Tommaso Campanella, Lettere, n. 172

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AL CARDINAL NIPOTE FRANCESCO BARBERINI IN ROMA

Parigi, 4 marzo 1639

Eminentissimo e reverendissimo signore padrone colendissimo,

li requisiti che richiedeva la santa Congregazione dal Padre fra Giacinto
Bellis, convertito alla Chiesa romana, perché potesse stare in abito di prete
secolare e celebrare messa, mando a Vostra Eminenza, perché monsignor
Nunzio, che sa parte delle fatiche che io piglio per la conversione, volendo
satisfare ai miei lamenti, che queste longarie impediscano il ben fare, li ha
mandato a me. E se non fosse la poca corrispondenza e poco credito che
Vostra Eminenza mostrò avermi da che io gli mandai l’abiura del marchese
Asserach e d’altri Franzesi e Inglesi e Alemani, dei quali alcuni inviai con
mie lettere a Vostra Eminenza, forse averei fatto più gran cose e inviato a
lei più di trenta altre persone, e ultimamente monsieur Lalu. Passato per
molte sètte, e poi stimandosi d’essere profeta e parlare con l’angeli, cercando
da me ch’io lo promulgassi per tale, fu per più di tre anni da me catechizzato;
e, convinto, ha renunziato tutta la robba sua, che era quasi ottocento
mila scudi, a’ suoi figli e si ritirò in convento de’ Recolletti in età
di sessantotto anni. Di qua a pochi giorni vi manderò un nobile inglese e
appresso un gran filosofo e gran politico, che quasi tira appresso una nazione.
E Vostra Eminenza so ch’averà grand’allegrezza.

Manderei anche la copia dell’epistola che mandai alla Regina d’Inghilterra,
piena di ragioni teologiche e politiche efficaci a persuadere al marito che
permettesse la religione libera, altrimenti non solo ci va la iattura dell’anima,
ma sta in gran pericolo di perdere lo Stato e la vita; ma non so se appresso
Vostra Eminenza «sum dignus amore vel odio», però fo quel che devo senza
avvisarlo. Sappia però che li signori ambasciatori d’Inghilterra mi sono venuti
a visitare e molti altri signori inglesi spesse fiate; e li trovo assai propensi alla
fede catolica, e per timore della confiscazione restarsi indietro. E fanno gran
conto di Vostra Eminenza, perché si mostra zelante della salute loro.
L’avviso ancora che tutto il Settentrione, caminando d’opinione in opinione,
è già stanco e non trova requie, e volontieri tornerebbe alla fede catolica
romana; e per questo li principali eretici, conoscendosi perditori nei
dogmi della fede, cercano vincere o patteggiare con la scissura e abbassamento
del papato. E però predicano e scriveno la concordia in questa maniera:
ch’essi piglino da noi i dogmi della fede, secondo i Domenicani e i
Padri dell’Oratorio la predicano, e noi catolici da loro la riforma del clero,
cioè che non abbia beni temporali, né potestà sopra prìncipi e vescovi, se
non d’insegnare e ministrare i sacramenti: talché ogni regno abbia uno come
papa, dependente dal principe. E vanno contaminando l’orecchie de’ prìncipi,
come fe’ Lutero al tempo di Carlo V, inescandoli con promessa di crescere
d’autorità e di ricchezze.

Due machine mosse Lutero contra la Chiesa. Una, che l’opere bone e
l’indulgenze erano pie fraudi ad arricchire i clerici, perché Dio ab aeterno,
ante praevisionem bonorum et malorum operum,
ha predestinato tutte le cose
come hanno a essere; e degl’uomini alcuni al Paradiso e il resto all’Inferno
con decreto non condizionato, se saremo boni o mali, ma assoluto, perché
così li piace: talché l’opere nostre e l’arbitrio nostro non sono liberi, ma
servi ed esecutori del destino. La seconda, ch’il papa e tutto il clero deveno
vivere in povertà, come l’apostoli, e dependere dal principe da cui hanno e
l’essenzioni e l’autorità. In questa seconda machina Lutero vinse e tirò a sé
tutti i prìncipi; ma non eseguîro l’usurpazione de’ beni ecclesiastici, se non i
protestanti e i re di Dania, Suecia e Anglia, i quali ricevettero il primo dogma
e persuadettero con parole e con esempi a Carlo V ad occupare Roma e
il patrimonio di san Pietro. Ma, non essendo persuasi Carlo V né gli altri
prìncipi del primo punto, perché contrario alla politica e fa i prìncipi tiranni
e i popoli sediziosi, etiam secondo Platone, Aristotele, Cicerone, Seneca e
tutti filosofi e Padri, perché ognuno farà a suo modo o bene o male, pensando
che le bone e male opere non pônno acquistare il paradiso né l’inferno,
ma ognuno andrà dove è destinato, faccia quello si vuole: pertanto restâro
sotto l’obedienza del papato, pensando ch’in quello si conserva la
purità della fede, che ne conduce a Dio.

