Tommaso Campanella, Lettere, n. 5
AL CARDINALE MICHELE BONELLI IN ROMA
Roma, 20 dicembre 1595
Illustrissimo e reverendissimo signor fra Michele Bonelli, de’ Predicatori padre
e protettore, cardinale
Alessandrino, mio padrone sempre colendissimo.
Quando partii da Vostra Signoria illustrissima per Santa Sabina, bene avisato
e animato dalle sue ammonizioni,
perché io le ricevei come a parole del
dignissimo capo della mia religione conveniva, lo spirito di Giesù Dio corrispose
alla mia ben informata volontà, di modo che volle dimostrare ch’io ancora
vivo di quell’anima che ’l misterioso
corpo di santa Chiesa avviva, contra
le presunzioni che di me i falsi uomini hanno avuto e studiato far ch’altri l’avesse.
Pertanto m’instigò che facessi un discorso contra i Luterani e Calvinisti
e contra ogn’altro settario, che
contra il vero insorgere potesse; il qual discorso
la disputa a’ primi colpi tagliasse, e più nella loica di Cristo e
degli Apostoli,
non moltiplicando scartabelli, ch’alla mondana s’appoggiasse. E perché
dalle sue parole pregno o
primamente disposto venuto son a questo parto,
ragionevol cosa mi parve a Vostra Signoria illustrissima dedicarlo,
lasciando
da parte i suoi meriti e laudi, che sogliono i dedicatori de’ libri nel principio
raccontare: sì perché
ognun sa che non la pura fortuna, ma le sue virtù e pietà
hanno a principato apostolico Vostra Signoria illustrissima
inalzato, e la felice
memoria di suo zio Pio V, non mai bastantemente lodato, alla monarchia del
mondo, a cui ella
con la prudenza, benignità e amorevolezza giustamente si fa
scala sicurissima; sì ancora perché non le belle parole a’
suoi favori vuò mi
faccin raccommandato, ma l’animo mio, delle virtù e del vero amante, ch’in
qualche opera fia
espresso, dove non rettoricante desidero di mostrarmi e disputante,
ma testimoniante del Senno eterno e infinito, ch’il
tutto empie. Il
quale per minimi stormenti usa, qual son io, far sovente le cose più mirabili,
a fin che si conosca
che non da noi, ma da lui benigno ogni ben procede; molto
del quale fa che nostro si chiami, mentre con la nostra libertà,
gran dono di
lui, l’accettiamo e ben usiamo. Però, se Vostra Signoria illustrissima a questo
bada, la mia gioventù e
bassezza non disprezzarà, tanto più che mi posso vantare
d’età de mille anni, avendone più che tanti di storia esperta,
maestra delle
cose del mondo e de’ progressi umani.
La supplico dunque che amorosamente il legga quando non avrà che fare,
e non lo laudi né condanni fin che tutto l’avrà
letto; il che farà come giusto
giudice e padre, notando che questo trattato è popolaresco e politico, a’
governanti
del Cristianesmo qual Vostra Signoria illustrissima appartenente,
e molto atto a mostrar a’ prencipi quanto è pernicioso
allo Stato aver sudditi
di questa credenza eretica e a’ sudditi quanto è dannoso aver prencipi di tal
opinione,
perché quelli sempre saran sediziosi e questi tiranni per necessità
di tal fede; le quali querele dagli uni e dagli altri
sempre al mondo sono state
recate a rovina della civiltà. Però io, popolarmente e politicamente discorrendo,
sì
ch’ognun possa diventar mastro di tali controversie, non tocco
le sottili distinzioni della teologia scolastica e
l’infinite autorità a noi favorevoli,
come gli altri han fatto, per non allungar la lite, il che è specie di vittoria
a chi mantiene il torto. Li faccio umil riverenza.
Da Santa Sabina, a dì 20 di decembre 1595.
divotissimo servitore