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ILIESI Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo e Storia delle Idee
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timore/paura - speranza
Eugenio Canone,
‘Generoso timore’: una considerazione bruniana nello Spaccio
Che un uomo timoroso possa essere savio e non codardo/stolto lo insegna una lunga tradizione religiosa e teologica, a partire dalle Scritture. Anche Giordano Bruno, uno degli autori chiave dell’ateismo dei moderni – ‘ateismo’, s’intende, rispetto alla religione giudaico-cristiana –, ha sottolineato come «l’altare, il fano, l’oratorio è necessariissimo», e come sia importante che «Si mantegna il timore e culto verso le potestadi invisibili», come pure «onore, riverenza e timore verso gli prossimi viventi governatori»; è chiaro che, per il filosofo, il timore della giustizia va considerato in una prospettiva morale. Un timore ragionevole rinvia alla prudenza, tra l’altro una delle virtù cardinali della religione cristiana. Bruno tiene tuttavia a precisare – e sta qui la differenza che fa capire di quale idea di divinità e sovranità per lui si tratti – che «nessuno sia preposto in potestà, che medesimo non sia superiore de meriti, per virtude et ingegno in cui prevaglia». Virtù, meriti, ingegno: viene da pensare a Machiavelli e a una tradizione umanistica, con riferimento alla virtù/religione dei Romani (politeisti) rispetto ai Cristiani (monoteisti). Riguardo al tema, c’è in Bruno una forte accentuazione ‘pelagiana’, come è evidente nello Spaccio de la bestia trionfante (1584), il testo da cui ho citato i precedenti passaggi e che è da ritenere tra le più decise opere critiche nei confronti dei valori e della civiltà del cristianesimo, così come espressi nella società del tempo. Un testo che, per la sua radicalità, fu ritenuto da alcuni – per es. da John Toland, come viene affermato da Mathurin Veyssière de La Croze – coincidere con l’enigmatico De tribus impostoribus. Notavo come l’idea che il timoroso possa essere savio e non codardo/stolto lo insegni una lunga tradizione religiosa e teologica; nell’ambito della filosofia, mi sembra che il tema sia stato meno trattato. Sappiamo che, tra i moderni, c’è stato chi ha scritto a favore del timore in un orizzonte politico che tiene conto della conservazione dello Stato, come pure – parlando però con qualche ambiguità – a favore dell’interesse stesso dell’individuo-civis; basti fare ancora il nome di Machiavelli e quello di Hobbes. Va però chiarito in che senso il timore possa essere – come afferma Bruno nello Spaccio – generoso ed eroico, oltre che ragionevole.
Chi ha familiarità con i testi di Bruno, sa che una delle peculiarità della sua scrittura è quella di conferire un respiro filosofico a parole ordinarie o a termini che, nella tradizione, non avevano una spiccata rilevanza filosofica. Si pensi per es. a minuzzaria, la pur «vilissima minuzzaria», nello Spaccio rispetto al termine filosofico-scientifico minimum, al cui approfondimento Bruno dedicherà poi uno dei poemi filosofici pubblicati a Francoforte nel 1591. La minuzzaria – così come il ‘frammento’ e il ‘particolare’ cui egli fa riferimento nei suoi scritti – rinvia al Detail, quello warburghiano per intenderci, quindi alla potenza del frammento/simbolo grazie al quale possiamo ricostruire un’immagine più completa della realtà, aprendoci a paesaggi storico-culturali inaspettati. Ma, ancor più, si pensi alla valorizzazione filosofica della parola vicissitudine (vicissitudo), termine e concezione pur presenti in testi di aristotelici – spesso con richiamo a un passo dei Meteorologica dello Stagirita – e nella riflessione di alcuni umanisti, come Louis Le Roy. In Bruno, che ne tratta in quasi tutti i suoi scritti, vicissitudo/vicissitudine diventa un termine filosofico fondamentale, come poteva essere il metafisico unum.
Va notato che, a differenza di timore, negli scritti italiani di Bruno la parola paura, che ricorre solo due volte (nel Candelaio e nello Spaccio), non ha alcuna rilevanza. Allo stesso modo, negli scritti latini timor è più ricorrente e significativo di metus. Nel De imaginum compositione – opera che Bruno pubblica nel 1591 e che per la personificazione di termini-concetti si collega allo Spaccio – è presente la Imago Timoris (un timore ben diverso dal «Timore onesto» di cui si parla nello Spaccio): «Inde umbra praecipites in pedibus habens alas, foemineo vultu, caeca propemodum, attonita, elinguis, sese in arctum contrahens, raptim huc et illuc circumvertens, e cuius ore frigida exibat nubes miserae corpus circumtegens, quae gelido sudore madens, quasi usu rationis adempto turbata pallentique vultu, rigidis digitos capillis innectebat».
Come noto, sul piano letterario lo Spaccio si ispira al genere satirico dei dialoghi lucianei. Un ravveduto Giove chiama gli dèi a consiglio, proponendo loro di cacciare dal cielo tutte quelle raffigurazioni di vizi (le ‘bestie’, in relazione alle quarantotto costellazioni elencate da Tolomeo nell’Almagesto), per insediare al loro posto delle personificazioni di virtù; per i miti in rapporto ai catasterimi, Bruno si rifà in particolare al De astronomia di Igino. Trattando tuttavia dei vizi collocati nel cielo dei pagani, Bruno intende in realtà parlare dei vizi – le false virtù come i dogmi assurdi – che i cristiani hanno collocato nel loro cielo.
