Tommaso Campanella, Lettere, n. 72

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AL CARDINAL NIPOTE FRANCESCO BARBERINI IN ROMA

Roma, 21 febbraio 1627

Illustrissimo e reverendissimo monsignor padron colendissimo,

ricordevole de’ favori, che Vostra Signoria illustrissima e reverendissima,
spinta solo da innata gentilezza e d’amor verace verso le virtù, sempre m’ha
fatto da che era in minoribus, scrivo a lei questi avvisi utili nella causa di me
servo suo, più presto per gratitudine di tanta cortesia, da tutti filosofi celebranda,
acciò non sia per inganno macchiato lo splendor del suo governo,
che per amor di vita, che già mi si va finendo e infracidando in questa orrenda
calamità in man del Santo Padre di Cristiani, dopo 28 anni scampata da’
nemici: i quali, dalla mia lealtà e innocenza sforzati, quando cessaro tutti
l’aiuti umani, m’han dato libertà. E volendo essi di me servirsi, dopo che
8 anni pubblicamente lessi ogni scienza: teologia, cosmografia, politica,
astrologia e altre, a tanti signori spagnoli e italiani, e fatto tanti discepoli alla
Congregazione de propaganda fide, conoscendo essi a chi vaglio, mi legaro
con oblighi assai. E io, vago di servir a Vostra Signoria illustrissima, che com’Ercole
sostiene il ciel d’Atlante zio, le cui virtù assai pur m’animavano,
usai tutte le stratagemme e arti, che Sua Beatitudine e ’l Nunzio di Napoli
sa, per venir a servirla in cose non volgari, e in particolare con proposito di
stampar in Roma le scienze riformate secondo la scrittura e natura (necessarie
dopo l’invenzion di ciel novo e terra nova e d’innumerabili sette), ordinate
a’ libri del Reminiscentur, per la conversion generale imminente, mostrata
nel ciel della natura e della Scrittura, che quasi sforza il mondo a tornar al
suo principio; e fare una scola de propaganda fide, subserviente alla Congregazione
del medesimo, intitulata Scola Barberina, con una colonia d’api sparse
per impresa e col motto Vobis et nobis; e metter una conclusion generale
contra tutti settari del mondo d’ogni nazione, promettendo risponder a loro,
e ad ogni dubbitante in fide Romana,in publico e in secreto, mentre io vivo:
e lasciar successore anche dopo morte in questo essercizio. E son certo che
gli ultramontani e gran parte del mondo saria venuta in Roma a questo effetto,
secondo quello che scrivo a tutti di meraviglie celesti, occultate da fisici e
astronomi con fallacie, per oscurar le promesse di Cristo. Ma il diavolo trovò
rimedio in qualche Giuda di crucifigermi avanti gli occhi del più savio papa
del mondo, dovendosi godere, «quia filius perierat et inventus est», perché
si dica in gentibus: «Ubi est Deus eorum?», e tutte lingue e penne d’Europa
possino sparlare, che li nemici laici son più pii verso le virtù che i clerici e
padri, e che non si debba fidar in loro ecc., che taccio. E che tutti li pretesti
son falsi, e da tutto il mondo esclamante conosciuti per tali, mo si dirà.

Causa vana del mio male

Non è causa del presente male l’ombra del Re Catolico, perché la Maestà
Sua due volte ha scritto ch’io sia liberato, sendo chiarita della mia innocenza
e devozion verso di lei per li libri della Monarchia di Spagna, chi portò
Scioppio all’imperatore e furo stampati due volte in todesco e in latino,
e per li Discorsichi mandai a’ principi d’Italia per quella; e per la conversion
del conte Giovanni di Nassau per me fatta, e ch’oggi serve a Sua Maestà
Cattolica; e perché li processi fur tanto falsi, che li hanno brugiato in Napoli,
e l’Imperatore ha scritto per me, e ’l duca dell’Infantado, e ’l duca di Sessa,
e ’l Card. Trescio, chi tiene questi e altri scritti miei; e ’l duca d’Alcalà
m’aiutò assai. Anzi di Francia mi fu scritto ch’io ero soverchio spagnolo,
perché scrissi ch’il Re Cattolico congrega la monarchia del Messia. Però,
s’alcun per farsi benevolo al Re mi persequita, è finto macchiavellista, traditor
anche di Nostro Signore perché non mi parli, sapendo che, mentre li
Spagnoli mi tennero in secreto, ero tenuto per diavolo, e quando poi mi
pratticaro, per santo degno di libertà e di lor favori. Io son il can di Santa
Chiesa, e voglion che stia al buio, perché paia lupo.

