Tommaso Campanella, Lettere, n. 21

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A GASPARE SCIOPPIO IN ROMA

Napoli, 1° giugno 1607

A Gasparo Schioppio, filosofo e cavaliero dell’eterna sapienza, aurora de la
notte Germanica, liberator de la virtù, fra [Tommaso Campanella], spia dell’opre
divine, salute e vittoria.

Sequita, campion di Christo, allegramente le tue magnanime imprese,
che teco è l’omnipotente. Non ponno capire i pensier tuoi si non in spirito
divinissimo. Tutto ti fai a tutti per guadagnar tutti, come l’Architetto della
cristiana sapienza professava; o come il tuo stoico Catone: «Non sibi, sed
toti natum se credere Mundo». La Ragion di stato di questo secolo anticristiano
consiste in stimar più la parte che il tutto, più se stesso che la specie
umana, e più che il mondo, e più che Dio. Questi pensier vilissimi sono figli
de l’amor proprio, che dal diavolo cominciò, per diabolici figli camina, e
nell’inferno ha da finire. Combatti dunque fortemente, che questa rocca
hai d’espugnare, la quale ha rinchiuso gl’huomini come vermi intra il formaggio,
che non pensano, che ci è fuor di questo formaggio uomini, animali,
cieli, e Dio. E tanto ha avvilito il genere umano, che pare stolto chi non
è vilissimo con loro. Ma che maraviglia? La serpe al serpe pare bella, all’asino
l’asina, perché con occhio serpentino e asinino mirano. Non così l’uomo,
che tiene occhio divino, il volto volto al cielo. Ma oscurato è il secolo,
non sa dove è il cielo; le stelle si son coperte di nebbie, le lucerne estinte, il
sole in tenebra, la luna in sangue. «O curvae in terris animae et coelestium
inanes!».

Veramente tu sei beato, Schioppio mio, che porti il petto, la lingua e le
mani piene di luminosa sapienza e di zelo ardentissimo per spanderlo sopra
i ciechi figli de la cara tua Germania: vedi dentro le tenebre, camini tanto
sicuro che le ricchezze, le dignità, la requie, le delizie conosci esser viltà, e
solo stimi ornarti di trofei d’anime guadagnate al Re del cielo, cosa di te degna.
Stimi più il tutto che la parte, e fra tanta caligine hai scorto me meschino
afflitto a morte, e venisti a darmi soccorso. Io non t’invidio questa gloria,
ma assai più mi stimola che null’altra gran cosa. Ti mostrasti amante di una
mia estrinseca bellezza, e poi mi mostrasti le bellissime virtù tue con fatti
tali, che di amator diventasti amatissimo. Usasti meco la magia di Socrate.
M’hai anticipato tutta la gloria. Ciò che io facesse per te è atto servile, perché
faccio il debbito; inutile servo io sono per gloria tua. Perché quando io
potrò dissobligarmi, e poi cominciar ad obligarte? mai, che ti devo me tutto,
e sempre.

Or perché conosca il mondo, che non sdegno tal servitù, non potendoti
venir appresso, ti mando inanti questa facella: la quale legherai alle code de
le volpi tu Sansone, e brugerai le biade di Filistei. Si chiama questo libro del
tuo nome, perché sì come tu, stando dentro le tenebre di Germania con mille
veli a gl’occhi, giocondi per amor della padria e giovevoli per la paterna
protezione, tanto belli, delicati, e trasparenti, che pareano gioie; e non di
meno con sagacissimo intelletto da te medesimo ti sei levato alla luce de
la verità (senza dubbio prevenuto da la gratia divina da te non impedita,
e dono di discrezione tale, che me ancora di tanto lontano discernesti sotterrato
con occhio di linceo); e gittati e squarciati i veli indegni caminasti ad
occhi aperti al sole della verità, alla scola di Cristo, alla santa Chiesa romana,
e subito movesti guerra alli ingannatori figli de la tenebra, e ne riportasti
onorati trionfi: così questo libro mostra il senno umano nelle tenebre di
questo secolo potersi levare alla luce divina.