Sulla base di quanto ho in sintesi osservato, non meraviglierà che il termine ‘timore’ – specificamente come imago, cioè concetto personificato/ipostatizzato – abbia nello Spaccio due facies, che si collegano rispettivamente a vizio e a virtù. In quanto vizio, il «vano Timore» nel testo rinvia alla costellazione della Lepre, e basta leggere un passaggio del terzo dialogo dell’opera per comprendere il collegamento istituito da Bruno: «la Lepre – dice Giove –, la qual voglio che sia stata tipo del timore per la Contemplazion de la morte. Et anco per quanto si può de la Speranza, e Confidenza, la quale è contraria al Timore: perché in certo modo l’una e l’altra son virtudi, o almeno materia di quelle, se son figlie della Considerazione e serveno a la Prudenza: ma il vano Timore, Codardiggia, e Desperazione, vadano insieme con la Lepre a basso a caggionare il vero inferno et Orco de le pene a gli animi stupidi et ignoranti». Si tratta della paura della morte che l’essere (il genere) umano fugge, come una timorosa lepre, e a cui la religione cristiana risponde con la promessa di una vita eterna ultraterrena: un timore vano – cioè illusorio, che però dannerebbe per davvero, e si ricordino in proposito le riflessioni bruniane nel De vinculis riguardo all’inferno –, così come sarebbe vana quella speranza, a differenza di una speranza quale effettiva virtù, che è unita a considerazione e prudenza. In tal modo, il timore può essere razionale. Ma il «raggionevole timore» di cui Bruno parla nello Spaccio riguarda specificamente se stesso.
In merito alla considerazione bruniana sul timore generoso (il «Timore onesto») cui faccio riferimento nel titolo della presente nota, va in primo luogo precisato che il brano figura in alcune tra le pagine più intense dello Spaccio de la bestia trionfante, pagine che hanno una straordinaria rilevanza autobiografica, ignorata negli studi bruniani fino al 2000 e che per la prima volta ho evidenziato nella mia edizione dell’opera. Nel secondo dialogo dell’opera, mentre interviene la Sollecitudine – che, come ebbi modo di sottolineare vent’anni fa, è un lemma e una figura determinanti nello Spaccio –, Bruno parla in prima persona. I diversi passaggi, nel testo della editio princeps, dal femminile (parla la Sollecitudine) al maschile (parla il filosofo che si riconosce nella Sollecitudine, la quale per il filosofo è ancora più necessaria in momenti storico-culturali di crisi) non è quindi da considerarsi un refuso, come si è ritenuto nelle precedenti edizioni che hanno corretto erroneamente la princeps. Si tratta di pagine nelle quali si mettono a nudo il travaglio dell’uomo e la strenua volontà di portare a compimento, pur fra tanti ostacoli, la propria opera di testimone di una verità naturale che i ‘moderni’ hanno obliato, anche a seguito del sopravvento di una religione che si basa sulla paura – una paura di ciò che è naturale, come pure del destino umano di fronte al nulla –, ed è forse superfluo ricordare che Bruno, il quale ritiene che l’infinito fisico in atto non contempli il nulla, è un lettore appassionato di Lucrezio.
Riporto (con qualche taglio) il brano dello Spaccio relativo al timore generoso, eroico e sollecito. Il timore è generoso quando la prudenza è unita alla difesa di ciò che è etico (in questo senso, il timore è magnanimo); pertanto, anche alla prudenza personale in quanto autori di un’opera che si ritiene utile per l’umanità. Non a caso nel brano, rivolgendosi alla Sagacità, la Prudenza afferma: «Tu farai ch’io non tente cosa, se non quando attamente posso». Tale timore può dirsi pure ‘eroico’ in quanto non riguarda la comune sfera della moralità, ma qualcosa che va oltre, e che non può escludere l’eventuale sacrificio personale quando necessario (sul tema dell’eroicità, Bruno ha presente le considerazioni di Aristotele nell’Etica Nicomachea). Il timore generoso è anche sollecito in quanto non può essere ozioso, soprattutto in momenti di crisi. Il brano che riporto è lungo, ma merita leggerlo.
