Tommaso Campanella, Lettere, n. 62

Precedente Successiva

AL CARDINAL NIPOTE FRANCESCO BARBERINI IN ROMA

Napoli, 13 agosto 1624

Illustrissimo e reverendissimo monsignor padrone colendissimo,

mi vien avvisato che, trattandosi della restituzion di me alla Religione,
Vostra Signoria illustrissima e reverendissima abbia detto ch’io sto meglio
dove sto per l’invidia e persecuzion che si può temere da’ frati miei stessi:
questo è pensiero in sé prudente assai e in me pietoso.

Del che assai la ringrazio, e rispondo ch’io meglio desidero morir in casa
di san Domenico, travagliatissimo, che dove sto, regolatissimo. E di più io
pretendo venir in Roma e parlar a’ superiori e a Sua Beatitudine; e son certo
che supererò tutta l’invidia con quelle grazie che Domenedio m’ha dato, rilucendo
la sua divina luce per me non poco agli occhi di santa Chiesa. Di
questo può assicurarla la lista dell’opere mie, e la divina Providenza ch’a
qualche fine m’ha conservato; al quale già ho perfezionato tutti i mezzi.

Mi dicono anche che Vostra Signoria illustrissima, avendo parlato al Padre
generale che scrivesse a Spagna de parte la Religione, lo trovò duro e altrimenti
informato di quel che dicono le lettere di Spagna a me venute: che però diffida
ecc. Questa risposta è principio di quel che Vostra Signoria illustrissima
prediceva, ma non deve trattenere Vostra Signoria illustrissima a non proseguire.
Perché di là ci son altri avvisi più freschi, e dalli consiglieri di Stato: e contra
me non han cosa rilevante dopo le diligenze di venticinque anni fatte da nemici
e io stando in man della parte contro il canone «Pastoralis», De sententia et re
iudicata, in Clementinis; e di più si è stampata due volte la Monarchia di Spagna
fatta da me e col mio titolo in Germania, e altre opere chi assai bene chiarîro
li Spagnoli ch’io son innocente e che merito premio, non pena da loro.

E il Nunzio passato, monsignor Massimi, dice che quelli di Spagna non
son troppo informati della causa, e che saria meglio trattar col Viceré di Napoli;
e io dico che mi basta ch’il Re comandi si faccia di me rigorosa giustizia,
perché altro non pônno fare che rimettermi a’ superiori: si perché non
han processo contra me, e li fiscali l’han perduto o brugiato, come sa il cardinal
Borgia, che non lo trovò quando mi volle liberare; sì anche perché
sono scomunicati, che mi tengono con un breve sorrettizio del santo papa
Clemente VIII, dove esposero ribellione. Del che in me s’è visto il contrario;
e tutti furon liberati, dopo che fu rimessa la causa ad ius et iustitiam; e
innanti nissun morio con pena di ribelle, ma quattro banditi per far apparenza
che li falsi e scomunicati eroi processanti avessero salvato il Regno. Di più,
il Padre generale deve far il suo debbito, e come buon pastore cercar la sua
pecorella e non diffidare, perché «cecidit ira Dei super filios diffidentiae», e:
«Nonne duodecim horae sunt diei?» «Agnosce vultum pecoris tu».

Scrivo a Sua Beatitudine, e raccomando a Vostra Signoria illustrissima la
ragion mia coram Deo, e li prego dal Signore ogni felicità.

Napoli, 13 d’agosto 1624.

Di Vostra Signoria illustrissima e reverendissima
servitore umilissimo
Fra Tomaso Campanella

Precedente Successiva

Scheda informativa

Schede storico-bibliografiche