Tommaso Campanella, Lettere, n. 27

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A CRISTOFORO PFLUG IN SIENA

Napoli, luglio 1607

A Cristoforo Flugh.

Se ti ricordi, Cristofaro mio, io brevemente ti dimostrai ch’era stolto
pensiero onorar più la parte ch’il tutto e più gli effetti che le cause prime.
Onde conobbimo che, sendoci ragione e senno nella costruzion delle piante
e degli animali e gran manifesta ragion nell’uomo, forza era ch’il mondo, di
cui queste son particelle, sia di conoscenza mirabile avvivato e governato; e
che noi stavamo dentro a lui come i vermi dentro il ventre umano, che non
conoscono l’anima razionale che l’uomo governa, ma si pensano che sia
un’insensata massa. Hai visto poi come il primo Senno, onde tutte le conoscenze
pendeno, tiene assai più cura di ogni cosella, che la nostra anima in
noi, che pur li peli e gli escrementi usa con mirabil arte a diverse utilità, secondo
meglio poi dalla Filosofia nostra, che portasti teco, averai considerato.

Talché il primo Senno tenerà più conto degli uomini che dell’altre particelle
del mondo, poiché senza dubbio son più nobili e si serveno de’ bruti
e piante e mare e aria, e del fuoco istesso, da cui procede l’anima brutale,
come di cose vili e basse, ad ogni lor uso. Dunque è verissimo che questo
Senno abbia dato legge agli uomini dopo che prevaricâro quella che in natura
innestò primamente, e finalmente, sendo inaccessibile questa Sapienza
infinita, si fece accessibile a noi e, come noi, uomo; e che negar questo è
negar la providenza sua necessaria, e l’amor che porta a’ suoi effetti più ch’il
padre a’ figli, o io alli miei libri, senza comparazione; e che, sendo egli in
ogni cosa, non l’è viltà esser nell’uomo in un modo particolare e dirsi uomo,
poiché in un certo modo:

Iuppiter est quodcumque vides, quodcumque movetur.

Poi hai visto che tiene necessariamente una scola in terra delle sue verità;
e che non possa esser altra questa se non la Chiesa romana, autorizzata
con successione certa di mille seicento anni, con miracoli, riscontri, testimonianze
e martirio; e che nullo può dal possesso suo levarla, se non ha
tanti miracoli, profezie, testimoni e martìri quanti fûro quelli co’ quali
san Pietro tolse il pontificato a Cesare, e Cristo a Caifa, ed Elia ed Eliseo a’
sacerdoti di Ieroboam, e Mosè a’ sacerdoti egizii ecc. E come a Lutero e a
Calvino, mancando queste prove e non ci essendo altro che pugna di parole,
come fûr in Arrio, Sabellio, Pelagio, o forza d’armi come in Macone,
in Tamerlane, in Cinghi, in Alessandro, non deve darsi credito d’ambasciator
divino, perché Dio autorizza con altissimi modi i suoi profeti che
manda a ristorare i secoli. Dalle quali poche parole, più dette con letteratura
umana che divina da me, perch’allora io non avea visto angeli e diavoli
che mi facessero per evidenza cristiano, com’ero prima per fredda fede, tu
con intelletto vivo mi prevenisti, e formasti in te Cristo, vera Sapienza, e
andasti in Roma, e riconoscesti la sua scola, e in quella ti aggregasti. Dal
che ne è venuto a me non solo gloria in Cielo e in terra, ma speranza certa
di libertà; e hai suscitato Gaspare Scioppio uomo di bontà e di senno segnalatissimo,
a pigliar la mia protezione; e per te si son posti li prìncipi
di santa Chiesa in pensiero d’aiutarmi.

Ora pensa, Flugio mio, quanto bene m’hai recato e quanto obligo ti porto,
poi ch’hai fatto in meglior modo così, che non trattando per li prìncipi di
Germania il negozio mio, secondo tu promettesti e ’l Conte Giovanni teco.
Vidi l’animo tuo grandissimo; ma, gli effetti non rispondendo, mai non ho
attribuito questo a simulazione o fellonia, ma ad impotenza. Ma Dio, che
non manca della sua grazia in quel che noi ben volemo e mal volemo, ha
conciato il negozio per questo verso. Ma ora io ti dico che quanto hai fatto
per tua salute eterna e mia temporale, tutto risulta a ruina tua e mia, con
biasmo orribile e indegno della nostra filosofia, anzi d’ogni bassa creatura.
S’intende per Napoli e per Roma che io ho convertito uno dal Calvinismo al
puttanesmo, per non dir peggio: che tieni una mala femina, anzi ella tiene te
incatenato, e che non sai partirti di Siena e dal suo seno, e che li parenti tuoi
e amici t’hanno per persona perduta, e gli eretici dicono che questo è il frutto
del catolicismo, e li catolici dicon: di me. E tu sei cieco, come si dice ch’è
l’amore lascivo, e non vuoi veder il vituperio e danno tuo e mio?

