Tommaso Campanella, Lettere, n. 57

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A VIRGINIO CESARINI IN ROMA

Napoli, 4 aprile 1624

De titulis.

All’illustrissimo don Virginio Cesarino.
Opuscolo di Fra Campanella.

Alla dimanda di Vostra Signoria illustrissima, si era bene mutar i tituli
de’ personaggi nella republica e in particolare de quel che disegna la Santità
di nostro signore Papa Urbano, recar il titolo de’ cardinali da «illustrissimo»
ad «eminentissimo», rispondo in fretta, cominciando alla stoica dal
vocabulo.

Ragion del nome. – Titolo si disse in latino la inscrizione dell’opera, massime
de’ libri, come Ovidio accenna nel primo libro De remedio amoris, così:

Legerat huius Amor titulum, nomenque libelli,

e fu detto a tuendo, come scrive Festo, perché tuetur, cioè difende il suo
componitore contra chi si volesse usurpar la sua gloria, come fe’ Batillo
di Virgilio, e Domiziano dell’opere brugiate, narra Svetonio; e però i soldati,
dice Festo, anticamente si chiamaron tituli e titi; onde Persio:

Ingentes trepidare titos,

perché difenden la republica; e san Tomaso sopra il psalmo XV dice che nei
sepolcri e nelle case e nei trionfi si metten i titoli, come a Cristo «I.N.R.I.»
su la croce.

Fu trasportato poi questo vocabulo alla dignità difesa, onde Ovidio (Fastorum
II):

At tua prosequimur studioso pectore, Caesar,
nomina, per titulos ingredimurque tuos.

Se ben è vero che titolo si dice ogni segno che manifesta la cosa e l’autore,
sia buon o malo, però tanto che da lui si cavi essempio. Onde a’ malfattori
appiccati si mette il titolo su la forca, perché nissun faccia il medesmo
delitto, affin non incorra la medesima pena; e a’ principali personaggi si
mette il titolo, perché ognun si sforzi imitarlo per arrivar con la virtù al
suo grado. E per antonomasia si dice titolo questo ultimo.

Ragion dell’essenza. – Titolo è un segno razionale testificativo delle qualità
de’ personaggi, imposto dal senno politico per beneficio della republica.

Dichiarazione del genere. – Quantunque il titolo sia vocabulo nel suo genere
prossimo e del vocabulo genere sia il segno, ho voluto metterci il genere
commune in questa diffinizione: imperoché i vocabuli ancora son titoli,
ampiamente considerati nella imposizion loro, perché tuentur, cioè difendeno
la cosa significata dalla confusione, distinguendola da tutte l’altre come
con un muro e termino seuconfine razionale. E per questo dissi nella Logica,
che il vocabolo si dice termino, e perché termina l’inquisizion dell’intelletto,
che, doppo aver considerata una cosa, li dona il nome seuvocabulo,
come si segna un polledro col merco del padrone, affinché ognun sappia
che è suo e a chi è suo; e termina e cinge la significazion di quella cosa nominata,
sì che include tutto il suo esser quasi intra a mura ed esclude l’altrui;
onde i vocabuli equivoci, che includen dell’altrui, son tenuti per vani e fallaci
nella filosofia, né d’essi si può far argomento né parlamento senza distinguerli
e terminarli di novo. Son dunque i vocabuli segni delle nozioni
del conoscitivo, come dicevamo, e non delle affezioni del volitivo, né delle
passioni del potestativo, come parlò Aristotile in primo Perihermenias senza
ciò considerare, perché invero né le affezioni né le passioni han termino seu
vocabulo, se non in quanto si rendon insieme nozioni.

Di più, molte volte il titolo non è vocabulo ma solo un segno ieroglifico,
come una civetta, un sole, un pudendo, un corno per segno dipinto appo
gli Egizi; e Omero scrive che Agamennone donò ad Aiace, nel dì che combatteo
con Ettore, le corna del bove mangiato la sera in festevole banchetto,
per segno e titolo della sua valentia; e David dice: «Exaltabitur sicut unicornis
cornu meum»; ma ogge questo simbolo saria di vergogna. Sta ben
dunque dire: il titolo è segno.