Cossì la Sollecitudine avendo ringraziato Giove e gli altri, prende il suo camino e parla in questa forma: «Ecco io Fatica muovo gli passi, mi accingo, mi sbraccio. Via da me ogni torpore, ogni ocio, ogni negligenza, ogni desidiosa acedia: fuori ogni lentezza. Tu Industria mia, proponite avanti gli occhi della considerazione il tuo profitto, il tuo fine. Rendi salutifere quelle altrui tante calunnie, quelli altrui tanti frutti di malignitade et invidia, e quel tuo raggionevole timore che ti cacciaro dallo tuo natio albergo, che ti alienaro da gli amici, che ti allontanaro dalla patria, e ti bandiro a poco amichevole contrade. Fà, Industria mia, meco glorioso quello essilio e travagli: sopra la quiete, sopra quella patria tranquillitade, commoditade e pace. Su Diligenza, che fai? perché tanto ociamo e dormiamo vivi, se tanto tanto doviamo ociar e dormire in morte? Atteso che se pur aspettiamo altra vita o altro modo di esser noi, non sarà quella nostra, come de chi siamo al presente: percioché questa, senza sperar giamai ritorno, eternamente passa. Tu Speranza che fai, che non mi sproni, che non m’inciti? Su fà ch’io aspetti da cose difficili exito salutare, se non mi affretto avanti tempo, e non cesso in tempo: e non far ch’io mi prometta cosa per quanto viva, ma per quanto ben viva. Tu Zelo siimi sempre assistente, a fine ch’io non tente cose indegne di nume da bene, e che non stenda le mani a quei negocii che sieno caggione di maggior negocio. Amor di gloria, presentami avanti gli occhi quanto sia brutto a vedere e cosa turpe di esser sollecito della sicurtà nell’entrata e principio del negocio. Sagacità, fà che da le cose incerte e dubie non mi retire, né volte le spalli, ma da quelle pian piano mi discoste in salvo. Tu medesima (acciò ch’io non sia ritrovata da nemici, et il furor di quelli non mi s’avente sopra) confondi seguendomi gli miei vestigi. Tu mi fà menar gli passi per vie distanti da le stanze de la Fortuna: perché la non ha lunghe le mani, e non può occupar se non quelli che gli son vicini, e non essagita se non color che si trovano dentro la sua urna. Tu farai ch’io non tente cosa, se non quando attamente posso: e fammi nel negocio più cauta che forte, se non puoi farmi equalmente cauta e forte. [...] Tu Pazienza, confirmami, affrenami et administrami quel tuo Ocio eletto, a cui non è sorella la Desidia: ma quello che è fratello de la Toleranza. Mi farai declinar dall’inquietudine, et inclinare alla non curiosa Sollecitudine. Allora mi negarai il correre, quando correr mi cale dove son precipitosi, infami e mortali intoppi. All’ora non mi farai alzar l’àncora e sciòrre la poppa dal lido, quando aviene che mi commetta ad insuperabile turbulenza di tempestoso mare. Et in questo mi donarai ocio di abboccarmi con la Consultazione la quale mi farà guardar, prima, me stesso; secondo, il negocio ch’ho da fare; terzo, a che fine e perché; quarto, con quai circonstanze; quinto, quando; sesto, dove; settimo, con cui. Amministremi quell’ocio con cui io possa far cose più belle, più buone, e più eccellenti che quelle che lascio: per che in casa de l’Ocio siede il Conseglio, et ivi della vita beata, meglior che in altra parte, si tratta; indi megliormente si contemplano le occasioni; da là con più efficacia e forza si può uscire al negocio: perché senza esser prima a bastanza posato, non è possibile di posser appresso ben correre. Tu Ozio, mi administra, per cui io vegna stimato manco ocioso che tutti gli altri: percioché per tuo mezzo accaderà che io serva a la republica e defension de la patria più con la mia voce et esortazione che con la spada, lancia e scudo: il soldato, il tribuno, l’imperatore. Accòstati a me tu, generoso et eroico e sollecito Timore: e con il tuo stimolo fà che io non perisca prima dal numero de gl’illustri, che dal numero de vivi. Fà che prima che il torpore e morte mi tolga le mani, io mi ritrove talmente provisto che non mi possa togliere la gloria de l’opre. Sollecitudine, fà che sia finito il tetto prima che vegna la pioggia [...]».
Per i brani citati vedi: Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, a cura di E. C., Milano 20012, pp. 117, 186-190, 284, 301; De imaginum, signorum et idearum compositione, in Iordanus Brunus, Opera latine conscripta, II,3, curantibus F. Tocco et H. Vitelli, Firenze 1889, p. 210.
Pina Totaro,
Paura e speranza in Spinoza. Raccolta di testi dal Tractatus theologico-politicus e dall’Ethica
Le due maggiori opere di Spinoza possono considerarsi come una sorta di autobiografia della speranza e della paura, costantemente e indissolubilmente legate l’una all’altra (“dalla sola definizione di questi affetti segue che non esiste speranza senza paura, né paura senza speranza”, E3P50S). Intorno a queste due passioni, infatti, si incentra per lo più il pensiero del filosofo, la sua gnoseologia, l’antropologia, la psicologia, ma anche la politica e la teologia. Speranza e timore dominano, infatti, la nostra vita e ne determinano ogni azione e ogni scelta.
Charles Le Brun, G: La frayeur, Paris, Musée du Louvre (G.M.6496)
Nelle circostanze più drammatiche, in preda alla paura, siamo costretti alle azioni più impensate e, inseguendo chiunque possa infonderci qualche speranza, rinunciamo ad ogni forma di razionalità e di prudenza. Sin dalla Prefazione al Tractatus theologico-politicus, Spinoza sottolinea l’incerta natura dell’uomo, soggetto a una continua fluttuazione d’animo (fluctuatio animi) e, dunque, facilmente esposto alla superstizione e al pregiudizio: “Se gli uomini potessero governare tutte le loro cose con ferma determinazione o se la fortuna fosse loro sempre propizia, non sarebbero soggetti ad alcuna forma di superstizione. Ma poiché essi vengono spesso a trovarsi in tali difficoltà da non sapere più come orientarsi, oscillando miseramente tra la speranza e il timore, a causa degli incerti beni della fortuna che essi desiderano smodatamente, il loro animo è quanto mai incline a credere, senza alcuna cautela, in qualsiasi cosa. Quando è oppresso dal dubbio, è facilmente sospinto or qua or là, e ancor più quando si agita in preda alla speranza e alla paura, sebbene in altri momenti si dimostri sin troppo fiducioso, orgoglioso e arrogante”. Convinto che “la maggior parte degli uomini non conoscano se stessi”, Spinoza ricorre alla metafora acquea per descrivere il fluttuare dell’animo in preda alle passioni: “Da ciò appare che noi siamo agitati in molti modi dalle cause esterne e che siamo sbattuti, come le onde del mare agitate da venti contrari, ignari della nostra sorte e del fato” (E3P59S). La condizione dell’uomo, insomma, è tale che egli, quasi ignorando la parte migliore di sé, ovvero la razionalità e il lumen naturale, non può che abbandonarsi alle sue peggiori espressioni. E tuttavia, talora le crisi, le difficoltà e i problemi possono servire anche da catalizzatori di grandi trasformazioni. La lucida analisi spinoziana si prefigge di indicare la via attraverso la quale l’uomo può liberarsi dalla sua ‘naturale’ soggezione alla speranza e alla paura attraverso la conoscenza, di sé, di Dio e del mondo, emendando il proprio intelletto e trasformando le nostre passioni (ciò per cui soltanto patiamo) in azioni e modalità dell’agire.