Ma oggi, dopo che scrisse il Bannes, l’Alvarez e quello dell’Oratorio,
che Dio ogni cosa ha predeterminato con decreto assoluto, senza riguardo
se saremo boni o mali, proprio come vole Calvino e Lutero, benché affermino
l’arbitrio libero – il quale in vero non è libero, ma servo del decreto
non consecutore, ma esecutore del destinato –, tutti concludeno e insinuano
ai prìncipi che difendere il papato non è difendere la purità della fede, sendo
l’istessa quella di Calvino e del papa secondo i Domenicani, ma è difendere
la potestà usurpata dal papa sopra i vescovi e sopra i principi.

Per questo io composi il Centone tomistico, mostrando ch’i Domenicani
veri tomisti non ammetteno quel decreto antecedente alla previsione dell’opere
bone o male, ma nell’antecedente volontà come padre ch’ha fatto tutti
gli uomini alla sua imagine e boni tutti, l’ha amati e predestinati, e nullo reprobato
come prova l’Apostolo, «quia est Deus omnium et redemptor omnium»;
ma nella volontà conseguente alla previsione del peccato originale e
attuale e dell’opere bone e male, predestinò Cristo per redentore e l’aderenti
a lui, e reprobò solo i miscredenti come giudice, non come padre, e li ostinati
nel peccato volontariamente. Perché i fanciulli senza battesimo in re vel in
voto
non sono reprobati all’inferno, ma privati solo dei beni divini sopranaturali,
non dei naturali, come prova san Tomasso cento volte. Item, Crisostomo
e Damasceno dicono che la volontà antecedente è più vera e forte in intenzione
e la consequente in esecuzione, come il nocchiero antecedenter vuol
salvare le merci, dice san Tomasso, ma consequenter ad procellam, no. Onde
Augustino Deus condemnat invitus, quantunque san Tomasso e tutti i scolastici
dicono che Augustinus excessit in doctrina de reprobatione in odium Pelagianorum.

Io, con questa dottrina cavata da san Tomasso, il quale non reproba né
condanna consequenter, nisi ex praevisis, et antecedenter solum praedestinat,
e la previsione egli celebra ex coexistentia futurorum in aeternitate – difficile
pensiero, trovato dal Santo per schivar il decreto antecedente assoluto come
destruttivo della libertà e contingenza –, io consolai tutti questi paesi e tiravo
gran gente alla fede romana, mostrando che san Tomasso papista non
tiene la fede dei Calvinisti con l’Alvarez, e questa dottrina si può predicar
in «tectis et publice» come Cristo commanda, ma non la loro ecc. E pur il
Padre generale e il Padre Mostro e regenti spagnoli m’hanno suscitato guerra
in Roma contro conscienza; e generâro tepidezza nei convertendi, credenza
nei ministri e prìncipi che la fede papista calvinistica sia l’istessa. Ergo,
che l’autorità del papa sia quanta dice Lutero, e le ricchezze sue per
fraudem
usurpate: e che però proibisce che si predichi e disputi de praedestinatione,
per coprire ecc. E ogni giorno escono novi libri per fare scisme; e
io mandai a Vostra Eminenza i compendii della concordia perniciosa nei libri
de La Miltier; e per questo stampai un libretto De regno Dei.

Non si maravigli il Padre Mostro se qua si rivedeno le cose sue burlesche
in sacro. Il resto scrissi all’eminentissimo signor cardinale Antonio. Aspetto
il breve del Bellis, e i comandamenti di Vostra Eminenza, e le censure
fatte contra i libri miei; e s’io non risponderò con san Tomaso e Padri usque
ad satisfactionem animi
di tutte scole, condanno i miei libri al foco. Il Mostro
travaglia i librari e me com’eretico; e pur la Chiesa non ha maggior difensor
di me. E ’l Re mio e tutta Francia lo confessa; però presto manderò a
Vostra Eminenza l’esamina di lor opinione. Prego Dio per la vita di Nostro
Signore e di Vostra Eminenza.

Parigi, 4 marzo 1639.

Di Vostra Eminenza servo divotissimo
Fra Tomaso Campanella

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