Dichiarazione della prima differenza. – Dissi «razionale» a differenza de’
segni reali, come son li nèi in faccia, le linee nelle mani e nella fronte, e la
formazion de’ membri nel sillogismo fisiognomico, che significano per natura,
e non per imposizion della nostra ragione, le qualità e affetti del corpo
e dello spirito suo abitatore: del che n’ha scritto Aristotele, Polemone, Adamanzio,
Alberto, il Porta, Nifo e molti altri. Ci son anche in cielo i segni di
venti e piogge e delle qualità corporali dell’omo nascente, come prova san
Tomaso nel terzo Contra gentes e Tolomeo nel terzo Quatripartiti e altri;
e tutti questi son segni naturali, ma non razionali, idest non son inventati
dalla ragione umana, come è la grammatica e suoi segni, ma dalla ragion divina
inserta nella natura, sua arte, come dice san Tomaso (II Physicorum,
lectio 14): «Natura est ars rationis divinae indita rebus ad suos fines illas
perducens», approbata da noi nelle Questioni fisiche per assai migliore
di quella d’Aristotele.

Dichiarazione della seconda differenza. – Dissi «testificativo delle qualità
delli personaggi», perché ci sono altri segni trovati dall’umana ragione che
non dicon qualità di personaggi, come l’orologio significa lo spazio del moto
solare, la campana i sacrifici, il tamburo e la trombetta la guerra, la pittura
l’individui, e li vocabuli significano l’essenza, o la quantità, o la qualità, o la
relazione, o l’atto, o la virtù, o l’azione, o la passione, o la sembianza, o la
dissimiglianza, o l’esistenza con l’accidenti delle cose. E tutti son segni razionali,
secondo provai in Logica, e che non significano solo la sustanza
e qualità, come dice Donato e suoi seguaci.

Testificare è atto della virtù detta testificazione, non conosciuta dagli antichi
filosofi, come noi provamo nella nuovaEtica: che sono tre virtù che
indrizzan l’uomo verso il prossimo, oltre quelle della republica, cioè benevolenza
beneloquenza e beneficenza. Parti della beneloquenza son l’eloquenza,
l’affabilità, la benedicenza, la rogazione, la testificazione. La testificazione
ha tre atti, cioè laudazione delle cose naturalmente bone e
vituperazione delle male, onorificenza delle virtù intellettuali e morali, glorificazion
dell’eminenti ed egreggi fatti e mirificazion de’ supranaturali,
qual è il culto di dulia nei santi (Ps 3: «Scitote quoniam Dominus mirificavit
sanctum suum» ecc.).

Si lauda il cibo, la gagliardia, la bellezza, l’agilità, la casa, la vigna, il cavallo,
ma non s’onorano se non rispetto alla virtù umana, né si glorificano se
non rispetto a gran gesti, come Alessandro onorò e glorificò il caval Bucefalo,
perché fu suo instrumento della fortezza e delle grandi imprese sue,
quando lo sepelìo ed edificò una città Bucefalea dal suo nome; ma fece
ciò impropriamente.

Si onorano i virtuosi co’ titoli della virtù propria, onde altri si chiaman
filosofi, altri teologi, altri poeti, altri pittori, altri medici, segnalando le qualità
della profession loro, e a questi onori si aggiunge laude dicendo «gran
filosofo», «eccellente pittore», quando avanza l’ordinario; e ogni artefice è
lodato dal suo mestiero, anche il bon coco, il bon acquarolo, il veloce corriero.

La glorificazione si dà quando le virtù escono all’atto di grandi imprese,
e a questi si fanno statue, libri, archi trionfali, si dà la laurea o altra corona e
s’amplifica la gloria con la laude.