Vedi già, prudentissimo Schioppio, che il cristianesmo, che occupava e
abbelliva il mondo, si è ridotto a dui angoli di Italia e di Spagna. L’oriente
sta in man di Macometto favoloso, empio, ignorante, crudo, con grande
scorno e danno di tutto il genere umano, e così gran parte de l’Africa; e
poi tutto il settentrione in man di Lutero e di Calvino, c’han fatto un
Dio traditoresco che ci proibisce li peccati, e poi ci sforza a farli per pigliarsi
gusto di metterci all’inferno con voglia non di padre, ma di crudel tiranno.
Vedi a quanta ignominiosa impietà consente il mondo per la caligine che
manda inanti l’Anticristo, che esce da l’abisso. Poi la povera Italia e Spagna
ha dentro un diabolico Macchiavello, che infetta le più nobili parti de la republica
e dona a credere che la Religione sia astutia di preti e di frati per
dominar il popolo a consenso di prencipi, che l’hanno per ruffiana di lor
fraudi. Oh Dio buono, e come hai permesso tanta mostruosità? O colpe nostre
nefande, che ci han tolto il senso e l’intelletto, e ci fanno credere che
siamo sapientissimi. Su su, Schioppio mio, prendi questa facella, e serrala
nelli petti degl’uomini, forsi di sterpi diventeranno animali, e di bestie uomini.
A te si deve questo uffizio, che sei l’aurora di questo secolo. Io sto come
Prometeo nel Caucaso legato, perché facea questo uffizio: ma Dio mi
conobbe indegno, e mi lasciò patire questo travaglio. Ma con Dio così altri
come io: e meglio.

Senza dubbio Dio mantiene in terra, s’egli è provido padre, una scola di
verità certa: ma per le nostre peccata è indebolita, che appena si conosce
qual ella sia. Ogni setta si vanta aver miracoli, profezie, testimonianze, martirio
e argomenti per mostrar, che è da Dio auttorizata; e stiamo allo scuro, e
tutti paremo d’un colore, filosofi e sofisti, santi et ipocriti, principi e tiranni,
religione e superstizione. Onde è nata opinione, che non ci sia religione, né
principato, né sapienza: ma chi può più ingannare, vincere e regnare, comunque
il faccia, fa bene.

Io scrissi per questo tanti libri di filosofia e di politica, e finalmente la
Metafisica per scoprire le radici dell’inganni. Onde posi per principii Possanza,
Sapienza et Amore con loro influssi Necessità, Fato et Armonia, la
quale mi fu occupata per instigazion di Satana da un ingrato discepolo, e
ora la ricupero per grazia di Dio. E di quella ti ho cavato una scintilla
per lo bisogno di questo secolo, e si chiama Riconoscimento della vera Religione,
dove filosoficamente per tutte le scienze disputo di tutte le sette
del mondo, e mostro che la fede catolica universale divina sia la religion cristiana
romana, ma non di tutta, né di tutte, che qua solo pretendo mostrare,
che la religione sia natural virtù da Dio in noi seminata, e poi insegnata
quando la trascurammo, e che non sia furbaria. E per mostrar questo bisogna
far toccar con mani che Dio sia, che tien cura di ogni cosa, e più degli
uomini, e che l’uomo sia immortale, e altra vita si li deve.

Ti inganni, Schioppio mio, se pensi predicare alli Germani tuoi il credo
in sanctam Ecclesiam
: ma bisogna cominciar da credo in Deum per filosofia
naturale e non per auttorità, perché nullo quasi crede alla Biblia, né all’Alcorano,
né al Vangelo, né a Lutero, né a Calvino, né al Papa, se non in quanto
li torna commodo. Vero è che la plebe minuta crede a questi, ma li dotti e
li prencipi tutti sono quasi politici Macchiavellisti, che hanno la religione
per arte di stato, che se credessero in Dio non tratteriano per forza e per
sofismi regnare e dominare. E se credessero in Dio, crederiano subito che
Dio tiene una scola in terra, e per la successione e altre marche e riscontri
saperiano che quella è la chiesa romana. Ma vedeno che li preti son poco
più pii di loro, e li peripatetici dominano con l’anima mortale, con l’eternità
del mondo, con negar paradiso e inferno; e l’astronomi applaudeno con
oscurar li segni del cielo, che ponno mostrar la verità del vangelo, e la furberia
di Aristotele; e così questi sendo auttorizati levano l’auttorità al vangelo,
e quasi regna un tacito consenso di scambievole inganno, e questo è
la preparazione de la sedia dell’Anticristo. Eccoti il papato atterra oramai,
perché così vol l’Anticristo per trovar il mondo senza unità, e senza guida; e
li cristiani lo difendono come sedia di un settario, e non del luogotenente di
Dio, con diaboliche glose limitano l’ampia auttorità di Pietro: «Quodcumque
ligaveris» etc., «pasce» etc., «confirma» etc. I pastori taceno, perché
son mercenarii, gridano appena quando manca la vivanda, e veramente
non so di chi dolermi, perché tutti ci avemo colpa.