METUS
TTP Praef; G III, 5
Si homines res omnes suas certo consilio regere possent vel si fortuna ipsis prospera semper foret, nulla superstitione tenerentur. Sed quoniam eo saepe angustiarum rediguntur, ut consilium nullum adferre queant, et plerumque ob incerta fortunae bona, quae sine modo cupiunt, inter spem metumque misere fluctuant, ideo animum ut plurimum ad quidvis credendum pronissimum habent; qui, dum in dubio est, facili momento huc atque illuc pellitur, et multo facilius, dum spe et metu agitatus haeret, praefidens alias, jactabundus ac tumidus. Atque haec neminem ignorare existimo quamvis plerosque se ipsos ignorare credam; nemo enim inter homines ita vixit, qui non viderit plerosque in rebus prosperis, etsi imperitissimi sint, sapientia ita abundare, ut sibi injuriam fieri credant, si quis iis consilium dare velit; in adversis autem, quo se vertant, nescire et consilium ab unoquoque supplices petere, nec ullum tam ineptum tamque absurdum aut vanum audire, quod non sequantur. Deinde levissimis etiam de causis jam meliora sperare, rursus deteriora timere; si quid enim, dum in metu versantur, contingere vident, quod eos praeteriti alicujus boni vel mali memores reddit, id exitum aut foelicem aut infoelicem obnunciare putant, quod propterea quamvis centies fallat, faustum vel infaustum omen vocant. Si quid porro insolitum magna cum admiratione vident, id prodigium esse credunt, quod Deorum aut summi Numinis iram indicat, quodque adeo hostiis et votis non piare nefas habent homines superstitioni obnoxii et religioni adversi; eumque ad modum infinita fingunt et quasi tota natura cum ipsis insaniret, eandem miris modis interpretantur.
TTP Praef; G III, 6
Cau|sa itaque, a qua superstitio oritur, conservatur et fovetur, metus est. […] Et ad hunc modum perplurima adferri possent exempla, quae quam clarissime id ipsum ostendunt, homines scilicet nonnisi durante metu superstitione conflictari; eaque omnia, quae unquam vana religione coluerunt, nihil praeter phantasmata animique tristis et timidi fuisse deliria; et denique vates in maximis imperii angustiis maxime in plebe regnavisse, maximeque formidolosos suis regibus fuisse.
TTP, Praef ; G III, 7
Verum enimvero si regiminis Monarchici summum sit arcanum, ejusque omnino intersit homines deceptos habere, et metum, quo retineri debent, specioso religionis nomine adumbrare, ut pro servitio tanquam pro salute pugnent, et ne turpe, sed maximum decus esse putent in unius hominis jactationem sanguinem animamque impendere, nihil contra in libera republica excogitari nec infoelicius tentari potest, quandoquidem communi libertati omnino repugnat liberum uniuscuiusque judicium praejudiciis occupare vel aliquo modo coercere;
TTP, Praef ; G III, 12
novi deinde aeque impossibile esse vulgo superstitionem adimere ac metum;
TTP V; G III, 74
quamdiu enim homines ex solo metu agunt, tamdiu id, quod maxime nolunt, faciunt, nec rationem utilitatis et necessitatis rei agendae tenent, sed id tantum curant, ne capitis, aut supplicii rei sint scilicet.
TTP V; G III, 75
Deinde leges in quocunque imperio ita institui debent, ut homines non tam metu, quam spe alicujus boni, quod maxime cupiunt, retineantur; hoc enim modo unusquisque cupide suum officium faciet.
Hac igitur de causa Moses virtute, et jussu divino religionem in Rempublicam introduxit, ut populus non tam ex metu, quam devotione suum officium faceret.
TTP XVI; G III, 191
Praeterea nullus est, qui non cupiat secure extra metum, quoad fieri potest, vivere;
TTP XVI; G III, 192
Nam lex humanae naturae universalis est, ut nemo aliquid, quod bonum esse judicat, negligat, nisi spe majoris boni, vel ex metu majoris damni; nec aliquod malum perferat, nisi ad majus evitandum, vel spe majoris boni: Hoc est, unusquisque de duobus bonis, quod ipse majus esse judicat, et de duobus malis, quod minus sibi videtur, eliget.
TTP XVI; G III, 193
quandoquidem unusquisque naturae jure, dolo agere potest, nec pactis stare tenetur, nisi spe majoris boni vel metu majoris mali.
TTP XVII; G III, 201
Frustra enim subdito imperaret, ut illum odio habeat, qui eum sibi beneficio junxit, ut amet, qui ei damnum intulit, ut contumeliis non offendatur, ut a metu liberari non cupiat, et alia perplurima hujusmodi, quae ex legibus humanae naturae necessario sequuntur.
