Tommaso Campanella, Lettere, n. 105
AL CARDINAL NIPOTE FRANCESCO BARBERINI IN ROMA
Parigi, 4 dicembre 1634
Eminentissimo e reverendissimo signor padrone colendissimo:
«Non agnoscetur in bonis amicus, neque abscondetur in malis inimicus»,
dice Dio.
Oh, quanto ho benedetto la providenza e carità di Vostra Eminenza, la
qual mi guidò sicuro! E Dio mi fu
propizio, ch’in dieci giorni arrivai in
Francia e al primo di decembre in Parigi. Prego Vostra Eminenza mi perdoni,
se
alcuna volta venni in pensiero che Vostra Eminenza non amasse il
servo suo o non stimasse le cose più stimabili. Rimanderò
la carta quando
la vedrà il Re Cristianissimo, per testimonio che Vostra Eminenza non è
contrario a Sua Maestà, come
il volgo qualche volta dice; e perché vegga
che non fuggo la giustizia e la ragione, ma il torto manifesto.
Sa Vostra Eminenza che da principio, quando io pratticavo spesso con
Nostro Signore per gusto di virtù, che subito quelli
chi pretendeno a cardinalati
nella nostra Religione sparsero fama per sé e per altri, e a me lo diceano,
che si diceva
ch’io con Sua Beatitudine trattassi cose di Stato e astrologie.
E l’han detto fin a Bologna e in Francia, e mi posero in
sospetto con li
Spagnoli che machinassi contra loro. E io non pensavo tanto sottilmente che
Vostra Eminenza non mi
volea parlare, né approbava la mia prattica in palazzo,
per queste gelosie, che poi han partorito quel male che Vostra
Eminenza
antivedeva sagacemente. Sa ancora che li Spagnoli, stimando poi
ch’avessi io composto certo Dialogo per bene e avviso di Francia e quel distico
in risposta di un altro nefando fatto contra la Maestà
Cristianissima,
ordîro mille stratagemme per accusarmi di lesa maestà e farmi tornare in
Napoli, come sempre han
procurato dopo che in abito mentito fui trasportato
in Roma. E quanto in Napoli ha trafficato un fratel del mio
persecutore,
perch’io fossi nominato in cosa che non ci ho pensato mai. E prego
Dio che mai non mi perdoni di tal
colpa, s’io l’ho fatta o consultata o ne
fossi stato consapevole; e ch’il pentir non mi vaglia. E pur i miei son
tribulati
senza causa, solo perché si dicesse cosa contra me, onde Vostra Eminenza
fosse forzata a darmi in man loro;
ma Dio ha parlato nel cor di miei padroni,
e forse questa persecuzion è vaticinio.
E per quel che devo a Nostro Signore e a vostra Casa eccellentissima,
non lascierò d’avvertirla, non per vendetta mia, ma
perché conviene al principe
saper tutto. Sappia che per ordinario li tre grandi officiali della nostra
Religione
aspettan cardinalato in morte d’alcun di nostri cardinali e però,
quando veggono un ch’è fuor di questo predicamento esser
stimato dal
santo Pontefice e dai suoi, subito l’ordiscono la caduta, com’ha fatto il Padre
generale e ’l Padre Mostro
contra me, ma non l’Acquanegra, ch’era più
schietto: e però ne cacciâr fuori per sé e per altri quelle dicerie sopra
la
prattica mia in palazzo, e perché hanno una massima – mandatali dal mastro
loro, ch’è morto, e intercetta da Pietro
quondam cardinale Aldobrandino,
come mi mostrâro due Padri segnalati, un de’ quali è loro amico
e spagnolo,
l’altro fiorentino e novo vescovo – che dice: «contra chi può prevenirvi nelle
dignità e altro,
screditatelo, ingannate, tradite, date bone parole e mai non
rompete del tutto». Tutte queste cose fecero con me.
Dissero prima ch’io son contrario alle scienze comuni; e nondimeno provai
che non dico cosa che non sia di
Padri santi e di scolastici, come si vede
dalle Questioni. Poi dissero ch’io non san tomista; e io
provai ch’essi non
sanno san Tomaso o me, o né l’un né l’altro. E dimandai lezione per legger
san Tomaso ad litteram con tutti Padri e Concili, e per non intrar in obligo
di dir bene di me, il Padre
generale mai non volle farlo, com’è noto in convento
e nelle mie proteste, e lo sa il Padre Firenzola e ’l Padre Bartoli, e
presto
si vedrà in un libro fatto contra pseudothomistas. Poi dissero che non
son
aristotelico; e io provai con le nostre constituzioni e con san Tomaso e
con tutti Padri, particolarmente Agostino,
Giustino, Gregorio nisseno e
Clemente alessandrino, che sia errore ereticale intronizzar alcun filosofo nella
scola
cristiana; e che d’ognun si deve pigliar quel che dice di buono; e che
Aristotile, per testimonio di san Tomaso, di
sant’Agostino e di tutti Padri,
non è l’ottimo di filosofi; e che, se si dovesse autorizzar alcuno, quello sarebbe
Platone; e ch’il Concilio laterano e viennese e tanti sinodi parisiensi
condannano questi addetti ad Aristotile; e Melchior
Cano, gran tomista, irato
dice: «Habent Aristotelem pro Christo, Averroëm pro sancto Petro, Alexandrum
pro sancto
Paulo» ecc.; e quanti mali han partorito lo dimostrano
tutti Padri. E pur io non contradico ad Aristotele, se non doveè
contradetto dalla sacra Scrittura e da’ Padri.