Il segno vero per lo quale prima si discernea il cristiano dal gentile, da
l’hebreo, e dal macomettano, e da lo heretico, era lo spirito santo, che venia
visibilmente, o facea subito interpretare, o profetare, o operar miracoli a
chi ricevea la fede viva: almeno si sentia la gente in sé gran mutanza interiore
e miglioramento, e conoscea lo spirito santo in se stesso in qualche modo,
come san Paolo dice: «Vosmetipsos tentate si estis in fide. An non cognoscitis
vosmetipsos quia Christus in vobis est? Nisi forte reprobi sitis»
etc., e alli Romani: «Qui spiritum Christi non habet, hic non est eius», e
questo spirito appella pigno dell’eredità, e dico che il cristiano non può
star confuso della sua speranza avendo in sé tal pegno; e altrove mostra dalli
frutti della carne e del spirito l’uno e l’altro: «Fructus spiritus gaudium, pax,
caritas, longanimitas etc.», e altrove: «Qui secundum carnem ambulant,
quae carnis sunt sapiunt (questa è la ragion di Stato); qui secundum spiritum,
quae spiritus sunt» etc.

Vero è che siamo incerti del fine, e della predestinazione, e della grazia gratisfaciente,
ma non del tutto. Dunque questi che dubitano oggi, o non hanno
lo spirito santo e li suoi doni; o l’hanno gelati, che non operano, perché essi
sprezzano il dono divino, e si attaccano all’umano, et san Paolo a Timoteo:
«Vide ut resuscites gratiam quae in te est, datam per impositionem manuum
mearum». Dunque ha bisogno la grazia di esser resuscitata quando more
nelli nostri cuori per nostra negligenza. Ma questa gente venduta con certa
teologia fredda dice, che la chiesa non ha più bisogno di miracoli, né di questo
spirito visibile, che già è confirmata, e però non l’hanno i prelati.
Questa risposta è vera tra uomini pii: ma dove si dice è inganno, che ingrossa
la conscienza, et oscura li doni di Cristo, e assicura li prelati a mentire
et errare: «Qui beatificant te, decipiunt te, Israël», e io dico che la
miscredenza nostra ha essiccato li doni dello Spirito santo in noi. Almeno in
Germania, dove son tanti eretici, che gittan li sacramenti per terra, e la
Chiesa è perduta, deverian li miracoli comparire, o in quelli cristiani che sono
in Turchia: e così la profezia. Ma tutto questo danno viene dalla incredulità,
se tu studi bene li santi dottori, e intendi la magia, e bisogna dir che
non avemo fede quanto un grano di senapa, secondo Cristo disse etc., e io
conosco questo, e sempre cerco di riducermi a fede viva e retta, che non
ponga fiducia in cosa terrena, né nella mia industria e di amici, ma solo
in Dio, e darmi a lui in tutto e per tutto; e non posso, perché la mala usanza
mi tira a basso, e quando veramente sto divoto, ogni cosa mi riesce, e il contrario
quando mi fido alla sapienza terrena; e continuamente cerco di vincermi.
Non per questo io vitupero li prelati, che so che vi ne son buoni,
ma scopro il vero. Ecco san Francesco di Paola in Calabria et in Roma
tra cristiani facea miracoli; e tanti predicanti domenicani e gesuini in Germania
tra eretici perché non ne fanno? Questo è flagello di Dio, perché
non siamo suoi di tutto core. Ci sono li doni nella chiesa, ma dormeno:
«Exurge, quare obdormis, Domine?». Questa è preparazion de l’Anticristo,
perché esso venerà con i miracoli suoi in questa siccità nostra, e ognuno
correrà alla sua acqua fetente. Beato chi starà saldo. Dunque non ci essendo
li segni tra noi, si non rari, e talmente che paion sogni e bugie, paremo simili
a turchi et ebrei. Onde scrissero li Germani De tribus impostoribus; e
tutto il mondo è pieno di politici, di Macchiavellisti et ateisti.