Causa propria del presente male

La politica ecclesiastica ha per instrumenti principali le penne e la lingua
de’ buon’ingegni, e questi sempre han fatto e disfatto della religione. Or Satana,
che persuade sempre a’ laici la diminuzion della forza ecclesiastica, insinuando
falsamente a loro che non ponno comandar a suo modo, avendo
un maestro sopra, luocotenente di Dio, a cui è promessa la monarchia universale
in un gregge sotto un pastore super omnes reges terrae, com’io e san
Tomaso provamo, con ruina della città del diavolo; però si sforza dividere
dal papato i virtuosi con sospetti, gelosie, diffidenze, persecuzioni, e con interessi
e iuspatronati di prìncipi, onde nascan scisme, eresie e scritture contra
l’autorità papale, come se fosse d’un settario, e non di Dio vicario, in
favor della secolare, come controposta, non sottoposta al Signor universale.
Non metto essempi, ch’il mondo n’è pieno. Né meraviglia, poiché il diavolo
procura ch’il papa non tenga tesoro né armi, sapendo quanto val una lingua
verace con questi appendici.

Di più, ha levato fama ch’il governo di preti è crudele, e si dice per proverbio,
ad atterrir i popoli, che non bramin la signoria ecclesiastica, né appellin
causa a quella. Contra il qual proverbio io disputai: e tutti mi fur
contra, altri ch’il Duca de ..., e per prova i giudici laici nella causa mia di
ribellione han liberato tutti i rei laici senza pena, e fur più di 100. Ma gli
ecclesiastici licenziaro li rei clerici con pena d’esilio, benché men indiciati
ch’i laici. Facendo che sperimentiamo il proverbio: procurando che li stessi
ecclesiastici persequitino i virtuosi, affinché né li virtuosi fidin degli ecclesiastici,
né essi ecclesiastici osin servirsi de’ virtuosi eminenti, però posti dal
nemico in sospetto d’eresia o d’altro ecc.

E perché fra ogni dodici ci è un Giuda, si serven di quello in disfar li
strumenti del papato; così fanno al presente contra la vita mia, contra la gloria
di Nostro Signore e contra l’utile di Santa Chiesa con finti pretesti, dando
a creder ch’io sia eretico o macchiavellista, perché Nostro Signore non
osi parlarmi, né servirsi delli doni chi Dio li manda, o per innocente o
per fruttuoso penitente servo suo.

Primo pretesto falso del mio male

Il primo pretesto falso fondan nei tre libri, che mandai a tempo di Gregorio
XV a stamparsi per la conversion generale. Fur rivisti, e nel primo,
dove disputo contra tutte le sette d’eretici, maomettani, gentili e Giudei,
non mi censuraro un jota. Nel secondo, De monarchia Messiae, mi condannaro
perché ampliai l’autorità papale con san Tomaso e suoi sequaci, e non
la restrinsi con li teologi venduti a’ principi laici. Nel terzo, scritto contra
l’ateismo, alfa e omega di tutti errori, vangelo di politici, m’han censurato
in più cose. Io mandai da Napoli la risposta, mostrando ch’erravano in filosofia
e teologia con sfacciate calunnie. Vide queste risposte il cardinal Bevilacqua,
e Nostro Signore credo, perché allora era dell’Indice: e non si
parlò più. Adesso che Nostro Signore mostrava generosa misericordia verso
me, mi suscitaro quelle censure e occultaro maliziosamente le mie risposte,
perch’io non sia liberato. E però io dimando che compariscan le risposte, e
io sia esaminato in presenza di Nostro Signore, perché si veda se lo spirito
ereticale calunnioso sta nelle mie risposte, o nelle opposizioni di chi cerca la
grandezza sua nel sangue mio.