Pertanto io ti prego, supplico e scongiuro per la prima Possanza, per la
prima Sapienza e per il primo Amore, un ente, autore e governator dell’universo,
che in legger questa subito lasci questa femina, ancor che fosse dea,
e te ne vadi a trovar Scioppio, angelo mio, e fare quanto egli ti dirà; perché
certamente «manus Domini est cum illo». Da lui averai tutte sorte di libri
miei; ma, per riconoscimento e sicurtà della vera fede, vederai un libro di
ciò a lui dedicato; quello leggerai e ’l Dialogo contra eretici: e con questi
e altri libri t’armerai in difesa della fede, e anderai in Germania, e sarai gloria
di questo secolo; e non far di manco, ch’io ti antevedo un flaggello da
Dio peggio che non fu il mio. D’alcune cose che stai in dubbio ti certificarà
il libro De sensu rerum: io vidi e vedo cose mirabili, e tu sai che le mie prove
non vengon da troppo credulità, né d’inganno altrui, né di sciocchezza. Sii
savio e prudente, ché, quando saremo insieme – il che fia presto – udirai e
vederai cose che ti parerà una baia tutta la sapienza umana. Silenzio per mo.

Io pur in quello libro di spiriti, che mi facesti vedere, errai burlandomi;
ma oggi vedo in un altro modo. Aperi le porte dell’anima tua, che so che
non son di pietra e di legname, ma d’oro facile e pieghevole; e s’in te ci è
cura della salute tua e mia, fa’ come io ti dico. Sappi certo ch’io ti donai
mal esempio burlando con quelle donzelle che m’invitavano dalle fenestre
a pazzie più ch’io non volevo; e sempre mi pare che per quello tu or stai
in errore; e ti dico certo che sarai la ruina mia inanti a Dio e a quelli prìncipi,
se non obedisci al primo Senno. Io ben t’ho compassione, perché gli uomini
savii e virili più si lasciano vincere dall’amore che dal dolore: però spesso li
dèi dalli poeti son sottoposti a questo: ed Ercole servìo ad Omfale, e Annibale
per una donzella perdé l’impresa di Roma, e Alessandro fu legato dalle
donne persiane, e Cesare d’altre assai; e di filosofi non mancano esempi.
Virgilio, che era facile ad amore, finge Enea avvilito appo Didone, ma
con falsità intollerabile in vituperare donna tanto eccellente. E pur tutti
quelli eroi fûr forti nelli affanni e vinsero. Pensa di David, di Sansone e
di Salomone lo stesso; e pur la Sapienza eterna incarnata per amor d’altri
ha fatto tanti miracoli e per li suoi dolori disse: «Deus, dereliquisti me».
Vero è ch’

omnia vincit amor,

o divino o umano; ma il divino li divini uomini, l’umano gli umani e ‘l misto
i misti.

Questo error tuo facile sarà a perdonarsi e scancellarsi con la gloria della
vita sequente, s’alcun Mercurio ti verrà da Giove dicendo:

... pulchram uxorius urbem
exstruis? heu, rerum oblite tuarum ecc.

Sia io questo Mercurio. Ben sai che amor è desiderio d’immortalità e d’eternità;
e la natura, volendo eternarci in qualche modo, ci donò quello stimolo
di far figli e di gettar il seme in un vaso dove si ammassasse e componesse
un altro noi, talché, morendo noi, resta chi è un altro noi e non
morìmo del tutto. Ma questo atto non lo fe’ la natura per noi veramente:
perché l’uomo morto non sente l’esser suo nel vivo, né anche nella vita
de’ libri e statue e città e giardini che lascia; ma questo fu un inganno savio
della natura, ch’è arte dalla prima Sapienza pendente, per farci desiderare
onori e glorie e fatica per li posteri e per la republica e per bene utile e per
esempio loro: e così diede il desiderio delli figli per beneficio della republica
e di tutta la specie, che non s’estinguesse, ma durasse quanto e com’è mestieri
all’opera del primo Senno.

Dunque allo individuo questo è un inganno, perché perde la propria sostanza
e spiriti e sangue per darla altrui. Onde dicono i Platonici: «Subdola
Venus non providet natis, sed nascituris»; e per tirarci a gittar la sostanza nostra,
ci pose questo diletto fallace momentaneo, che ne mette in una viltà, di
più, grande sì ch’il pensier nostro stia dentro un vaso di sangue mestruo e d’orina;
e a molti in peggiore, secondo il peccato loro merita, ut tradantur in reprobum
sensum
et reprobam voluptatem. Del che accorti i savi, si procacciâro
eternità con le virtù e con accostarsi a Dio eterno, e si castrâro per il regno del
Cielo, stimando viltà l’eternarsi solo come fan le bestie e le piante, massime che
spesso il figlio è dissimile al padre e, in luoco d’eternarlo, lo disperde.