La mirificazione si dà a quelli solo che soprumanamente han operato a
gloria di Dio e del prossimo, come agli eroi e santi, che fecero tanti miracoli,
sprezzâro la vita, migliorâro il genere umano: e questi referuntur ad divos; e
’l primo grado tengono gli apostoli, e li dottori santi il secondo, e poi gli altri
mirabili uomini; pur gli antichi canonizzavano per dèi i loro meravigliosi uomini,
come Cesare, Romulo, Augusto, Apolline ecc. Ma chi le loro vite e
gesti esamina, non meritano mirificazione, perché non fecero cose sopranaturali,
e ’l mondo s’ingannò in essi, onde Seneca dice che li dèi fecero consiglio
di non ricever Claudio imperatore in lor numero, canonizzato da’ Romani
gentili, perché svergognava la deità loro, e lo stesso provai io
nell’Antimacchiavellismo contra Macchiavello e Giuliano, che dissero che
la legge cristiana non fece eroi mirabili come Cesare e Alessandro e simili,
mostrando che fûr bestie a comparazione di Mosè, di Pietro e Paulo, adorati
da tutto il mondo, quando la memoria di quelli è gittata a terra e tenuti son
per servi di questi, che regnano nel loro imperio; e altre prove dissi de’ gesti
loro eminenti e soprumani, non di forza marziale commune a bestie e a banditi
e a gran ladroni. Ammazzar uomini è facil cosa, ma risuscitarne uno
non bastano tutti gli eroi del mondo e tutta la natura del cielo e della terra,
se non Dio, che mirificò questi nostri eroi con darli tal virtù sopra natura.

Dichiarazione della terza differenza. – Dissi «delle qualità de’ personaggi»,
perché non dicono i titoli l’essenza universale né personale, come questo nome
«uomo» e «Pietro», ma quelle qualità virtuose che si trovano nelle persone;
e però dissi «personaggi» a distinguer le qualità della natura significate da’
Romani con questi vocabuli: il «Nasone», l’«Agrippa», il «Tiberio», il «Pulcro»,
il «Sestio», «Ottavio», «Postumo», «Publio» ecc., chi nascon dal numero
de’ figli, o dall’evento, o dal segnalato naso o tibia o piede ecc.

E dissi «personaggi» e non «persone», perché si come questo vocabulo
«persona», secondo dichiara Boezio nel libro De trinitate e san Tomaso nel
Commento e nella prima parte della Somma, significa non solo l’individuo
e supposito e ipostasi d’ogni natura commune e dell’umanità, ma anche aggiunge
dignità, che solo conviene agli uomini; e si dice «persona», quia per
se aliquid sonat, seorsum ab aliis; e fu preso da’ personati nelle tragedie, che
rapresentavano Agamennone, Oreste, Tantalo, Alessandro sotto le vesti e
maschera di quelli; così questo vocabulo «personaggio», massime in ispagnolo,
significa più che persona, perché significa uomo degno d’onore come
«persona» in latino, non donde, ma a chi fu imposto. Già che in volgare era
questa voce «persona» avvilita, secondo dice il Poeta:

Quanto sono ingannate le persone,

si trovò quest’altra «personaggio», che è aggrandita.

Notando. – Però è da notarsi che questo onor titolare alle volte è della
professione del personaggio, come «il poeta», «il filosofo»; alle volte dell’ufficio
ch’ha nella republica, come «il sindico», «il console», «il vescovo», «il
cardinale», «il barone», «il prencipe», «il re», «l’imperatore», «il papa»; alle
volte è delli gesti onorati, come a Scipion si diede «l’Africano» per aver domato
Africa, ad altri «l’Asiatico», «il Gotico» a Giustiniano, «l’Egizio» ecc.
Ad alcuni, senza nominar impresa particolare, si dà più vocabulo glorioso,
come «il Magno» ad Alessandro, a Pompeio, a Carlo, a Basilio, a Gregorio,
ad Alberto; e «il Teumaturgo» dell’altro Gregorio avanza tutti questi. E qui
li titoli bassi per antonomasia si fanno altissimi. Esser magno conviene a tutte
cose grandi nel suo genere; etiampignato grande e cane grande si dice,
ma senza articolo; ma «il Grande», «il Filosofo», con l’articolo (usato da’
Greci e da’ volgari, ma non da’ Latini, come san Crisostomo avvertisce),
è assai più che «Massimo» di Valerio e di Quinto Fabio, e ha più forza
di sostantivo che d’adiectivo, e significa più per essenza che per participazione:
dico in politica, perché in natura solo a Dio conviene il vocabulo onorato
per antonomasia: il Signore, il Magno, l’Altissimo, la Verità ecc.