Secondo pretesto falso

E perché sapean quanto son corti in questo primo, trovaro il secondo
pretesto, fingendo che ne’ libri miei ci son gran machine: e persuasero a Nostro
Signore che mi faccia esibire tutti li scritti, chi son 9 tomi, né basta 20
anni solo a leggerli, affinché mai possa esser io spedito. Cosa contra la sacra
Scrittura e ’l Concilio Tridentino, che un homo i libri non corretti, avanti
che li presenta per la stampa, abbia a esibirli, e costituirsi per quelli al Santo
Officio: «Nos talem consuetudinem non habemus, sed nec Ecclesia Dei»:
cosa di far cader la penna di mano a tutti ingegni cristiani, e d’armar le lingue
d’eretici, e fugar le scienze da Italia, e inducer a disperazion ogni spirito
virtuoso. Ecchè serve lo scriver e sottopor i libri alla Santa Chiesa per correzzione,
se con tutto questo ci avemo per essi a costituire in Santo Officio
come eretici ostinati finché si leggan i nostri libri? E dato questo, pur tutto il
mondo sa che ne’ libri miei non ci è machina d’eresia, già che l’ho letti tutti
in otto anni in Castelnovo di Napoli publicamente, e gran parte ne sono
stampati. Molti ne mandai alla Congregazione dell’Indice. Altri mi sono
stati a forza tolti, e rivisti dalli signori spagnoli quando mi volean morto,
e da monsignor Gentile due volte, e in Bologna e in Roma ne fui esaminato,
e pria persequitato come potevo saper tanto. Di più, Paolo V e Gregorio
XV n’hanno avuto gran parte, e G. Scioppio, e don Virginio e altri signori,
e li copiatori e librari li vendeno a gran prezzo in Roma e a Napoli e Padova,
e nissun comparve a dir che ci erano eresie, e chi comparse restò scornato.
Anzi, io francamente mandai per il mondo i libri a cercarmi aiuto, e lo trovaro
per la verità cristiana che c’è in loro, e non per l’eresie che fingon d’imaginarsi
li persecutori. Alli quali, se tu doni in mano un san Crisostomo o
Agostino o altro dottor, senza titolo, subito diranno ch’è libro pien d’eresie,
perché non san teologizare. Or quanto più, se li metti il titolo di me sventurato?
Per questo io fo istanza d’esser esaminato almen de plano in presenza
di Vostra Signoria illustrissima, senza scriversi, perché è vergogna al Santo
Officio per argomentucci da neofito procedere iudicialiter, affin si veda
se lo spirito eretico e calunnioso è nelle risposte mie, o nell’opposizion loro.

Di più, mando a Vostra Signoria illustrissima un memoriale dove mostro
che nissun dottore santissimo ha potuto sossistere a questo scrutinio,
che vonno far di libri miei li persecutori, e come nissuna dottrina veracissima,
etiam il Vangelo, fu ricevuta mai nel presente secolo, ma nel sossequente,
e perché. Però taccio e a quel mi rimetto.