TTP XVII; G III, 202
Attamen ut recte intelligatur, quousque imperii jus et potestas se extendat, notandum imperii potestatem non in eo praecise contineri, quod homines metu cogere potest, sed absolute in omnibus, quibus efficere potest, ut homines ejus mandatis obsequantur: non enim ratio obtemperandi, sed obtemperantia subditum facit.
TTP XVII; G III, 202
Non igitur ex eo, quod homo proprio consilio aliquid facit, illico concludendum eum id ex suo, et non imperii jure agere; nam quandoquidem tam cum ex amore obligatus, quam cum metu coactus ad malum evitandum, semper ex proprio consilio, et decreto agit, vel imperium nullum esset, nec ullum jus in subditos, vel id necessario ad omnia se extendit, quibus effici potest, ut homines ipsi cedere deliberent, et consequenter quicquid subditus facit, quod mandatis summae potestatis respondet, sive id amore obligatus, sive metu coercitus, sive (quod quidem magis frequens) ex spe et metu simul, sive ex reverentia, quae passio est ex metu et admiratione composita, sive quacunque ratione ductus, ex jure imperii, non autem suo agit.
TTP XIX; G III, 232
Certum est, quod pietas erga patriam summa sit, quam aliquis praestare potest, nam, sublato imperio, nihil boni potest consistere, sed omnia in discrimen veniunt, et sola ira, et impietas maximo omnium metu regnat;
TTP XX; G III, 241
Ex fundamentis Reipublicae supra explicatis evidentissime sequitur, finem ejus ultimum non esse dominari, nec homines metu retinere, et alterius juris facere, sed contra unumquemque metu liberare, ut secure, quoad ejus fieri potest, vivat, hoc est, ut jus suum naturale ad existendum, et operandum absque suo, et alterius damno optime retineat.
E3P18S2; G II 155
Ex modo dictis intelligimus, quid sit Spes, Metus, Securitas, Desperatio, Gaudium, et Conscientiae morsus. Spes namque nihil aliud est, quam inconstans Laetitia, orta ex imagine rei futurae, vel praeteritae, de cujus eventu dubitamus. Metus contra inconstans Tristitia, ex rei dubiae imagine etiam orta. Porro si horum affectuum dubitatio tollatur, ex Spe fit Securitas, et ex Metu Desperatio; nempe Laetitia, vel Tristitia, orta ex imagine rei, quam metuimus, vel speravimus.
E3P39S; G II, 170-171
Caeterum hic affectus, quo homo ita disponitur, ut id, quod vult, nolit, vel ut id, quod non vult, velit, Timor, vocatur, qui proinde nihil aliud est, quam metus, quatenus homo ab eodem disponitur, ad malum, quod futurum judicat, minore vitandum (vid. Prop. 28. hujus). Sed si malum, quod timet, Pudor sit, tum Timor appellatur Verecundia. Denique si cupiditas malum futurum vitandi coercetur Timore alterius mali, ita ut quid potius velit, nesciat, tum Metus vocatur Consternatio, praecipue si utrumque malum, quod timetur ex maximis sit.
E3P40S; G II, 171
Qui igitur se odio haberi ab aliquo imaginatur, eundem alicujus mali, sive Tristitiae causam imaginabitur; atque adeo Tristitia afficietur, seu Metu, concomitante idea ejus, qui ipsum odio habet, tanquam causa, hoc est, odio contra afficietur
E3P50; G II, 177
Res quaecumque potest esse per accidens Spei, aut Metus causa.
E3P50S; G II 177-178
Res, quae per accidens Spei, aut Metus sunt causae, bona, aut mala omnia vocantur. Deinde quatenus haec eadem omnia sunt Spei, aut Metus causa, eatenus (per Defin. Spei et Metus, quam vid. in Schol. 2. Prop. 18. hujus) Laetitiae, aut Tristitiae sunt causa, et consequenter (per Coroll. Prop. 15. hujus) eatenus eadem amamus, vel odio habemus, et (per Prop. 28. hujus) tanquam media ad ea, quae speramus, adhibere, vel tanquam obstacula, aut Metus causas amovere conamur. […] Caeterum non puto operae esse pretium, animi hic ostendere fluctuationes, quae ex Spe, et Metu oriuntur; quandoquidem ex sola horum affectuum definitione sequitur, non dari Spem sine Metu, neque Metum sine spe (ut fusius suo loco explicabimus); et praeterea quandoquidem quatenus aliquid speramus, aut metuimus, eatenus idem amamus, vel odio habemus; atque adeo quicquid de Amore, et Odio diximus, facile unusquisque Spei, et Metui applicare poterit.
E3P52S; G II, 181
Sed si ex ipsius rei praesentia, vel accuratione contemplatione, id omne de eadem negare cogamur, quod causa Admirationis, Amoris, Metus etc. esse potest, tum Mens ex ipsa rei praesentia magis ad ea cogitandum, quae in objecto non sunt, quam quae in ipso sunt, determinata manet;
E3P56; G II, 184
Laetitiae, Tristitiae, et Cupiditatis et consequenter uniuscujusque affectus, qui ex his componitur, ut animi fluctuationis, vel qui ab his derivatur, nempe Amoris, Odii, Spei, Metus, etc. tot species dantur, quot sunt species objectorum, a quibus afficimur.
