Tommaso Campanella, Lettere, n. 126

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A NICOLAS-CLAUDE FABRI DE PEIRESC
IN AIX-EN-PROVENCE

Parigi, 22 agosto 1635

Illustrissimo e reverendissimo signore e padrone colendissimo,

la ultima di Vostra Signoria illustrissima e reverendissima mi fu di sommo
contento, avendomi levato dal core la gelosia della sua grazia, della quale
né in me né in lei potevo averne sospetto, ma negli eventi esteriori e fortuiti
impercettibili. È venuto l’illustrissimo signor suo fratello: mi disse
l’Arcivescovo d’Aix che non lo posso trovare, perché sta sempre in negozio.
Venne da me Sua Signoria illustrissima e mi recò tanta consolazione quanta
forsi s’io vedessi Vostra Signoria: e la presenza maestosa e ’l trattar cortese e
modestissimo e ’l portamento grave ben mostravano quel che egli è. Li recai
subito il pecorello e li parlai delle medaglie, che son assai più antique e più
rare che le romane, con insegne mirabili delle republiche nostrali, Cotrone,
Reghio, Locri, Ipponia, Turii, Brezia, Caulonia, Pandosia, con molto sdegno
che si siano perdute in casa dell’Ambasciatore, non so come. Con tutto
ciò non volle Sua Signoria illustrissima pigliar il pecorello, dicendo: – Non
importa – ecc.; e, scongiurato, mi rispose: – Sarà tempo – ecc. Io sto per andar
domane o in questa semana a’ bagni col signor abbate Del Thou; e però andai
ieri a trovar questo signore suo fratello, non lo trovai e, per dubbio non
lo vedessi più, se ben m’ha detto che ci rivederemo, metto il pecorello in
mano del signor Deodato, e anche quelle medaglie, «reliquias Danaum»,
che, secondo l’ordine di Vostra Signoria illustrissima, lo sforzi a pigliarle,
come credo lo farà cortesemente, avendo io avuto la grazia di Vostra Signoria
illustrissima e l’assenso in questo.

Sappia che si può dir a Vostra Signoria illustrissima quel di Terenzio:
«Ovem lupo commisisti», quando mi dice che lo faccia vedere e giudicare.
Ond’io non ho osservato il suo precetto, perché subito sarebbe venuto alle
orecchie di Monsù, il qual m’ha ricevuto in sua grazia con molti officii
amorevolissimi e si diletta assai di medaglie e d’antiquità; onde sarei stato
necessitato farcilo vedere e dare: e in vero ne sa bene, e l’istorie di queste
cose anche, e di saper tutte l’erbe pur si diletta ecc.; e perché volea questi
dì venir da me, secondo mi dissero i suoi aulici, io lo serrai. Né anche lo feci
veder al signor Gaffarello, perché nol dicesse al Cardinal Duca, chi fa una
galleria di simili cose ecc. Però Vostra Signoria mi perdoni se non l’ho obedito
in questo.

Si è cominciata la stampa: prego il signor Cassendo mi favorisca di quel
che li scrissi. So quanta stima fa Seneca della moralità di Epicuro in più
luochi; e della fisiologia, quanto alla causa materiale, non ci è chi non si
ne serva, anche color che negan gli atomi: e quando sarà stampata la Metafisica,
vedrà s’io scrivo per estinguere i studi altrui o per svegliarli ed esaminar
più avanti. E quando scrissi a Vostra Signoria ch’io solo in questo
libro scrivo contra gli altri – perché in ogni altra opera scrivo aforisticamente
– per sveller le spine, volendo seminare, non dovevo così dire, benché
questa metafora sia di san Pietro rispondente a Simon Mago appo san
Clemente romano; ma volevo dire che mi fu necessario mostrar per che
ragioni non credo a chi scrisse avanti a me e mi fu bisogno filosofar più
avanti, e per che cosa, non bastando le cause, andai su li princìpi, e sopra
questi alle primalità, vedendo che né gli atomi né gli elementi né le qualità
fisiche loro e congressi pônno render sufficiente ragione degli effetti della
natura.

Son venuti alcuni da me con strane opinioni e simili a Paracelso; e io
non ho ripreso lo studio loro, ma rallegratomi che non stanno soggetti alle
volgari opinioni; e per reprobazione non dissi altro che, se da questi princìpi
pônno mostrarmi perché la calamita tira il ferro, e lo scorpione uccide un
uomo, e ’l chiodo si volta al sito in che è nato, e l’arte con che si fa l’occhio
dagli elementi insensati e irrazionali – Lucrezio epicureo, molto da me studiato
e stimato, non risponde con sodisfazione –, io sarò con loro; e li fo
tornar pieni di dubbi, non di riprensioni. Io qua venni per cercar libertà,
«quae sera tamen respexit inertem» ecc., «candidior» ecc.; non per tôrla
ad altri.

Resto lieto che Vostra Signoria illustrissima si rallegra in me, servo suo, e
prego Dio che la faccia venir con qualche occasione in Parigi per starci qualche
mese; e communicar seco quanto io posso e so e vaglio, intra il ventre
del mondo riposto come un verme

nato a formar l’angelica farfalla,
che vola alla giustizia senza schermi,

come dice Dante.

Resto sempre al suo comando e le fo umilissima riverenza.

Parigi, 22 agosto 1635.

Di Vostra Signoria illustrissima e reverendissima
servitore divotissimo e umilissimo
Fra Tomaso Campanella ecc.

Col signor Nodeo non ci fu altro, se non che lui si prese dalla camera mia
tutti l’originali degli opuscoli con dire che volea stamparli, e poi nol fece e
impedìo me dal farlo: lo perdonai, già che mi mandò l’opuscolo De titulis.
Fece un panegirico ad Urbano VIII, nomine academiarum pro liberazione
Campanellae
, attinto da me, e mai non volle darlo al contestabile Colonna,
che lo presentasse al Papa, né a me, e son tre anni: volea lui esser introdotto
quando stava col Cardinale, e aspettò la mia partenza e gaudio di nemici,
prima ch’indursi a farlo con tanti prieghi. Di più, ha scritto la vita mia e
non vol darla al padre Giacinto, né ecc.; item, li dettai un libro De libris
propriis
col giudicio di tutti scrittori di tutte sorte di scienze, e non ha voluto
che si veda. E si serve di quello in sue opere. Né ciò mi dispiace, ma il
modo, perché pur li donai lo scritto De conflagratione Vesuvi e si n’ha servito.
Io tengo tutto per baia e a tutti do i miei libri; mi duole che me li
tengono e del loro son avari, quando non dottrina, ma sol aiuto cercavo,
quando i Spagnoli cercavan farmi odioso al Papa. Passò ecc. […] lui rispose:
– Non voglio dar le mie fatiche, che altri s’onori. – Favilla rispose: – Vostra
Signoria non ha parte in quelli, perché vi fûr dettati dal Padre e da noi – ecc.
Veda Vostra Signoria s’ho torto; e lui si lamenta con che ragioni. Con tutto
ciò io li scrissi e scrivo amorosamente e le dico ex corde che ciò nulla mi
move. M’ammiro che lui scrive ciò a Vostra Signoria illustrissima.

[A tergo:] All’illustrissimo e reverendissimo signor l’abbate Fabri, monsignor
de Peresc, del Parlamento reggio, padrone colendissimo. Aix.

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