I titoli che non penden d’arte né da gesti, ma dall’ufficio, pur appartenenti
alla dulia, seuosservanza detta da san Tomaso in secunda secundae, tractatus
de iustitia, e vuol che sia atto di giustizia dar a tutti il titolo che si conviene:
a Dio di latria, agli uomini di dulia e osservanza, alla beata Vergine
d’iperdulia (sopraosservanza), al patre o patria di pietà, parte seconda di giustizia,
con li titoli proprii e onori convenienti. E san Paolo: «Si qui praesunt»,
dice agli Ebrei: «duplici honore digni sunt»; ed è d’avvertirsi che,
se bene un principe è indegno d’onori quando è ignorante e vizioso, nondimeno
per il grado in che sta si presuppone che ne sia degno, perché non arriva
a quel grado se non per virtù, secondo la regola della ragione. Se poi
semo ingannati sublimando una bestia per giudizio e ira di Dio, è necessario
onorarla, come dice san Pietro (I Pet., 2): «non solum bonos, sed etiam discolos»,
non per quel che è, ma per quel che rapresenta, come s’onora una
petruccia o fava per scudo d’oro, quando si gioca alle carte e si metten le fave
per conto di scudi; onde Salomone: «Sicut qui mittit lapidem in acervum
mercurii, sic et qui donat insipienti honorem». Onorasi dunque quel che
deve esser, non quel che è, e quel che rappresenta, non quel ch’è.

Dichiarazione della quarta differenza. – Dissi «imposto dal senno politico»,
perché il volgo senza giudizio sol dar i vocabuli alle cose malamente, non
convenienti a loro, come provai nel primo della Metafisica, e Platon nel Cratillo;
la mala imposizione senza giudizio è quando un vocabulo si dona a chi
non li conviene per natura, o per qualità, o per quantità, o per altro predicamento:
un si chiama nel mio paese Altobello, che è basso e brutto, e certa
femina Sapienza, che è ignorantissima; e quelli che portano i processi da’ canonisti
si dicono «apostoli», che è vocabulo degli eroi del Cristianesmo.

Secondo, quando si impresta a chi non lo sa portare, come il nome «ius»
è proprio della legge e li Romani lo diedero anche al brodo, e «populus» è la
moltitudine d’uomini ed essi lo donâro a l’albero pioppo ancora. E questo
non è antifrasi, come «lucus, quia nihil lucis habet», ma confusione. Similmente,
perché il nome di Rodomonte fu dato dal Boiardo a un terribile
guerriero, perché rodea i monti quasi, non è bene darlo mo a certe bestiole;
e ’l nome di Salvatore a persone perdute, non salvate nè salvanti, come
è di Cristo Dio nostro, di cui è antonomasticamente; e si chiama «signore»
così il vecchio, a cui fu dato quasi «seniore», come il giovane. Qui è da notarsi
che li nomi si considerano o donde sono imposti per etimologia, e però
questo nome «signore» e «presbyter» converria solo a’ vecchi, o veramente
a che fin fu imposto; e perché fu imposto per onore, conviene ad ogni persona
onoranda, ancorché giovane, onde i Romani chiamavan «patres» li senatori
vecchi e li giovani, e «patritii» li nobili.

Così anche dico delli vocabuli chi amplificano il proprio, il qual non sia
posto a caso e senza arte, qual è l’«illustrissimo», il «serenissimo», l’«invittissimo»,
che si dànno al re, al principe, al duca sopra il proprio, che è «re»,
«principe», «duca» ecc., del che Vostra Signoria mi domandò il parere.
Non approvo in questo negozio quel che dice Orazio nella Poëtica:

Multa renascentur, quae iam cecidere, cadentque
quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus,
quem penes arbitrium est, et vis, et norma loquendi,

perché l’uso, se non è ragionevole, nei titoli non si deve sequitare, benché
ne’ vocabuli si comporta quanto al ragionar familiare, ma non si deve comportar
in filosofia: perché io dirò virtuosus e non studiosus, come usò Cicerone
e gli altri, se voglio denominare sapientemente li addiectivi e li atti
della sostanza a cui s’appoggiano e della essenza onde derivano; così il saggio
politico non mirarà al volgo nel titolare, ma alla ragione dell’imposizione,
da che e a che.

