcizzarne la contingenza irriducibile, che è caso, sorpresa, novità tremenda e stupefacente della vita/morte. Soltanto l’abbandono della chiusura nel proprio consente di salutare l’imprevisto come occasione di liberazione e di dono. Il ladro può sottrarre soltanto il vano, che il derubato può lasciare andare scoprendosi in sé libero; ma soprattutto, per la sua trama oscura, la sua rapidità imprevedibile, la passività cui costringe, il furto rivela l’estaticità dell’esistenza, la sua tremenda imprevedibilità. Il giorno del Signore, l’avvento del regno messianico è allora pensato come ambigua violenza di una novità che uccide e salva, strappa il sé dalla chiusura del proprio, libera dall’illusione di assicurazione, “indebitamente” dona l’esperienza vitale dell’altro come sorpresa ingovernabile. Il ladro notturno diviene immagine dell’avvento della grazia di Dio, che libera da qualsiasi proprietà e rivela il singolo come esposto all’evento, inerme nella sua insuperabile vulnerabilità, per questo sensibile, passibile, mortale, eppure aperto alla gratuità inappropriabile del Dono.

lebbra - «Allora venne a lui un lebbroso: lo supplicava in ginocchio e gli diceva: “Se vuoi, puoi guarirmi!”. Mosso a compassione, stese la mano, lo toccò e gli disse: “Lo voglio, guarisci!”. Subito la lebbra scomparve ed egli guarì. E, ammonendolo severamente, lo rimandò e gli disse: “Guarda di non dire niente a nessuno”» (Marco 1,40-43). Gesù, a partire dalla pretesa di un carisma messianico, trasgredisce la Legge, che prescriveva complesse procedure di identificazione del male, pubblica denuncia dell’immondo, suo rigorosissimo isolamento, distruzione di oggetti contaminanti, prescrizione di quarantene, verifiche affidate ai sacerdoti, eventuali riti sacrificali di purificazione e ringraziamento in caso di autonoma guarigione (cfr. Levitico 13,1-14,57). Il ruolo del sacerdote è quello irrinunciabile e razionalmente doveroso di vigilare sulla salute pubblica, di verificare, denunciare, isolare, impedendo che il morbo dilaghi, garantendo immunizzazioni. La lebbra deforma, degrada, isola, uccide; l’organismo vivente la deve espellere da sé, ma così facendo deve abbandonare il lebbroso. Gesù, invece, agisce “da folle”: tocca il lebbroso, riconosce l’invocazione del sofferente al di sotto del suo volto immondo, lo libera. Il vero miracolo è la sua commozione, il contatto immediato con chi è isolato, il volere guarire l’altro a rischio della propria purità/salute, la richiesta “mistica” di mantenere segreta la guarigione: la mano destra, donando, deve rimanere segreta, ignota alla mano sinistra (Matteo 6,1-4), si deve amare “a perdere”, contro ogni economia terrena, senza che il dono sia riconosciuto e contraccambiato. Senza l’esposizione al rischio del contatto contaminante, senza commozione per l’immondo che invoca salvezza, senza segreta ubbidienza al comandamento della solidarietà, la lebbra divorerebbe il lebbroso. Da soli non si guarisce: il rifiuto dell’esposizione di sé al pericolo di morte e alla forza estatica dell’amore estinguerebbe la vita per l’ossessione di immunizzarla, tramite amputazioni, sterilizzazioni, purificazioni espulsive. La vita è sempre assunzione del peso della malattia dell’altro, sino al rischio della propria morte, nella speranza di una guarigione comune.