Volendo dunque uno riconoscer la religione, non può farlo per via divina,
che li peccati e mali essempii sono assai. Bisogna dunque che tutte le
scienze camini, e che in nulla setta si ostini, parlo per via naturale, che
per grazia divina ogni idiota può riconoscerla meglio che li filosofi sagacissimi.
Però io mi trasfigurai nella persona loro, e mi forzai per via naturale e
politica di conoscere il vero per accertar me stesso e la gente errante in questo
gran negozio, e a tutti do sicurtà non sciocca né finta di questa verità,
parte sperimentata, parte investigata sagacemente nelle sperienze altrui, parte
intesa con quella sagacità che trasumana l’uomo a quella altezza dove non
arriva il silogismo.

La legge di Cristo ha verissimi riscontri, ma non convincon per via naturale
si non chi va filosofando per tutte le sette con tutte le scienze, mentre
oggi par simile all’altre, e in molte cose impossibile a chi guarda la scorza. Io
cerco di reaccender la morta fede, e di svegliar li doni sopiti: ma non però
mi dico che in me siano vivi, né profeta, né miracolario mi faccio. Ma forse
vedo qualche cosa, perché l’asina di Balam, mentre il profeta suo cadde e
non vidde l’Angelo per la ambiziosa e avara mente che tenea, essa vidde
pur l’angelo con la spada nuda, e n’accorse il patrone. Ma questi miei patroni
mi speronano, mi batteno, e mi affligeno, e non voglion che io veda, né
che oda quel che a tutto il mondo è manifesto. Dio l’accorgerà con rimedio
più efficace, e vedranno che l’asino loro non ha torto a mutare strada.

Vedi se io son l’asino, che in cinquanta prigionie fin mo mi trovai serrato
e afflitto: sette volte fui tormentato, e l’ultima fu 40 ore con funicelli fino
all’ossa intranti, appeso ad una fune a cavallo sopra un acuto legno, che
mi devorò un rotolo di carne, e usciro più di dui di sangue. Cinque volte
fui chiamato in giudizio. La prima «quomodo literas scis, cum non didiceris?»
et «demonium habes», e io mostrai, che ho consumato più oglio io,
che essi vino, e che mi dissero: «Accipe Spiritum sanctum», e di questo
son certi, che «docet omnia», e del demonio son incerti che io l’abbia. Altra
fiata è che avesse fatto cosa di notte, la quale mi era impossibile, perché non
vedo troppo; e per non avere io stanza propria e stare in compagnia. Interrogate
chi stette con me, che se io peccai contra il prelato, essi pur peccaro.
Ma l’iniquità non cercava il delitto, ma far che io sia delinquente. Poi mi
accusaro che io abbi fatto libro De tribus impostoribus, e quello fu stampato
trenta anni prima che io nascessi. Mi accusaro, che sento con Democrito, e
io avea scritto contro lui; e che non ben sento de la chiesa e dottrina sua, e
io scrissi la Monarchia del Cristianesmo, e mostrai che nullo filosofo arrivò
a fingere una ottima Repubblica, così come è in Roma dall’Apostoli instituita.
Che io son eretico, e io avea scritto il dialogo contro l’eretici del nostro
tempo e di ogni secolo per convincerli a prima disputa, qual desidero che
sia attaccato a questo libro appresso. Lascio quanto scrissi contra il peripateticismo,
che è la zizania del Vangelo. E ora mi han fatto ribello ed eretico,
perché predicai li segni «in sole, luna et stellis», contra Aristotele che eterna
il mondo, e contra Tolomeo, che lo pone di 36 mila anni, et Alfonso 49
mila, e Copernico 25816, et Albategnio 23910 in circa, e levai la violenza del
cielo, l’eccentrici ed epicicli, e mostrai li sintomi del mondo perituro per
fuoco; e questo fu interpretato che voglio ribellare: perché essi han l’animo
di Macchiavello, che ogni dottrina e profezia pensano sia fatta per acquistare
signoria, e sto come Amos afflitto: «Rebellat Amos, o rex Ieroboam», e
come Ieremia nel lago inferiore, senza luce, senz’aria, in puzza e acqua attorno,
sempre in notte e inverno continuo, con ferri a piedi, in paura e tribulazione.