Ora tu, Flugio, sendo filosofo, che ne pretendi da femina vile? Ancor
che per la prole questo facessi, saria assai poco e vil pensiero di par tuo:
li figli di filosofi son tutti quasi stolidi e ignoranti, come sai nella nostra Filosofia.
Dunque non per questa via tu sai d’immortalarti; o vero non intendi
che sia altro amore ch’una foia di gittar il seme dovunque cada: e questo è
atto di bestia, non d’uomo. Io mi pensavo che ‘l tuo cervello, sendo così docile,
non solo avanzasse il volgo in questo, ma la natura stessa, e l’inganni
suoi schifasse: e mo ti vedo non sopranaturale, non transumanato, ma né
anco umanato, ma sottoumanato e imbestiato. Oh, infelice io! Dunque tanto
bestia io fui, che seminai il seme del Senno primo in luoco ch’avesse a
diventar loglio di frumento e bestialità di sapienza? Deh, non sia mai!
M’hai promesso libertà; andavi smaniando per la stanza mia e parlando solo
come spiritato per troppo desiderio d’aiutarmi; e non l’hai fatto. Or, se
quella fede e giuramenti, ch’hai dato a me, di pensar alla mia salute, valeno
in te, or li dimostra; ch’io mi tenerò salvato e sodisfattissimo se tu lasci quella
femina e t’accompagni col nostro Scioppio.

Non sai che la fede è lume d’ogni virtù, e che chiunque va senza lume
non compare? Se tu fossi sapientissimo, fortissimo, ricchissimo, santissimo,
e non servi la fede, pari disleale, perverso, falsario e indegno di vita. Se tu
fai poco conto non avermi serbata la fede data, di qual altra colpa tenerai
riguardo? Non ci sarà amicizia, né virtù, né Dio per te. Io inanti Dio e inanti
gli uomini protesto che m’osservi la fede data, a molti nota. Tu dici che non
hai potuto; e io ti dico che mo puoi, solo con lasciar quella femina, e mostrar
alli prìncipi miei ch’io ti predicai virtù e non vizii, e con andar in Germania
a combatter per la fede e negoziar per me secondo promettesti. E se non
vuoi fede, abbi pietà di me meschino, ch’amor lascivo non è senza pietà.
Imagina che mi puoi salvare con questo atto onoratissimo. Umana cosa è
peccare, e di grandi uomini in amore; ma non ravvedersi è cosa bestiale.
Questi ch’hai sequito erranti, sequili ora penitenti. Di’ con David: «Miserere,
Dio». Dunque, tutta la tua virtù e gloria e fama e amici e consolazioni,
anzi Dio stesso hai tu sottoposto ad una buca di sporchezze? ad uno orinale?
ad una sentina di fetore? O caro amico, mira per Dio il fine: che ne cavi
da quel vil pertugio? Non vedi che la natura, per avvilirci e farci far penitenza
di nostri errori, ci dona quell’ardor infame di sotterrarci in una puzzolenza
e sottoponerci a vilissime feminelle? Se necessità ti move, ci son le
mogli per questo, e per manco male qualche fornicazione; ma darsi un filosofo
in preda di tal viltà è macchia di tutta la filosofia.

Vedi Scioppio, anima divina: pensi tu che Venere non lo tenta? Tutti siamo
di carne; ma questa è la più gran vittoria: vincere il nemico interno. Non solo a
me porti macchie e roina, ma a lui, ch’in Roma ti laudò e ausò con tanti signori,
e ogge credo che non ha faccia di mirar in quelli, perché tutti l’imbrattasti.
O amico crudel e ingrato, se non vuoi mirar l’onor tuo, mira quel degli
amici; mira la opinion tua, che puzza appresso tanti prìncipi, e nella casa tua
nobile poni magagna, scherno e vergogna. Ho scritto a Scioppio che ti faccia
vedere tutti i libri del mastro, poiché ‘mastro’ mi chiami: e or vedrò se con verità
o per burla lo dici; e saperai cose che ti transumanaranno. Però, anima bella,
non ti vituperare; a te io mando tutte quelle cose, leggile, ché forse rimediarai
a te e a me: non perder l’eredità del mastro anzi del Senno primo, a cui io
faccio li scolari e non a me, come tu ben sai. Guàrdati dal suo flaggello!

Se subito non obedisci, guàrdati, ch’io vedo e antevedo assai di lontano;
e li guai miei mi fecero più acuto, né posso dirti tutto: credimi, credimi; se
non, guai a te. Io spero che, sendo d’ingegno eroico e amorevole, almanco
per darmi contentezza lo farai, e forsi io ho detto più che non si deve ad
anima tanto facile ad ogni virtù e dottrina; ma l’amor mi sporta. Tu sai
ch’io più cedo agli uomini in sapere ch’in amore; e che, sendo parte dello
spirito mio in te, non posso non fervidamente amarti; il che tu non puoi far
tanto con me: ché li beneficii tuoi fûr esterni e non ci è tanto del tuo nel
vaso mio. Dunque, lasciami dire il vero allo spirito mio in te; forsi, sendo
sopito, si sveglierà come seme di primavera al sole, e frutterà salute a te e
a me, e gloria commune a tutto il Cristianesmo. Tu sai di portare il Senno
dove non ci è per varios casus

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