Tommaso Campanella, Lettere, n. 31

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A GIOVANNI FABRI IN ROMA

Napoli, maggio 1608

Per obedire a Vostra Signoria rispondo alle quistioni e sentimento di
questa cartella, che Vostra Signoria mi lasciò; e però dico che lo autore
non ha filosofato niente sopra questa materia nella natura né negli autori
che del vacuo e del pieno ragionâro; perché bisognava bene investigar le
cause perché non si dona il vacuo, già [che] quelle d’Aristotele son vanissime
e da molte sperienze deluse. Né alcun Peripatetico ha saputo donde viene
la proibizion del vacuo, né mai seppero rispondere a questa ragione della
rarefazione tanto naturale per il caldo quanto violenta per l’estrazione, in
che modo si faccia senza intercipere vacuo; ma colla potenza e atto, credono
uccellar ogni argomento. Nella seconda parte della Metafisica mia io trovai
che il consenso e mutuo contatto degli enti, chi compongon l’animale mondiale,
proibisce la divisione di quello e per conseguenza il vacuo: e ciò per
natura, non per violenza, che manifestamente lo dà, come per violenza ogni
albero si sega. Dissi pur quivi e nel primo De sensu rerum, che lo spazio
universale, base dell’essere di tutti enti, ebbe potenza, senso e amore della
propria conservazione, e lui medesimo, abborrendo di star vacante, attrae:
il perché e ’l come in questi libri sta scritto, e provato che la violenza ammette
il vacuo. Secondo, scrissi quivi e nel primo della Filosofia che lo spazio
universale, in cui è fondato l’universo, è immobile, longo, largo e profondo,
a nullo ente contrario, atto a ricever tutti corpi lunghi, larghi e
profondi; e che da quelli è penetrato corporalmente e lui penetra quelli incorporalmente;
e che entra nella composizion delle cose, e più delle rare,
come base d’essere e non come parte immanente e mobile con l’altre sode.

Vedo che questo amico non ha letto l’opinion di Leucippo e di Democrito e
d’Epicuro appo Plutarco e Laerzio, e Galeno (De historia philosophica), e Aristotile
in molti luoghi, perch’averia inteso come Ierone, sequendo quelle opinioni,
interpose il vacuo ne’ corpi; e come questo vacuo non è mobile, ma lo
stesso spazio immobil e che non entra ed esce dal vaso, ma è intrinseco al vaso,
o stia o movasi: e dovunque è il vaso, viene dallo spazio penetrato incorporalmente.
E se quelli nol dicessero, come per Lucrezio si conosce in tutti suoi libri,
e più nel primo e secondo, la natura tutta lo mostra: però dico che senza
filosofi e senza filosofare dice che lo vacuo entra nel vaso, o entraria, secondo
Erone; ma peggio dice quando dice ch’è niente e che non si dà penitus. Ma non
sa rispondere perché, sendo succhiata l’aria, tira il vaso il labro a sé per empirsi:
e così nelli mantici elevati donde pria fu l’aria spremuta, e nelli schizzatoi, tirando
lo stecco dopo che sia otturato il pertugio, e nelle ventose che tirano la carne
per empirsi: certo, se non fossero vacue in parte, non tirariano.

Pertanto dico a questo amico che lasci tale impresa, perch’è falsissimo fondamento
che non si doni vacuo penitus; l’argomento suo nell’intromissione
vale, ma è contra lui nella espulsione, perché nullo aere può entrare dove s’ottura
la bocca e tutti li fori con pece, quando s’alza il mantice e si serra la ventosa
e si trae lo stecco e si gela il fumo nel vaso impegolato; né ci bisogna che
entri il vacuo, perch’è incorporeo e sempre interno, e in lui s’appoggia ogni
ente intrinsecamente. S’inganna similmente mentre pensa che il vacuo stia seminato
tra ’l raro secondo Ierone, perché non s’intende che sia come corpicelli
sparsi, ma che lo spazio è pieno d’atomi e non per tutto, e però par quasi
seminato di vacuitati molte; ma più tosto si deve dire seminato di atomi.

Finalmente vuole ch’io provi che lo stesso avviene all’aria dalla rarefazione
del caldo e densazion del freddo, che quel che gli avviene dall’attrazione
e impulsione. Io rispondo che non è lo stesso: perché il caldo penetra l’aria e
li dona il proprio senso e amore e potere, come dissi in Metafisica, e però,
rarefacendolo, resta rado e, se vacuo s’intercipe, hic labor est: ma la ragion è
che, lui sendo di natura mobile e le cose dense resistendo al moto, egli l’attenua
e rarefà per agevolarle a quello, e per contraria causa il freddo addensa.
Ma quando l’estrazione il rarefà, non li dona interna virtù a star raro, ma
lo sforza a concepere vacuo; e per questo egli torna subito a riunirsi per non
istar diviso: e l’impulsione non li dona la [causa] formale di star unito, ma lo
sforza, e lui poi torna al suo stato, come la verga piegata da sé si dispiega.
Né mi posso metter a provar bugie secondo il senso mio.

Signor mio, sono corto in questo che scrissi, perché non voglio scoprire
li secreti mirabili di questo gran problema che scrissi altrove, prima che si
stampino li libri miei; né l’Angelo vorria, come spesso mi ha proibito.
Ma ho sodisfatto a tutto quanto si desidera, se legge bene e più volte, e
aperto gli occhi a filosofar sopra tal negozio. Se Vostra Signoria mi comanda
altro, lo farò subito. Io sto piu stretto che prima quanto allo scrivere; e sto
aspettando questi signori, e non comparono; e le cose tardano per disgusti
d’Abacuc con il Tutore, il quale ha fatto più d’Ercole e ora più non può. Io
non voglio scrivere di questo all’Angelo, ma far le prove mie con questi
prìncipi e sperar che venga lettera da Ferdinando. Che vada dove egli è:
non ci è altro rimedio. Mi stupisco che non risponde il Persio a due
mie, inviata per Vostra Signoria l’una e l’altra portata.

Mi par mille anni vederci da vero. Dio il faccia. Scriva Vostra Signoria
all’Angelo che solleciti ecc.

A Giovanni Fabri, medico e simplicista dottissimo di Nostro Signore. Roma.
Subito.

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