Dichiarazione della quinta differenza. – Dissi «per benefizio della republica»,
perché questi titoli non serveno a caso né per gonfiar la superbia umana,
anzi in secreto non s’usano coi prìncipi da’ lor familiari, ma in publico
per tre utilità: una de parte del popolo, perché, vedendo tanto rispetto portato
agli ufficiali e sapienti, lor obbedisca con verità e amore; l’altra de parte
dell’onorato, perché virtus laudata crescit, e se lui non ha quelle qualità che
si testificano per il titolo, si forzerà averle o mostrarle con fatti virtuosi e non
parer indegno; l’altra è de parte degli onoranti, perché da quelli riceven il
benefizio o della professione o dell’arte o del reggimento con più coraggio
e alacrità, mentre gli onorano, e questo a noi serve co’ padroni e più con
Domenedio per impetrar le sue grazie e favori. Di più, tutti li cittadini, vedendo
onorarsi la virtù ne’ personaggi, si sforzano per la virtù dell’emolazione
farsi virtuosi e degni di pervenire a quel grado.

E questo in nissuna nazione vale quanto in Roma, dove non fa la carne e ’l
sangue i cardinali e vescovi e papi, né la successione, ma lo splendor delle virtù
che necessitano il papa ad esaltarle, non solo perché ci lo commanda Domenedio,
ma perché il papato è principato divino, che non si può mantener contra
eretici e scismatici e laici emoli, se non con le virtù vive e vere, provate in fatti e
non in sogno, com’è la nobiltà del sangue. Perché, se ben dice Orazio che:

nec aquilae genuere columbas ecc.,

tuttavia si prova che li figli di prìncipi hanno sovente animo servile e si fan
guidare da cortegiani adulatori, a’ quali serveno come l’idolo Baal a’ sacerdoti
furbi di Babilonia, invece di comandare, e li figli di filosofi per lo più
son bestiali per le cagioni da me in Fisicascritte. Onde Dante poeta:

Rade volte discende per li rami
l’umana probitate: e questo il vole
quel che la dà, acciò da sé si chiami.

Questa è ragion teologica, ma per la fisica è la debolezza naturale al valor
razionale per lo più accoppiata e poca attenzione del generante verso la generazione,
ma distratta altrove. Si vede ciò nei figli di Salomone, di Socrate,
di Cicerone, di Ciro e d’altri assai. Dunque li gradi e titoli virtuosi donandosi
alla provata virtù in Roma, secondo io dissi che l’arbori si conoscon da’
frutti, non dalle radici, qua è necessario darli col senno politico, e non a
caso, né per sangue, né per favori e dimande di prìncipi secolari, né secondo
il volgar costume.

Notando. – Non solo è utile alla republica dar i titoli d’ onore, come la
Chiesa dice apostoli, martiri, confessori, vescovi, cardinali, santi, illustri, magnifici
ecc., ma anche di vituperio, perché il titulato s’ammendi e li titulanti
si guardino d’incapparci; però chi l’altrui robba ingiustamente piglia si dice
ladro e raptore: chi la donna, adultero: chi uccide, micidiale; così l’ingrato, il
crudele, il ruffiano, il traditore, il diabolico, il tiranno, l’ippocrita, il sofista
ecc., con le proporzioni antidette.

Division de’ titoli. Primo membro inalterabile. – Altri titoli son dell’ufficio
in chi più vale e s’adopra ciascun membro della republica, come in Cielo
si dicon serafini, cherubini, troni, dominazioni, virtuti, potestati, principati,
arcangeli e angeli, distinti in tre ierarchie, ciascuna con tre cori, rapresentando
gli arcani del primo Ente trino e uno. E in terra tra’ laici vi son imperatore,
re, principe, duca, marchese, conte, visconte, barone, feudatario seu
util signore. E tutti titoli dell’inferiori convengono a’ superiori eminentemente,
come esser angelo agli arcangeli e principati ecc., e così di grado in
grado, chè tutti son in tutti, rapresentando l’essenza una: così feudatario,
almen di Dio, a cui dàn le decime «in signum universalis dominii» secondo
il canone, è ogni principe alto e basso, e i bassi de’ suprani, ed è ogni conte
barone, ma non ogni barone è conte, e così di grado in grado; e l’imperatore
è tutti questi eminentemente, e sottostà al papa solo come vicario di Dio.
Tra’ prìncipi ecclesiastici sono i gradi ordinati al governo del corpo mistico
similmente, cioè papa, cardinale, patriarca, arcivescovo, vescovo, paroco,
abbate, canonico, clerico. Nel papa, come in fonte stanno tutti questi gradi
e non e converso; esser clerico e di tutti gradi, com’esser angelo e di tutti cori
e non e converso, se non per partecipazione. Sotto nome di clerico si contiene
pur il frate, il monaco e l’eremita, e sotto nome di abbate, il priore,
il correttore, il prefetto, secondo in diverse famiglie di religiosi sogliono appellarsi
i governanti della communità.

