Tommaso Campanella, Lettere, n. 107

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AL CARDINAL NIPOTE ANTONIO BARBERINI IN ROMA

Parigi, 1° febbraio 1635

Eminentissimo e reverendissimo signore e padrone colendissimo,

la devozion e obligo immenso ch’io porto all’alta prudenza e generosa
carità di Nostro Signore nella salute mia, e per conseguenza a’ suoi, mi spinge
a scriver a Vostra Eminenza quel che nissun ardirebbe di quei chi vanno
a caccia della voluntà de’ prìncipi, e solo al proprio utile, non alla gloria e
util del padrone han mira. Questa è cosa troppo mostruosa, che per suo
onor e mio non la dirò mai ad altri: che gli Achitofelli publici e cantanbanchi
onorati abbiano talmente affatturato un principe – il qual deve esser tutto
occhi e tutto orecchie, come l’animal sacro d’Ezechiele – che né il debito
dell’officio, né la miseria d’un perpetuo servo non volgare di sua Casa, né il
cardinale Colonna con sue lettere, né il signor Contestabile e tutti Colonnesi,
né dui ambasciatori del Re Cristianissimo, né l’autorità di esso Re potentissimo
e santo abbian potuto fare che Vostra Eminenza mi ascoltasse una
volta, come se Vostra Eminenza avesse imparato da costoro ch’il potere sia
il sapere, e che però il principe non deve ascoltar né veder altro dopo questo
concetto, perché mai non sappia li inganni di chi li persuade, sotto specie di
prudenza falsissima, che non convien a principe udir chi dice mal d’altri.

E fra questo essi dicon mal di chi lor piace e son ascoltati, perché han il
tempo e ’l luoco d’insinuarlo sì, che paia non de industria, ma a caso e quasi
non volendo. E con questa arte piglian autorità di far mal impune e d’ingannar
il padrone, esclusi quelli chi potean avvisarlo. Così rimangon l’orecchie
de’ prìncipi vitriose e delicate, che non ammetton una rigorosa verità e son
preda d’adulatori, chiamati perciò da Platon filosofo «cochi», chi, porgendo
a fanciulli nobili vivande saporose e nocive alla salute, accusano i medici come
ministri di vivande non piacevoli, benché salubri, e l’ingannati fanciulli
credeno a quelli, scaccian questi e ruinano. Col tempo s’accorgerà di queste
arti e quando Nostro Signore sarà in Cielo.

Però avviso Vostra Eminenza, ch’ascolti anche i diavoli, almen per conoscer
la lor diavolezza per scienza e non per opinion conceputa d’altri malevoli
o non informati della verità. E miri ch’ella non è suo né d’alcuni, ma di
tutti ecc. Non li voglio dire più quel che cercavo dirli con tanta instanza, se
Vostra Eminenza non mel comandarà. Or, come a protettor dell’Ordine e
nepote zelante dell’onor di Nostro Signore, la supplico di tre cose.

Primo, mi faccia render dal Padre Mostro il mio libro del Reminiscentur,
approbato da gravissimi teologi, ritenutomi da lui son quattro anni,
sempre promettendomi renderlo: e non l’ha reso mai. E pure il libro è assai
necessario a’ missionari de propaganda fide, per saper il principio e ’l fine
istante d’ogni setta del mondo dove vanno a predicare, e ’l modo di convincerle
coi proprii loro principii e con la ragion commune, come monsignor
Ingoli sa e lo desidera. E pur il Mostro non ci trovò intoppo teologico, se
non vuoi che si parli sol con san Tomaso – questa è finzione – come se
non avesse la Chiesa altri campioni, né fosse scritto: «Mille clypei pendent
ex ea, omnis armatura fortium». E pur di tutti s’ha servito san Tomaso, e
tutti Padri chi scrissero contra Gentili e Giudei e Maomettani. E lui mi scassò
com’errore quella dottrina di san Tomaso: futura contingentia coëxistunt
aeternitati
, perché li Spagnoli, da’ quali esso ha li scartozzi che ha letto,
non tengon questa opinione. Vedi s’egli sa esser tomista. E quante volte
ci restò, con san Tomaso in mano, scornato, lo sa il Padre maestro Bartoli
e altri chi fûro presenti. Di più, ci mette non so che timor politico, cioè che
li prìncipi averian per male che nel libro gli esorto che, lasciati gli odi e guerre
tra Cristiani, dilatassero il loro imperio sopra infedeli, chi per lor discordia
ci han tolto trecento regni ormai. Vostra Eminenza me lo faccia rendere;
e se vol contendere, mi dia per giudice la Sorbona e ‘l cardinale Ricilieu.