κοινός - Κοινός in greco significa impuro, immondo, contaminante, profano, comune: attesta il contaminarsi della logica della corruzione con la logica della comunione (κοινωνία), rivelando come la messa in comune sia sempre rischio di impurità, perdita, malattia, morte, ma come soltanto questo rischio possa costituire comunità umana, relazioni vitali. In greco, κοινή è insieme la lingua comune e la prostituta, la donna di tutti. Negli Atti degli apostoli, la svolta missionaria attribuita a Pietro (evidentemente paolinizzato) dipende da una visione divina, che lo “costringe” ad accogliere anche i pagani all’interno della comunità escatologico-messianica dei discepoli di Gesù: Dio fa apparire dinanzi a Pietro una tavola colma di animali impuri, vietati dalla Legge, ma ordina a Pietro di cibarsene. Pietro inizialmente rifiuta, dicendo: «“No davvero, Signore, poiché io non ho mai mangiato nulla di profano e di immondo (κοινὸν καὶ ἀκάθαρτον)”. E la voce di nuovo a lui: “Ciò che Dio ha purificato (ἐκαθάρισεν), tu non chiamarlo più profano (σὺ μὴ κοίνου)”» (10,1; 11,9). Pietro capisce il senso dell’apparizione divina: «Dio mi ha mostrato che non si deve dire profano o immondo nessun uomo» (10,28). Nessun uomo è impuro, non esiste più “un pagano”, impuro perché “fuori-Legge”: la nuova comunità messianica dev’essere comune, attraversare la distinzione esclusiva tra puro e impuro, persino tra sacro e profano, in quanto il sacro (l’elezione di Dio) si nasconde nel profano (nel corpo dei non eletti) e il profano è chiamato a un’immediata fruizione del sacro. La nuova comunità escatologica proprio perché fondata non sull’appartenenza esclusiva, identitaria, razziale è spazio di comunione vitale, apertura universale all’accoglienza dell’altro, accettazione del rischio della contaminazione e persino della perdita del proprio, in quanto comunità che vive soltanto di Dono, dell’accoglienza messianica dell’altro come avvento di liberazione, generazione di novità, moltiplicazione di umanità, intelligenza, felicità. A partire da questa conversione reciproca di puro e impuro, santo e profano, si dispiega il paradosso protocristiano: Il maggiore sarà sottomesso al minore (Epistola ai Romani 9,12, che universalizza Genesi 25,23), la comunità messianica è quella nella quale l’ultimo è il primo, la vittima è innalzata, il reietto diviene eletto, la Legge è dilatata dallo Spirito (dal Dono libero di Dio) a estatica, inesauribile ricerca di giustizia, mai compiutamente realizzata, sempre a-venire, soltanto escatologicamente possibile. In Prima Epistola ai Corinzi 10,16-17, la «comunione (κοινωνία)» con il sangue e con il corpo di Gesù Cristo, il morto-vivente nel quale morte e vita si contaminano e si convertono l’una nell’altra, diviene il principio eterologico della comunione eucaristica (l’unum dei multa), di una comunità religiosa che vive dell’emorragia del dono della propria vita, per vivificare la miseria del “comune (κοινός) mortale”. L’eterologia del Dono anticipa, nella comunità escatologica gesuana, quei valori “comunistici” della democrazia-a-venire (libertà dall’ingiustizia e dalla discriminazione, uguaglianza tra diversi irriducibili, fraternità sempre aperta, riscatto inesausto degli ultimi), nei quali l’Occidente pare ancora, seppure a fatica, ritrovarsi, rompendo la logica violenta, indennitaria, asfittica, mortuaria dell’esclusiva tutela identitaria della propria angusta economia, della religione del proprio. Paolo proclama la legge paradossale della comunione messianica: «Non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Epistola ai Galati 3,28). Il destino dell’Occidente, luogo della contaminazione e dell’incrocio tra ebraico e greco-romano, tra mediterraneo e nordico, è continuare a tentare di vivere, ritrattandolo e immanentizzandolo, quest’altissimo ideale escatologico, sempre tradito (tra fallimenti e orrori), eppure sempre ancora da perseguire. Oggi l’Europa è chiamata ad essere all’altezza dei suoi valori democratici, a continuare a mantenersi infedelmente fedele a questa legge estatica, a questa forza debole dell’irrinunciabile apertura all’altro nella propria identità, alla giustizia che viene, alla secolarizzazione del sacro, cioè alla messa in comune del Dono, sino al rischio della sua ultima consumazione.

crisi - «È il giudizio (ἡ κρίσις) è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage» (Giovanni 3,19). La crisi è il giudizio che chiama alla decisione: aut aut, tenebra o luce, Mammona o Dio, mondo o vangelo, calcolo o dono, speculazione o testimonianza, economia (la legge della propria casa) o ospitalità infinita (la legge della casa altrui). E la decisione taglia sempre la coscienza di ognuno nel momento altissimo della responsabilità. Il vangelo chiama a una scelta di vita o di morte e ogni momento del tempo è καιρός, istante escatologico: l’ultima possibilità di vita, in relazione alla quale si è sottoposti a giudizio, che verifica se si ha avuto fede nella propria umanità e dignità, cui sempre l’ultimo ci comanda, di cui ci chiede conto ogni singolo povero cristo, in cui si nasconde il vero redentore. Crisi è l’ultima occasione, perduta la quale si muore. Nutrire gli affamati, dissetare gli assetati, ospitare gli stranieri, vestire gli ignudi, curare i malati, visitare i carcerati: «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Matteo 25,31-40), pure non sapendolo! Soltanto grazie a questa decisione per la vita altrui l’io diviene singolo, persona, volto che, guardato dall’altro, ne diviene responsabile, chiamato a restituire il “verbo” che gli ha dato e gli dà vita. Ogni atto di carità è crisi escatologica, fine del mondo e giudizio di vita eterna (cfr. Giovanni 5,22-30): «Il mondo non c’è più, io devo portarti (die Welt ist fort, ich muß dich tragen)» (Paul Celan).

preghiera - «Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu, invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Matteo 6,5-6). La preghiera è tanto più autentica, quanto più esposta allo sguardo dell’Altro nell’intimità. Soltanto nel segreto, in risposta a una presenza intimamente trascendente, il singolo soggetto si costituisce come responsabilità, coscienza che invoca l’Altro, rendendogli conto della sua sincerità. La preghiera vive, allora, di un’indisponibilità strutturale: proprio perché avviene nel segreto, è esposizione a una presenza che non si vede, a un evento gratuito, che non assicura mai ricompensa garantita, soddisfazione acquisita. Prega davvero chi “si figura”, più interiore della sua intimità, una persona ulteriore, uno sguardo segreto incondizionato, nei confronti del quale si è sempre in rapporto di invocazione, mancanza, debito. Il rito religioso, se privo di questa intima e segreta esposizione all’Altro, diviene farsa ipocrita, pubblico inganno. Indirizzata a chi è assolutamente nascosto, l’autentica preghiera è invocazione e non prestazione, esposizione e non appropriazione. Solo la carità infinita di chi non trattiene nulla per sé può mostrarne la verità; per questo la sua verifica è del tutto impossibile e la sua ricompensa del tutto segreta: agli occhi del mondo sembra non esistere.


Ultimo aggiornamento 07/04/2020

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