E pure vedi che portai con scritti e parole e fatti li pastori miei sugl’omeri
come l’asino sempre bastonato, e mai non fuggii di stalla. E mo vedo
l’Angelo contra loro, e non lo credeno. Credessero a Brigida, a Caterina, a
Vincenzo, e tanti altri santi almeno, e dottori sapientissimi, e spirituali; e
benché conoscano alcuni, che dico il vero, diceno: Taci, ne loquaris in nomine
Domini
. Tu sei asino, non sai vivere. E io, Schioppio carissimo, non
posso farlo; che si mai non fossi cristiano, come filosofo naturale almeno
amo Dio, e la patria mia Italia, e lo splendor suo, che nell’apostolico principato
si serba; e per quello ho scritto, e fatto, e detto. Ma non mi credono
alli fatti e scritti miei, ma alle parole di gente venduta per pane d’iniquità e
mercede di mendacii, e dove è la logica di Cristo: «Ab operibus cognoscetis
eos»? Mi consolo, che simiglio al crucifisso, e non alli crucifissori e giudi:
«demonium habet», etc.; «Blasphemat», etc.; «Samaritanus est»; «Fugit
ad Chaldeos» (nunc ad Turcas); «se regem facit», etc.; «contradicit Caesari»,
etc., e tutti profeti e giusti passaro per questa via. Sempre trovi scritta
questa calunnia contra loro: «Benedixit Deo et Regi». Anzi Platone e Senofonte
il medesimo notaro in difesa di Socrate contra tutti sapienti del
Mondo. E veramente santa Brigida predisse che questo dovea venire nella
presente turbulenza del mondo: «Humiles ingemiscent, audaces praevalebunt,
sapientia infatuabitur, stellae confundentur, dimidiabitur sol», e altrove:
«Honor et virtus prosternetur, sapientes et senes non levabunt caput,
donec veniat qui placabit iram meam». E Salomone però sempre dice:
«Vidi iustos quibus mala proveniunt tanquam opera egerint impiorum»,
ma dell’empii: «Ita securi sunt ac si bene egissent», e David: «In labore
hominum non sunt, et cum hominibus non flagellabuntur».

Io non dico esser buono, che so di esser peccatore grande, ma so ancora
che essi non hanno tanto di me, che per giudicio retto possano punirmi; e se
io fosse diavolo, non devo inaudito morire contra tanti canoni, e promettendo
tanti benefizii alla chiesa di Dio e al Re deveria esser inteso. Che ne ha il
Re e la chiesa che io mora? Ma se dico il vero, assai n’averebbono. Ecco
dunque che non il benefizio del Re e della chiesa si cerca nel mio sangue,
ma la grandezza di satrapi, che rodeno le radici de lo scettro del Re, come
vermi domestici, e venden l’iniquità per azzione eroica.

E però ti prego, carissimo, che avendo visto l’asino di santa chiesa caduto
in questo fosso, secondo dice Mosè, non lasciare di sollevarlo, che forsi
sarà buono a portar Cristo in Ierusalem, e anche in Egitto, e nella Samaria.
Fa l’offizio del vero samaritano e redentore, che a questo sei nato. Li leviti e
sacerdoti mi passano senza benedizione: e tu hai fatto la misericordia con
me. Ricordati che io stavo aspettando, e chiamando la morte come Elia sotto
il ginebro, e tu come Angelo mi svegliasti a vita, ma non portasti il pan
succinerizio per farmi andar insino al monte Oreb:«Ministerium tuum
imple». Eccoti questo libretto, serviti de la virtù in benefizio della virtù.

So che tu stai nella sommità del monte stoico, e miri con scherno le
bassezze di questa vita; né perché io ti lodassi la padria nobilissima imperiale,
e l’ingegno arguto, e li pensieri eroici, e l’azzioni gloriose, ti moveria a
fare quel che per natura hai fatto, prevenendo me in tutte benedizzioni cristiane.
Fa dunque secondo il tuo genio, che mi soprabondarà l’aiuto dal
cielo e da la terra. Io qua tocco l’occulti umori peccanti del corpo infermo
della repubblica, e alli medici empirici parerò sciocco: ma gl’ammalati conosceranno
il benefizio. Né potrà dir il Macchiavellista di questo, e degl’altri
secoli passati e futuri, che ho dissimulato l’argomenti suoi sottili. Per
Macchiavellista intendo ognun che vive per astuzia fondata nell’amor proprio
e nella miscredenza della religione: della quale solo qui si vede il quia.
Che contra ogni setta altrove minutamente disputai, e li dogmi cristiani
con ogni minuta disputa trattare intendo in altro luoco. Siati questo un
mio ricordo, e voltalo in lingua germana, come pur lo Dialogo, e ti racomando
i miei libri tutti, come Dio me racomandò a te. Liberator ne tardaveris.

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