Secondo, dimando ch’ordini al Padre Mostro, che non impedisca più il
publicetur del libro mio intitulato Monarchia Messiae, stampato in Iesi, approbato
già dal Compagno del Santo Offizio, e dal Padre maestro Bartoli per
commission del Padre generale, e da esso Padre Mostro con molti encomi.
Perché in vero non è uscito libro mai più potente per l’autorità di santa Chiesa.
E ora finge che daria disgusto a prìncipi, quando in vero si conosce dalla
lettura e dal proemio e dall’approbazion loro, ch’è utilissimo a concordar i
prìncipi col papato, e necessario, perch’essi alzano un tribunal sopra quel
di san Pietro, eretto da Dio «super gentes et regna». E fanno scriver così
da tutti, e far poi opinion commune. E poi non si potrà rimediare, restando
già tradita la causa di Dio con legar le mani a’ soldati di santa Chiesa e sciôrle
a’ nemici. E se pur Vostra Eminenza dubita, mi dia giudici ut supra.

Terzo, dimando che sia relassato il mio libro stampato in Roma contra
ateisti, il qual dopo il publiceturfu da Nostro Signore ritenuto, perché li
parea ostar in un luoco di tre versi alla bolla contra astrologi: e accomodando
io quello, il Padre Mostro prese occasion di impedirlo in tutto, dicendo
a Nostro Signore che ci son più di venti luochi similmente contrari alla
bolla. E poi si ridussero a quattro, e poi ad uno. E io non ho voluto consentire
alla sua censura di quel luoco, perché è contra l’onor di Nostro Signore
e favorisce a’ Manichei, proibendo Nostro Signore che non si facciano pronostichi,
secondo i canoni. E ’l Mostro dice che proibisce ancora l’argomentare,
come fo io e li santi Padri, contra astrologos Mahometanos ex dictis
astrologorum.
A punto, come dice Fausto manicheo, che san Matteo con error
gentilesco disse: «Vidimus stellam eius» ecc., e Mosè: «Orietur stella ex
Iacob» ecc., onde segue anche che né pur contra Gentili ed eretici ed
Ebrei potemo argumentar ad hominem ex dictis eorum etiam diabolicis, ex
oraculis et Sibyllis
, come fe’ san Paolo e tutti Padri, imitando Matteo e Mosè.
E così cade tutta la teologia, come dice Melchior Cano, si non licet Goliam
proprio gladio confodere
. E contendendo io ch’il Mostro fe’ censura
tanto mala, e che lo dica al Papa ch’è contra Sua Beatitudine, lui mi rispose:
– È vero, ma così vuol il Papa; io non posso replicarli. – Creda certo Vostra
Eminenza che quella bolla, così intesa come vuol il Mostro, saria da brugiarsi
dopo il transito di Sua Beatitudine in altra vita, come può veder dalla difesa
di detta bolla fatta da me e data al signor cardinale Orige.

Secondo, pur esso Mostro disse più volte che saranno anche proibiti li
poemi del Papa, perché metton la sacra Scrittura in verso. E, fra tante cose
che mi fûr riferite che lui dicea contra il Papa, quando trattò con l’astrologi
di sua morte, e mi fûr inculcate spesso dal Padre Acquaviva e dal Padre
Lupi ch’io le riferissi a Sua Beatitudine, questo solo ho riferito a Sua Beatitudine,
perché mi toccava per il commento che io ci facevo a’ detti poemi.
E non fui forse creduto, né fûr interrogati alle strette li predetti frati;
ma ci è tempo. Come anche stimâro calunnia quel che dissi del suo libro
Sopra le letanie, ch’era pieno di gentilismi, giudaismi e zannate burlesche
contra la sacra Scrittura e contra i Padri per parer mostrosamente dotto.
Almen leggessero quel che dice contra san Giovanni evangelista quando stava
sotto la croce: ch’era una bestia intricata nelle spine di peccati e materia
di vendetta ecc. E che la Madonna più ha dato a Cristo che Cristo a lei: e
però mai potrà Cristo estinguer il debito ecc. E perché Vostra Eminenza e
gli altri son sordi a questo, presto tutte le accademie d’Europa faran vedere
ch’io non ho mentito; e quanto è stato ingannato Nostro Signore da quelli
che testificâro per il Mostro senza veder il libro, pensando che dispiacevano
a Vostra Eminenza facendo il contrario. Di più, l’avviso che l’accademia
contra eretici, qui eretta, desidera questo mio libro contra ateisti; e di questo
fece istanza il Padre fra Giacinto parisiense cappuccino in Roma al Padre
reverendissimo commissario Firenzola, e ora a me fanno istanza.