Di più, per screditarmi in palazzo, fecero stampare la mia Astrologia, e
la presentâro a Nostro
Signore quel giorno che Sua Beatitudine mi volea
far consultor del Santo Offizio, e dissero che ci erano in quella eresie
e
superstizioni; e io dimandai giudici; e si decise che non ci era errore, come
sa Nostro Signore. Poi, facendosi il
giudizio e trovandosi che il Padre
Mostro lo donò l’original mio a stampatori, il Padre maestro Marini, giudice,
non
volle proseguire, perché mi disse allora che Vostra Eminenza
non volle, e io così ho riferito a Nostro Signore. Veda quanti
tradimenti!
E finalmente mi calunniâro alcune cose dell’Ateismo trionfato. Io non ho
consentito
alla censura, perch’è contro la bolla di Nostro Signore e in favor
di Manichei, come appar dalla Questione, ch’ho dato al signor cardinal
Orige, di questa materia, in favor della bolla contra
astrologos. S’è
stampato in Iesi la Monarchia del Messia, passata dal Santo Offizio e
dal Mostro, ottima per concordar i prìncipi con santa Chiesa; e ’1 padre
Mostro impedisce il publicetur, fingendo che dispiaceria a’ prìncipi. Il
che non solo è falso, come dice la stessa approbazione, ma
fa che li prìncipi
a poco a poco levino tutta l’autorità al papato, se non si provede com’io
feci. Però dimando mi si
dia giudice il cardinale di Ricil[ieu] e la
Sorbona, quantunque contraria ecc.; e ch’il Mostro e ’l Padre generale
non
entrino nelle mie cause.
Si disse che donai proposizioni false contra il libro del Mostro. Presto si
vedrà ch’è libro pieno di zannate, gentilismi,
giudaismi, maomettismi e irrisioni
de’ santi e della santa Scrittura; e Sua Beatitudine fu gabbata dalli qualificatori,
perché non l’hanno
visto. E questo trattò l’Acquanegra per onor
della Religione; e io mai non ho voluto farli contra, perché m’aveva
fatto
bene, quando il Mostro mi fe’ le censure false in Santo Offizio e poi mi
fe’ pregar dal cardinale Scaglia che
non voglia vederle.
Quel ch’han machinato con gli astrologi contra la vita di Nostro Signore,
e come disse che, morto Nostro Signore, si
proibiranno i suoi versi,
perché ha posto la sacra Scrittura in versi, me l’ha detto il Padre Lupi e
’l Padre
Acquaviva; e stimulâro ch’io lo dicessi con altre cose ch’ho taciuto,
perché questa sola apparteneva a me, ch’ero il
commentatore ecc. Se
si muta fortuna, vederà Vostra Eminenza s’io o loro son li fedeli a Casa
Barberina.
Io desidero da Vostra Eminenza, e la prego umilmente, che mi continui
la lemosina di quindici scudi d’oro al mese qui in
Francia come l’avevo in
Roma, – il che Vostra Eminenza l’ha concesso anche a Gaspare Scioppio –;
e con questa autorità
e credito potrò servirla, e vedrà che li servo, etiam
senza questo, per molti ambasciatori. Secondo, li dimando che mi raccomandi
a questi padroni, e faccia determinare il
cardinale Antonio mi mandi
patenti di potere stare in ogni convento, che mi sarà utile ecc. Terzo, che
non pensi che
sciocchezza mia mi fe’ tanto odioso a Spagnoli, perché ho
scritto per loro la Monarchia di Spagna,
il Panegirico a’ prìncipi d’Italia
per quella, gli Articoli profetali: e l’hanno e si serveno di questi in Ispagna.
E trattai col
conte Monterey, col Castel Rodriguez, con Savedra, con Federigo
Moles, col cardinal Spinola – del cui padre io fui mastro
–, con monsignor
Massimi e con altri, che mi dessero qualche poco piazza per assicurarsi
che nullo dimandaria da me
cosa contra loro, e sempre mi guardai
ecc. Ma il male è venuto donde io sopra scrissi. Il resto scrissi a Nostro
Signore
e al signor Contestabile.
Stia sicura che sempre sarò suo servo fedele. In questa simana parlerò al
Re Cristianissimo e al Cardinal Duca. Non l’avviso
le cose, perch’ha i Nunci;
ma, quando occorrerà, sarò pronto. A cose di Stato non m’intricarò: leggerò
contra eretici,
se comandano, e cercarò di finir in pace tanti guai. E
sempre pregarò Dio per la salute di Nostro Signore e di tutta sua
Casa, e
di Vostra Eminenza in particolare, che mi fe’ venire qua senza turbamento
di core. Le fo umilissima
riverenza.
Parigi, 4 di decembro 1634.
Mi scordai d’avvisar a Vostra Eminenza che la ruina del presente secolo
e la disobedienza verso santa Chiesa nasce da
questo argomento commune:
o Dio è, o non ci è. Se non ci è, facciamo a nostro modo, regniamo per forza,
per sofismi e per ippocrisia; se ci è, o ci ha predestinato o reprobato.
Dunque non ci può più salvare,
né dannare, né dar più o minor grado di
premio o di pena. Dunque pur facciamo a nostro modo ut
supra: e però
li teologi sono sconscenziatissimi e contra questo argumento io combatto.
Si non era io,
averiano condennato il Vecchetti al fuoco diciotto teologi
d’accordio che fosse eresia il negar che Cristo mangiò
l’agnello; e io animai
l’Acquanegra a difesa, ch’era solo temerità; e molte proposizioni dannano
per consenso e
condicto, seu conspirazione.
Vostra Eminenza stia in cervello, che tutte le nazioni murmurano delli
censori senza difesa conveniente ecc., e li libri
nefandi stanno in piedi. Legga
le Litanie del Padre Mostro. Facciasi dar le Censure dall’abbate Barlamont.
Si studia poco, si parla senza scienza.
umilissimo, fidelissimo e obligatissimo servo
Fra Tomaso Campanella