Risposta al quesito nella prima distinzione. – Or dico che questi nomi e
titoli di gradi e funzioni non si ponno né si devono mutare. E se ben papa
Damaso tolse via i corepiscopi, lo fece perché non avevan fondamento in
sacra Scrittura e usurpavan quel ch’é del vescovo, come lui affirma. E così
dico che nel clericato, sendo nove altri ordini in rispetto al corpo vero di
Cristo, cioè vescovo, presbitero, diacono, subdiacono, acolito, lettore, esorcista,
ostiario e salmistato, seu prima tonsura, non si deveno mutare, perché
li tre primi son espressi negli Atti degli Apostoli ed Epistole di san Paolo, li
altri sottoposti al diacono sono nel Testamento Vecchio e ne’ sacri Concilii,
ed è consuetudine antica di Santa Chiesa e decreti papali, nè si deven toglier,
benché esclamino gli eretici in contrario e benché in san Geronimo e altri
Padri stian descritti altrimente.

Secondo membro di titoli inalterabili. – Altri son titoli della professione e
arte con chi vive ogni membro della republica e aiuta gli altri membri con
scambievole officio. E di questi, altri son mirifici, altri onesti, altri gloriosi.
Li mirifici son apostolo, evangelista, profeta, dottore, martire, confessore,
vergine, vidua e neutro; e questi titoli non si pôn rimovere, perché nascon
dalla distribuzione di doni ch’ha dato a ciascuno lo Spirito Santo, né può
uomo alterarli, ma solo dargli maggioranza congiunta di vocaboli ornativi,
come: «il forte ed eccellente martire o dottore» ecc. Li gloriosi si acquistano
con le azioni eroiche, e non si pônno togliere, come a san Gregorio e Basilio
si dà il «Magno», e così a Carlo, imperatore santo, e a Costantino; pur a
Gregorio il«Teumaturgo», chi vuol dire magnorum operum patrator, ad
Abramo l’«obediente», a Iob il «paziente», a Mosè il «legifero» ecc., e questi
non si pônno mutare, perché opera eorum sequuntur illos. Li onesti son
quei che convengono a ciascuno nell’operazione ed esercizio ordinario per il
ben commune, come teologo, fisiologo, matematico, medico, astronomo,
astrologo, poeta, oratore, gramatico, logico, musico, pittore, soldato, mercante,
marinaro, sartore, ferraro ecc., e tutti nomi dell’arti e delle scienze
specolative e prattiche, liberali e servili, appartenenti al potestativo, al conoscitivo
e all’appetitivo, son immutabili, perché portan immutabile professione,
come ne’ membri del corpo il vedente, l’audiente, l’odorante, il sostentante,
il colligante e altri, detti in Fisiologia, perché l’arti son corrispondenti
alle nature e tutte han particella d’onore.

Terzo membro di titoli, ch’è alterabile. – Altri titoli son laudativi, e però
adiettivi delli predetti appartenenti all’officio e professione: e questi si dicon
aggiunta di ornamento, come i passamani alle vesti, chi non servono se non
per farle riguardevoli; onde i Romani non ponevano altri titoli che quei della
professione o dell’azioni o dell’ufficio già detti: bastava dir «il consule», «il
pretore», «il proconsole», «l’Africano», «il Numantino» ecc.: così basteria
dir «il papa», «il cardinale», «il teologo», «il fisico» ecc.