Terzo pretesto falso della mia persecuzione

Il terzo pretesto, quando non son sudisfatti ne’ primi, adducono, per allungarmi,
la causa di Napoli del 1599, quando fui carcerato per ribello e li
processati, per sfuggir la furia di processanti, finsero eresia per non morir
inconsulto summo Pontifice; per cui dicean li officiali scomunicati che voleamo
ribellare, e ci avean posto vescovi e cardinali e signori, e poi li testimoni
dell’eresia si ritrattaro in Napoli e li condannati, «quoniam excessit medicina
modum», fur aggraziati subito e io fui condennato «ad carceres perpetuos
Sancti Officii Romani» a tempo di Clemente VIII, e poi a tempo di
Paolo V fu fatto decreto che non si parli di mia libertà. Ergo ecc. Io rispondo
che questi due decreti de iure son nulli, e poi de facto fur annullati da
duoi sommi Pontifici. Ius divino è «priusquam interroges non iudices quemquam»,
ed essi mi condennaro non interrogato né esaminato, e la causa era
nulla per la retrattazione di testimoni, come appare nelli processi fatti da
monsignor Firenzola, e nelle difese di fra Dionisio Ponzio fatte in Napoli.

E se ben dicono ch’io mi finsi pazzo, e potean procedere senza esamine,
questo è contra il iuscanonico, che si possa procedere, dicendo in ciò non è
«addenda afflictio afflicto», e contra il civile: «sufficit ipsum proprio furore
Torqueri». Di più, io con una ora di corda e, dopo l’anno, con 40 ore di corda,
funicelli, vegghia e cavalletto insieme, dove non si può fingere, provai la
pazzia: quantunque neanche ero obligato a rispondere in man della parte
per il canone «Pastoralis», De sententia. et re iudicata, in Clementinis: anzi,
quelli atti mi valean per appellazione, o che mi fingessi pazzo, come David e
Solone, o che ci fossi, per il canone «Si metus», Extrav. De appellatione.
Di più, dopo 4 anni fatto savio nel 1605, mandai a Roma quasi ogni anno
appellazione di tutta la causa al Santo Officio con mille arti, e per Vincenzo
Pagani fiscal dell’arcivescovato, e per monsignor Gentile, e per il vescovo di
Nocera, e per Scioppio e altri, e scrissi mille lettere quasi alli sommi Pontifici
per tirar la causa in Santo Officio; e li signori sempre rispondean che
non ho che fare col Santo Officio. Di più, per questa connivenza moriro li
processanti, li giudici, li testimoni; e la causa è deserta, e nulla de iure; e li
decreti fur fatti per tirar la causa in Roma da’ reggii, ed essi, chi sapean la
nullità, perché il processo fu fatto sempre con loro intervento e fomento, al
Firenzola si lo disse in faccia: e perché li condennati subito fur aggraziati,
mai non condescesero ch’io venissi in Roma.

Poi fur annullati da Paolo V, quando donò licenza a Gaspare Scioppio e
a don Francesco Gonzaga, ambasciator di Cesare, a cui mandai la Monarchia
di Spagna, che trattassero la libertà mia, come lo dico nel prologo del
Reminiscentur. E venne Scioppio in Napoli con lettere del papa, ed ebbe
tutti li scritti miei, e si rallegrò Sua Beatitudine di quel che scrissi nel rumor
di Venezia, e del remedio che li donai, e così è riuscito. E per questo, e per
gli eretici ch’io convertii, sempre Paolo V m’aiutò, e scrisse al conte di Bonavente,
e di Lemos, e al duca d’Ossuna, alli nunzii Bastone e Filonardi, e
per suo ordine Scioppio trattò con l’Imperatore e col Re e Viceré per me.

Similmente Gregorio XV, per li libri chi li mandai de propaganda Fide e
per la relazione del cardinal Zollari di quanto potevo io far per la conversion
di Germania, trattò la libertà mia per monsignor Panfilio, nunzio di
Napoli, che mi venne a visitare e mostrar la carta di Sua Beatitudine e dimandarmi
il modo; e per monsignor Massimi in Ispagna, come san l’illustrissimi
Borghese e Ludovisio.

Anzi, Nostro Signore Urbano VIII rispose al Padre maestro Serafin di
Nocera, e a Gio. Carlo Coppula, mio discepolo, che mandai a Sua Santità,
che desiderava la libertà mia, e pensava il modo, e Vostra Signoria illustrissima
fe’ il medesmo. Dunque li decreti fur nulli e annullati.