E certo è necessario, perché ho provato che pochi eretici credono alla
propria setta, né alla nostra fede. E però bisogna cominciar da: «Credo in
Deum» con loro; e tutti mi cercano argomenti se Dio è e se l’anima è immortale.
E ’l mio libro è attissimo a questo; e qui ce ne son pochi, e vorriano
ristamparlo. Fu revisto diece volte, e in verità non ci è cosa contra la bolla.
Almen lo faccia veder dal Padre Firenzola e da teologi non interessati col
Mostro e col Padre generale.

Vostra Eminenza non creda al Padre Mostro, che si ride de’ santi e d’ogni
savio. E non ha studiato scienza alcuna né teologia, come appar dal suo libro,
se non nei scritti chi portò da Spagna, come si vede dai boffoneschi scritti
ch’ha dato a’ scolari, perché studia solo all’apparenza. Veda ch’ha stampato
il primo testo del Genesi in greco, arabico, latino e ebreo. E ci pose per commento
la Catena del Lippomano, senza però nominar li Padri ivi incatenati; e
lo mandò son quattro anni per tutto il mondo – io lo vidi in Francia – per dar a
creder che lui sa tutte quelle lingue, che non sa, salvo la latina, e che fe’ quel
commento, che non è suo. E poi cessò di scriver, perché non sa veramente.
Ma li basta il mostrarsi. Son sei anni che scrive la difesa del Concilio tridentino,
e rubba gran parte da’ libri miei sopra nominati e dalle fatiche del Carli. E poi
son cose poco al suo proposito. E non stringono, ma motteggiano.

Io dissi a Nostro Signore il modo di questa difesa; e Nostro Signore mi
ordinò ch’io la scrivessi dopo che il Mostro scriverà; e ancora s’aspetta, perché
va imparando da chi una cosa, da chi un’altra. E poi lo manderà fuori
per suo dopo sette anni quel che si potea, da chi sa, far in tre mesi. Questo
dico, perché è vero e perché lui vi ha lavorato appo Vostra Eminenza per sé
e per altri Achitofellisti – tanto che mi fe’ tener per indegno di sua audienza,
dimandatale etiam da prìncipi e da re – e perché presto si vedrà ciò che
dico, con poco onore di chi l’ammira senza voler far prova del meglio.

Mi perdoni Vostra Eminenza della lunghezza, perché m’han cacciato
d’Italia e non posso a bocca parlarle, né ho potuto per ecc.; e tenga per fermo
che io più stimo e amo la gloria di Vostra Eminenza e di Casa Barberina
che tutti quanti servi e amici li pare tener a lato, e col tempo lo vedrà, e muterà
opinione in meglio. La supplico mi faccia continuar li quindici scudi
d’oro, che Nostro Signore mi dà, perché il mondo intenda che non son fuor
di casa, benché lontano, né scioccamente canto di miei padroni.

Proverà anche ch’io vaglio qua più che diece ambasciatori per l’interessi
di Casa Barberina e di santa Chiesa; e parlo con verità filosofica, non con
stile di cortegiano.

Né credo che di ciò si turberà, perché il suo natural generoso talento non
può esser tanto offuscato dalla consuetudine, che non possa germinare ottimi
frutti di prudenza e di giustizia e d’intelligenza più sempre all’interno
penetrante. E considero bene che li prìncipi non sempre pôn fare quel che
vorrebbono, né mostrare quel che più apprezzano.

Resto prontissimo ad ogni suo comando, e li prego dal cielo la lunghezza
della vita di Nostro Signore, per la cui gloria desidero mi sia concesso stampar
i suoi alti poemi col mio Commento filosofico, tanto invidiatomi da questi
Achitofellisti, quando ero in Roma, che fecero ogni sforzo per distrarmi
da questo e dalla servitù di Nostro Signore per vie perverse e oblique,
come l’istorie palesaranno.

Parigi, 1° febbraro 1635.

Di Vostra Eminenza
servitore umilissimo e fedelissimo
Fra Tomaso Campanella

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