Tommaso Campanella, Lettere, n. 163

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A MONSIGNOR FRANCESCO INGOLI IN ROMA

Parigi, 14 marzo 1638

Illustrissimo e reverendissimo signore e padrone osservandissimo,

io ringrazio Vostra Signoria illustrissima per il favor chi fa a me e a
quelli che per me ricorreno alla santa Chiesa. Ma nella grazia fatta al signor
Bellis, che torni alla Religion di san Dominico o a quale si voglia altra
che li piacerà, resto assai ammirato, e della provista; perch’il detto Pietro
è di cinquantacinque anni e più, canuto più di me che n’ho settanta.
Talché nissuna Religione prenderà questo peso, e la Dominicana in questi
paesi non lo vorà, dicendo che vada al suo convento in Napoli: il che è
impossibile e disconveniente, perché ivi sarebbe schivato come leproso e
persequitato sempre, massime da quelli chi fûro causa che lui fugisse; e
in ogni parte farebbe la sua vita amaramente. Di più, ha figli, che non li
può condurre né nutrire nelli conventi; ma, stando qua, vive onestamente,
insegnando le lingue e le scienze a molti personaggi francesi, inglesi, germani
ecc. Di più, io vi scrissi che per mezzo suo potemo tirar molta gente
alla fede, perché tutti eretici imparano da lui e l’hanno credito; e in Geneva
potemo far un gran colpo, e stamo in procinto di finirlo, com’il signor
Favilla sa in parte.

Dunque, ritirando il Bellis dentro i conventi, non solo è cosa disutile, ma
ancora disturbo grande a lui e al luoco dove starà; e impedimento alla conversione,
la quale per tanto aspettare questo breve è raffredata qua e [in]
Inghilterra, li cui ambasciatori sono suoi discepoli; e a me sarebbe un troncarme
la mano nel servizio di santa Chiesa. Lascio star che sarà universale
scandalo in queste parti una risposta tanto cruda e insolita alla Chiesa romana,
onde si vede che fu procurata da quelli chi persequitano me e lui. Sa
Vostra Signoria illustrissima che Pietro Blasco di Catanzaro si fece turco,
ebbe moglie e figli, e poi, venuto in Roma, li fu data licenza, a tempo di Clemente
VIII, di vivere da prete seculare; ed era Dominicano fugito in Turchia
per aver ucciso maestro Pietro Ponzio. E a tempo di Urbano VIII,
Vittorio Senese, monaco di san Benedetto, fatto eretico e compagno dell’arcivescovo
di Spalatro, fugito in Inghilterra, poi tornato in Roma, non fu
astretto d’intrar in monasterio, ma vevette da prete. E nell’istorie e canoni
sempre si legge quasi questa mutazione fatta per grazia di santa Chiesa condiscendente
a’ suoi fragili membri; e ora che mi persequita, farà dire: «Nunquid
resina non est in Galaad?» ecc. In sentire questo poverello grazia tale,
si spaventava, e lui e quelli chi aspettano per venir alla fede.

Mi rallegro de le opere buone che fa il Piromalli mio discepolo, e ringrazio
Vostra Signoria de li favori che li fa. Ma sappia Vostra Signoria
che in Roma ci son persone poste in dignità, di tal invidia e rancore, che
più presto desiderarebbeno ch’il Piromalli si facesse turco e io con gli altri
miei discepoli eretico, più presto che sentire il bene che noi facciamo alla
santa Chiesa; ma Domenedio ben presto giudicarà di loro, e noi restaremo
come oro purgato nel fuoco in grazia di Dio e di santa Chiesa. Vedete quanta
persecuzione moveno al mio Reminiscentur, chi tratta la salute del mondo,
approbato da tanti teologi e al Centone tomistico, unico rimedio per
confonder gli eretici, e alla Monarchia del Messia, suprema medicina contra
le scisme. Le quali soprastanno magiormente al nostro tempo, e non vônno
vederle per far torto a chi loro mostra la luce. Ma «et iam securis posita est
ad radicem». Dio ci proveda dal Cielo, poi che nella terra si sprovede; e già
mi diffido di poter far bene, sendo in tante maniere scornato da chi doveria
onorarmi. Le mie lettere non penetrano a Nostro Signore sapientissimo e
zelantissimo; però dispero di bona provista, e prego Domenedio che resplenda
con maggior luce sopra le cose mie agli occhi dei prelati di santa
Chiesa. Amen.

E a Vostra Signoria illustrissima bacio le mani.

Parigi, 14 di marzo 1638.

Di Vostra Signoria illustrissima e osservandissima
servitore divotissimo e umilissimo
F. T. Campanella
[A tergo:] All’illustrissimo e reverendissimo monsignor Ingoli, secretario
della Congregazione de propaganda fide, padrone osservandissimo. Roma.

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