E3P56D; G II, 185
Sic etiam tristitiae affectus, qui ex uno objecto oritur, diversus natura est a Tristitia, quae ab alia causa oritur; quod etiam de Amore, Odio, Spe, Metu, animi Fluctuatione, etc. intelligendum est
E3AD13E; G II, 194
Ex his definitionibus sequitur, non dari Spem sine Metu, neque Metum sine Spe. Qui enim Spe pendet, et de rei eventu dubitat, is aliquid imaginari supponitur, quod rei futurae existentiam secludit; atque adeo eatenus contristari (per Prop. 19. hujus), et consequenter, dum Spe pendet, metuere, ut res eveniat. Qui autem contra in Metu est, hoc est, de rei, quam odit, eventu dubitat, aliquid etiam imaginatur, quod ejusdem rei existentiam secludit
E3DA15E; G II, 194
Oritur itaque ex Spe Securitas, et ex Metu Desperatio, quando de rei eventu dubitandi causa tollitur, quod fit, quia homo rem praeteritam, vel futuram adesse imaginatur, et ut praesentem contemplatur
E3DA31E; G II, 199
Verecundia autem est Metus, seu Timor Pudoris, quo homo continetur, ne aliquid turpe committat.
E3DA41E; G II, 201
Est igitur Pusillanimitas nihil aliud, quam Metus alicujus mali, quod plerique non solent metuere;
E3DA42E; G II, 201
Est itaque Consternatio Pusillanimitatis species. Sed quia Consternatio ex duplici Timore oritur, ideo commodius definiri potest, quod sit Metus, qui hominem stupefactum, aut fluctuantem ita continet, ut is malum amovere non possit.
E4P12D; G II, 218
At quatenus rem in futurum possibilem esse imaginamur, eatenus quaedam imaginamur, quae ejusdem existentiam ponunt (per Defin. 4. hujus), hoc est (per Prop. 18 p. 3) quae spem, vel Metum fovent;
E4P47 e D; G II, 245-246
Spei, et Metus affectus non possunt esse per se boni. Demonstratio. Spei, et Metus affectus sine Tristitia non dantur. Nam Metus est (per 13. Affect. Defin.) Tristitia; et Spes (vide Explicationem 12. et 13. Affect. Defin.) non datur sine Metu
E4P47S; G II, 246
Quo itaque magis ex ductu rationis vivere conamur, eo magis spe minus pendere, et Metu nos met liberare, et fortunae, quantum possumus, imperare conamur, nostrasque actiones certo rationis consilio dirigere.
E4P63; G II, 258
Qui Metu ducitur, et bonum, ut malum vitet, agit, is ratione non ducitur.
E4P63S; G II, 258
atque adeo (per 13. Affect. Defin.) qui Metu ducitur, et bonum timore mali agit, is ratione non ducitur.
E4P63S; G II, 258
Superstitiosi, qui vitia exprobrare magis, quam virtutes docere norunt, et qui homines non ratione ducere, sed Metu ita continere student, ut malum potius fugiant, quam virtutes ament, nil aliud intendunt, quam ut reliqui aeque, ac ipsi, fiant miseri, et ideo non mirum, si plerumque molesti, et odiosi sint hominibus.
E4P69D; G II, 262
At caeca Audacia et Metus affectus sunt, qui aeque magni possunt concipi […] Ergo aeque magna animi virtus, seu fortitudo (hujus Definitionem vide in Schol. Prop. 59 p. 3.) requiritur ad Audaciam, quam ad Metum coercendum, hoc est (per Defin. 40. et 41. Affect.), homo liber eadem animi virtute pericula declinat, qua eadem superare tentat.
E4P73D; G II, 265
Homo, qui ratione ducitur, non ducitur Metu ad obtemperandum (per Prop. 63. hujus); sed quatenus suum esse ex rationis dictamine conservare conatur, hoc est (per Schol. Prop. 66. hujus), quatenus libere vivere conatur, communis vitae, et utilitatis rationem tenere (per Prop. 37. hujus), et consequenter (ut in Schol. 2. Prop. 37. hujus ostendimus) ex communi civitatis decreto vivere cupit.
E4C16; G II, 270-271
Solet praeterea concordia ex Metu plerumque gigni, sed sine fide. Adde, quod Metus ex animi impotentia oritur, et propterea ad rationis usum non pertinet;
E4C25; G II 273
at largiter de humana virtute, seu potentia, et qua via possit perfici, ut sic homines, non ex Metu, aut aversione, sed solo Laetitiae affectu moti, ex rationis praescripto, quantum in se est, conentur vivere.
E4C31; G II, 276
At qui contra Metu ducitur, et bonum, ut malum vitet, agit, is ratione non ducitur.
E5P10S; G II, 288
De Animositate ad Metum deponendum eodem modo cogitandum est; enumeranda scilicet sunt, et saepe imaginanda communia vitae pericula, et quomodo animi praesentia, et fortitudine optime vitari, et superari possunt.
E5P41S; G II, 307
Pietatem igitur, et Religionem, et absolute omnia, quae ad animi Fortitudinem referuntur, onera esse credunt, quae post mortem deponere, et pretium servitutis, nempe Pietatis, et Religionis accipere sperant, nec hac spe sola; sed etiam, et praecipue metu, ne diris scilicet suppliciis post mortem puniantur, inducuntur, ut ex legis divinae praescripto, quantum eorum fert tenuitas, et impotens animus, vivant; et nisi haec Spes, et Metus hominibus inessent, at contra si crederent, mentes cum corpore interire, nec restare miseris, Pietatis onere confectis, vivere longius, ad ingenium redirent, et ex libidine omnia moderari, et fortunae potius, quam sibi parere, vellent.