Or questi titoli ornativi altri son onorevoli, presi dalle virtù morali e intellectuali,
come «il giustissimo» dalla giustizia, «l’invittissimo» dalla fortezza,
«il clementissimo» dalla clemenza, «il sapientissimo» dalla sapienza ecc.; altri
lodevoli, presi dalla similitudine di cose eminenti, come «l’illustrissimo» e
«clarissimo» dal sole, «serenissimo» dal ciel puro, «altissimo» dalla dimension
nobile; altri dal merito, come «reverendissimo», «osservandissimo»,
«venerabile», «onorando» ecc. Ma i moderni non si contentâro di questi;
ma prima metton i lodevoli, e poi i funzionali col nome, e poi i meritorii, dicendo
«all’illustrissimo e reverendissimo signor cardinale Barberino signor
colendissimo»; e benché «colendissimo» sia l’istesso quasi che «reverendissimo»,
i vocaboli vagliono quanto li fa valer l’uso, perché «illustrissimo» è più
che «serenissimo», e pur quello si dà a’ baroni e questo a’ regi.

Risposta nel terzo membro. – 1. Secondo la precedente dottrina io dico
che non solo non è male ch’il santo Papa distingua li personaggi ciascun col
proprio titolo, ma anche è necessario e utile, perché è atto di virtù subordinata
alla giustizia, come dice San Tomaso (secunda secundae, quaestio 80),
la quale rende a ciascun quel che è suo, e però la giustizia si divide in religione
verso Dio, pietà verso la patria e genitori, observanza verso i prìncipi e
onor verso i virtuosi; e san Paulo il comanda (Rom., 13): «Reddite omnibus
debita: cui tributum tributum, cui vectigal vectigal, cui timorem timorem,
cui honorem honorem», e nel 12: «Honore invicem praevenientes» ecc.;
lo stesso dice agli Ebrei e san Pietro (Epist., 1).

2. Non solo in questo di titoli, ma anche di vestimenti deve esser riforma:
perché è vergogna che li stessi abiti e colori che portan i clerici in Roma portino
anche i medici e legisti e studianti. Lungo saria a dire che le vesti son un
titulo muto, che parla più ch’il titulo loquace, e se li cardinali non fosser distinti
di vestimento da’ vescovi e dottori, sariano in minore stima, quantunque
avessero titoli d’«altissimo» e «santissimo», e però dice Livio e Plutarco:
li regi e senatori si distinsero d’abiti e colori dalli popolani per esser
venerabili, e li lor precetti meglio osservati; e san Bernardo loda la purpura
nel papato, benché sotto ci desideri il cilizio, scrivendo ad Eugenio papa.

3. Di più, sendo i cardinali colonne del mondo, delle quali predisse David
(Psal. 46): «Pro patribus tuis nati sunt tibi filii» (idest, pro apostolis
episcopi espone sant’Agostino) e segue «Constitues eos principes super
omnem terram»; e altrove (Ps 138): «Nimis honorati sunt amici tui, Deus,
nimis confortatus est principatus eorum» (questo nimisscandalizza l’ignorante
eretico, perché lo vede adempito, e s’abusa da qualche catolico, come
scrissi nella Monarchia). E Isaia disse (cap. 60): «Venient alieni et pascent
pecora vestra, et filii alienorum agricolae et vinitores vestri erunt; vos autem
sacerdotes Domini, ministri Dei, dicetur vobis,fortitudinem gentium comedetis
et in gloria eorum superbietis», e altrove: «Erunt reges nutricii tui et
reginae nutrices tuae, vultu ad terram demisso adorabunt te, pulverem pedum
tuorum lingent», il che si vede adimpito nel papa e cardinali. Però è
mala usanza mischiar li titoli di cardinali con quelli di prìncipi laici, che son
quasi«vinitores et agricolae» rispetto a loro, e però li canonisti dicono che
«cardinales aequiparantur regibus», e più potean dire, per la consecrazione.

4. Talché stimar si può ch’ogni cardinale devesse aver il titolo di «Maestà»
o almen d’«Altezza», e non di «Signoria», che è commune ad ogni cortigianello,
o di «serenissimo» o cosa tale. Ma perché questa alterazione darebbe
fastidio a’ prìncipi, si può mutar in consimili, e mi par bello pensiero
quel di nostro signore Urbano VIII, che si dicano«eminentissimi» in luoco
d’«illustrissimi» (vocabulo commune ad ogni barone de’ regi e alli camarieri
del papa, che in verità non denno aguagliarsi a’ cardinali), e parimente dir
«Vostra Eminenza» in luogo di «Vostra Signoria», la qual non è già possibile
più tôrla a’ gradi inferiori e darli la «Mercè», com’usan i Spagnoli. E
tanto più è da riceversi, che san Gregorio papa, in un’epistola al vescovo
Salonitano, li dà l’«Eminenza» in luoco di «Signoria» o d’altro.