E di più mo, quae de novo emergunt novis indigent auxiliis, per regulam
iuris. Sendo io liberato dalla ribellione, per la quale dicon che volea ereticare,
ergo nulla è l’eresia, nella quale più si fondavano li Spagnoli contra me.
Di più, ei non convenit lex, cui non convenit ratio legis. La ragion di quei
decreti fu la ribellione ed eresia, che si trovan false etiam per confession
di nemici, chi liberaro me, con più agevolezza che non fecero degli altri,
con pregeria in forma e da studianti poveretti esibita. Dunque, etc.

Quarto pretesto falso del mio male

Per quarto pretesto, quando si trovan convinti, allegan le cause antiche,
che fui più volte in Santo Officio. Rispondo: ma mai confesso né convinto
d’eresia. Né voglio allegar san Crisostomo e altri, condannati per originista
da tanti vescovi etiam santi, come fu Cirillo ed Epifanio, ma dico «saepe
expugnaverunt me a iuventute mea». Quando ero di 18 anni fui perseguitato
in Calabria per aver confuso un capitolo disputando; item di 20
anni in Napoli disputai 17 giorni all’improvviso in capitolo generale con
meraviglia, e mi carceraro sotto pretesto che non potevo saper tanto umanamente,
e mostrai che «Deus est qui docet hominem scientiam», e non
mi pottèro metter in Santo Officio. Poi in Padua, perché non denunciai un
iudaizante, e poi per un sonetto dell’Aretino, che disser esser mio, e mi
fecero abiurare, Dio sa, poi in Roma per questo e per libri e denari rubatimi
in Bologna, e per uno chi volea sfuggir la morte col Santo Officio, e
fui liberato; né andai in Genevra, «sed elegi abiectus esse in domo Dei
mei, magis quam habitare in tabernaculis peccatorum». E mi posi a scrivere
per la fede e per la monarchia di Spagna, e con tutto ciò di novo mi
carceraro, come ribello di Spagna e della fede. Perché «multi sunt male
nati secundum coelum», dice san Tomaso, per ordine della Sapienza a
cui si dedicano, dicendo l’Ecclesiastico: «in tentatione ambulat cum illis,
timorem et metum et probationem inducet super illum et cruciabit illum
in tribulatione doctrinae suae: donec tentet eum in cogitationibus suis, et
denudabit absconsa sua illi ecc., et thesaurizabit super illum ecc.» Tocca a
Vostra Signoria illustrissima vedere se questa tribulazione ha tesorizato in
me, e a Sua Beatitudine, che come vicario di Dio è sopra il Fato, dice san
Tommaso, «et erit solutum et in coelis», come ha vinto gli astrologhetti
chi sparlavano di Sua Beatitudine mirando alla parte, non al tutto. E di
questi guai, chi deveno esser materia di compassione, non farne prescrizzion
di crudeltà, e pensare che «nisi quia Dominus erat in nobis, forte vivos
deglutissent nos».

Ho fatto il mio debito dicendo le ragioni mie a’ superiori. Tocca a Vostra
Signoria illustrissima e reverendissima esaminarle. E di più, la prego e riprego
per amor di Dio e del padre san Domenico darmi audienza lei, se non
posso averla da Nostro Signore, perché in carta non posso dir tutto, né ella
conoscer lo spirito con chi parlo; e so che provederà a molti inconvenienti.
E la divina assistenza migliorarà il principio potestativo, e ’l conoscitivo, e ’l
volitivo delle sue azzioni a gloria sua, com’io la prego sempre. Amen.

Dal Santo Officio, a’ 21 di febbraio 1627.

Di Vostra Signoria illustrissima e reverendissima
servo umilissimo
e cane di Santa Chiesa, che al buio par lupo.
Emitte lucem tuam.
fra Tomaso Campanella
[a tergo:] All’illustrissimo e reverendissimo monsignor padron colendissimo
il cardinal Barberini, nepote di Nostro Signore, salute. In sua mano.

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