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SPES
TTP Praef; G III, 5
Si homines res omnes suas certo consilio regere possent vel si fortuna ipsis prospera semper foret, nulla superstitione tenerentur. Sed quoniam eo saepe angustiarum rediguntur, ut consilium nullum adferre queant, et plerumque ob incerta fortunae bona, quae sine modo cupiunt, inter spem metumque misere fluctuant, ideo animum ut plurimum ad quidvis credendum pronissimum habent; qui, dum in dubio est, facili momento huc atque illuc pellitur, et multo facilius, dum spe et metu agitatus haeret, praefidens alias, jactabundus ac tumidus.
TTP Praef; G III, 6
Sequitur deinde eandem variam admodum, et inconstantem debere esse, ut omnia mentis ludibria, et furoris impetus, et denique ipsam non nisi spe, odio, ira, et dolo defendi; nimirum, quia non ex ratione, sed ex solo affectu, eoque efficacissimo oritur.
TTP V; G III, 75.
Deinde leges in quocunque imperio ita institui debent, ut homines non tam metu, quam spe alicujus boni, quod maxime cupiunt, retineantur; hoc enim modo unusquisque cupide suum officium faciet.
TTP VI; G III, 88
Verum quamvis illa miracula Aegyptios, et Judaeos ex suis concessis convincere, non tamen veram Dei ideam, et cognitionem dare poterant, sed tantum facere, ut concederent, dari Numen, omnibus rebus, iis notis, potentius, deinde quod Hebraeos, quibus tum temporis omnia praeter spem foelicissime cesserunt, supra omnes curabat, non autem quod Deus omnes aeque curet; nam hoc sola Philosophia docere potest;
TTP XVI; G III, 192
Nam lex humanae naturae universalis est, ut nemo aliquid, quod bonum esse judicat, negligat, nisi spe majoris boni, vel ex metu majoris damni; nec aliquod malum perferat, nisi ad majus evitandum, vel spe majoris boni: Hoc est, unusquisque de duobus bonis, quod ipse majus esse judicat, et de duobus malis, quod minus sibi videtur, eliget.
TTP XVI; G III, 193
quandoquidem unusquisque naturae jure, dolo agere potest, nec pactis stare tenetur, nisi spe majoris boni vel metu majoris mali.
TTP XVII; G III, 202
Non igitur ex eo, quod homo proprio consilio aliquid facit, illico concludendum eum id ex suo, et non imperii jure agere; nam quandoquidem tam cum ex amore obligatus, quam cum metu coactus ad malum evitandum, semper ex proprio consilio, et decreto agit, vel imperium nullum esset, nec ullum jus in subditos, vel id necessario ad omnia se extendit, quibus effici potest, ut homines ipsi cedere deliberent, et consequenter quicquid subditus facit, quod mandatis summae potestatis respondet, sive id amore obligatus, sive metu coercitus, sive (quod quidem magis frequens) ex spe et metu simul, sive ex reverentia, quae passio est ex metu et admiratione composita, sive quacunque ratione ductus, ex jure imperii, non autem suo agit.
TTP XX; G III, 244
nam ni homines spe tenerentur leges, et magistratum ad se trahendi, et de suis adversariis, communi vulgi applausu triumphandi, et honores adipiscendi, nunquam tam iniquo animo certarent, nec tantus furor eorum mentes agitaret.
E3AD12; G II, 194
Spes est inconstans Laetitia, orta ex idea rei futurae, vel praeteritae, de cujus eventu aliquatenus dubitamus.
E3P18S2; G II, 155
Ex modo dictis E3intelligimus, quid sit Spes, Metus, Securitas, Desperatio, Gaudium, et Conscientiae morsus. Spes namque nihil aliud est, quam inconstans Laetitia, orta ex imagine rei futurae, vel praeteritae, de cujus eventu dubitamus. […] Porro si horum affectuum dubitatio tollatur, ex Spe fit Securitas, et ex Metu Desperatio; nempe Laetitia, vel Tristitia, orta ex imagine rei, quam metuimus, vel speravimus.
E3P42; G II, 173
Qui in aliquem, Amore, aut spe Gloriae motus, beneficium contulit, contristabitur, si viderit, beneficium ingrato animo accipi.
E3P42D; G II, 173
Qui igitur prae amore in aliquem beneficium contulit, id facit desiderio, quo tenetur, ut contra ametur, est (per Prop. 34. hujus) spe Gloriae, sive (per Schol. Prop. 30. hujus) Laetitiae; hoc est, nemo spe damnum recuperandi, damnum sibi inferri cupiet, nec aegrotare desiderabit spe convalescendi.
E3P50; G II, 177
Res quaecumque potest esse per accidens Spei, aut Metus causa.
E3P50S; G II, 177-178
Res, quae per accidens Spei, aut Metus sunt causae, bona, aut mala omnia vocantur. Deinde quatenus haec eadem omnia sunt Spei, aut Metus causa, eatenus (per Defin. Spei et Metus, quam vid. in Schol. 2. Prop. 18. hujus) Laetitiae, aut Tristitiae sunt causa, et consequenter (per Coroll. Prop. 15. hujus) eatenus eadem amamus, vel odio habemus, et (per Prop. 28. hujus) tanquam media ad ea, quae speramus, adhibere, vel tanquam obstacula, aut Metus causas amovere conamur […] Caeterum non puto operae esse pretium, animi hic ostendere fluctuationes, quae ex Spe, et Metu oriuntur; quandoquidem ex sola horum affectuum definitione sequitur, non dari Spem sine Metu, neque Metum sine spe (ut fusius suo loco explicabimus); et praeterea quandoquidem quatenus aliquid speramus, aut metuimus, eatenus idem amamus, vel odio habemus; atque adeo quicquid de Amore, et Odio diximus, facile unusquisque Spei, et Metui applicare poterit.
E3P52S; G II, 180-181
Deinde, si hominis quem amamus, prudentiam, industriam, etc. admiramur, amor eo ipso (per Prop. 12 hujus) major erit et hunc Amorem Admirationi, sive Venerationi junctum Devotionem vocamus. Et ad hunc modum concipere etiam possumus, Odium, Spem, Securitatem, et alios Affectus Admirationi junctos; atque adeo plures Affectus deducere poterimus, quam qui receptis vocabulis indicari solent. […] Possumus denique Amorem, Spem, Gloriam, et alios Affectus junctos Contemptui concipere, atque inde alios praeterea Affectus deducere, quos etiam nullo singulari vocabulo ab aliis distinguere solemus.
E3P56; G II, 184
Laetitiae, Tristitiae, et Cupiditatis et consequenter uniuscujusque affectus, qui ex his componitur, ut animi fluctuationis, vel qui ab his derivatur, nempe Amoris, Odii, Spei, Metus, etc. tot species dantur, quot sunt species objectorum, a quibus afficimur.
E3P56D; G II, 184-185
Nempe Laetitia, quae ex objecto, ex. gr. A oritur, naturam ipsius objecti A, et Laetitia, quae ex objecto B oritur, ipsius objecti B naturam involvit, atque adeo hi duo Laetitiae affectus natura sunt diversi, quia ex causis diversae naturae oriuntur. Sic etiam tristitiae affectus, qui ex uno objecto oritur, diversus natura est a Tristitia, quae ab alia causa oritur; quod etiam de Amore, Odio, Spe, Metu, animi Fluctuatione, etc. intelligendum est:
E3C12; G II, 194
Spes est inconstans Laetitia, orta ex idea rei futurae, vel praeteritae, de cujus eventu aliquatenus dubitamus.
E3C12E; G II, 194
Ex his definitionibus sequitur, non dari Spem sine Metu, neque Metum sine Spe. Qui enim Spe pendet, et de rei eventu dubitat, is aliquid imaginari supponitur, quod rei futurae existentiam secludit; atque adeo eatenus contristari (per Prop. 19. hujus), et consequenter, dum Spe pendet, metuere, ut res eveniat. Qui autem contra in Metu est, hoc est, de rei, quam odit, eventu dubitat, aliquid etiam imaginatur, quod ejusdem rei existentiam secludit; atque adeo (per Prop. 20. hujus) laetatur, et consequenter eatenus spem habet, ne eveniat.
E3C15E; G II, 194
Oritur itaque ex Spe Securitas,et ex Metu Desperatio, quando de rei eventu dubitandi causa tollitur, quod fit, quia homo rem praeteritam, vel futuram adesse imaginatur, et ut praesentem contemplatur;
E3C16; G II, 195
Gaudium est Laetitia, concomitante idea rei praeteritae, quae praeter Spem evenit. Conscientiae morsus est Tristitia, concomitante idea rei praeteritae, quae praeter Spem evenit.
E4P12D; G II, 218
At quatenus rem in futurum possibilem esse imaginamur, eatenus quaedam imaginamur, quae ejusdem existentiam ponunt (per Defin. 4. hujus), hoc est (per Prop. 18 p. 3) quae spem, vel Metum fovent;
E4P46 e D; G II, 245-246
Spei, et Metus affectus non possunt esse per se boni. Demonstratio. Spei, et Metus affectus sine Tristitia non dantur. Nam Metus est (per 13. Affect. Defin.) Tristitia; et Spes (vide Explicationem 12. et 13. Affect. Defin.) non datur sine Metu, ac proinde (per Prop. 41. hujus) hi affectus non possunt esse per se boni, sed tantum quatenus Laetitiae excessum coercere possunt
E4P47S; G II, 246
Nam, quamvis Securitas, et gaudium affectus sint Laetitiae, Tristitiam tamen eosdem praecessisse supponunt, nempe Spem, et Metum. Quo itaque magis ex ductu rationis vivere conamur, eo magis spe minus pendere, et Metu nos met liberare, et fortunae, quantum possumus, imperare conamur, nostrasque actiones certo rationis consilio dirigere.
E4P54S; G II, 250
Quia homines raro ex dictamine rationis vivunt, ideo hi duo affectus, nempe Humilitas, et Poenitentia, et praeter hos Spes, et Metus plus utilitatis, quam damni afferunt;
E5P41S; G II, 307
Pietatem igitur, et Religionem, et absolute omnia, quae ad animi Fortitudinem referuntur, onera esse credunt, quae post mortem deponere, et pretium servitutis, nempe Pietatis, et Religionis accipere sperant, nec hac spe sola; sed etiam, et praecipue metu, ne diris scilicet suppliciis post mortem puniantur, inducuntur, ut ex legis divinae praescripto, quantum eorum fert tenuitas, et impotens animus, vivant; et nisi haec Spes, et Metus hominibus inessent, at contra si crederent, mentes cum corpore interire, nec restare miseris, Pietatis onere confectis, vivere longius, ad ingenium redirent, et ex libidine omnia moderari, et fortunae potius, quam sibi parere, vellent.
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