5. Re Filippo II con una pragmatica di tituli aggiustò assai inconvenienze
e risse tra baroni e vassalli suoi, talché in Ispagna ci è «Maestà», «Altezza»,
«Eccellenza», «Signoria» e «Mercé», e in Roma solo «Santità» e «Signoria»,
tituli insufficienti; e ’l Papa dubita di fare quel che a lui più conviene che a
tutti principi del mondo, sendo maestro universale e vicario di Quel che disse:
«Per me reges regnant et legum conditores iusta decernunt».

6. Io, di più, vorrei che graduasse li tituli di tutti stati del clero e del
monacato, e li facesse incommunicabili a’ prìncipi laici, perché dicuntur
«laici», quasi «plebei», per esser governati: e li ecclesiastici «clerici», quasi
eletti ad gubernandum, come Isaia profetò, e san Giovanni (Apoc. 1) dice:
«Fecisti nos Deo nostro regnum et sacerdotes», e san Pietro: «Regale sacerdotium».

7. Di più, dico che quelle novità che guastano la religione o portano odio
appo i prìncipi son da schivare, ma quelle che fanno venerando il clero e
non toglien cosa da’ prìncipi si deveno esequire.

8. Mentre, di più, s’abbellisce la Chiesa, «circundata varietatibus» e «ut
castrorum acies ordinata», tutti col suo titolo, officio e grado, secondo lo
Spirito santo accenna; e li nove cori angelici della Chiesa trionfante, a cui
similitudine è ordinata la militante, han distinzione di ierachie e cori, e di
nomi e uffici e operazioni e funzioni.

9. Di più, dico che la mutazion de’ titoli porta consequenza di bene inavveduta.
Però li re, volendo cavar denari da’ sudditi, perché li dian volentieri,
mutano il nome odioso in amorevole e, per non dir «tributo», dicon «donativo»,
«sussidio» – anzi «lemosina» pur dicon i Spagnoli accorti – mostrando il
bisogno del re cercar questo. Se dunque il Papa ha pensieri nobili, come di lui
si stima e spera, assai bene può far alla promozion di santa Chiesa con questi
titoli, il che non posso scrivere, ma si cava dal capitolo 60 d’Isaia e dal 54; e alla
Chiesa fu detto: «Gens et regnum, quod non servierit tibi, peribit».

Consulta. – [1]. Circa il modo di mutar i titoli, io non son buono; Nostro
Signore è dottissimo in tutte professioni; aspettamo quel che Sua Beatitudine
farà. Ma se Vostra Signoria mi sforza a dir il mio parere, io rispondo o
che si deve graduare il mirifico vocabulo di «santissimo» con dire «santissimo»
e «beatissimo» al papa, «molto santo» a’ cardinali, «beato» agli arcivescovi
e patriarchi e «santo» a’ vescovi. Quantunque si legge in san Geronimo
che dona a sant’Agostino titolo di «beatissimo papae Augustino», e ne’
tempi passati appo san Bernardo il papa si dice «reverendissimo», e li cardinali
nelli antichi scrittori si dicorn «onorandi» o «venerabili» o «reverendissimi»;
ma l’«illustrissimo» è da cento anni in qua preso da secolari, e
sempre si andâro variando.

Ma il Papa, di cui fu detto: «Ambulabunt gentes in lumine tuo et reges in
splendore ortus tui», come vicario del Messia, può aggiustar a suo modo
con titoli inviolabili e incomunicabili a’ laici tutto il clero; e dicendo a’ cardinali
«eminentissimo», a’ vescovi «molto eminente», vorrei che si togliesse
via l’«illustrissimo» e tutto ciò in che da’ laici non distingue. Né fecero bene i
Veneziani lasciar il «clarissimo», lor proprio distintivo mirabilmente, per
l’«illustrissimo» confusivo communemente, che disgrada quella republica,
se ben miri. Il «reverendissimo» può star per commune a tutti, com’il «santo»
a’ martiri, apostoli, confessori ecc., e ’l «clerico» a tutti gradi ecclesiastici.
Mi dispiaceno quelle code di meritorii, che dopo aver detto l’«illustrissimo e
reverendissimo» si aggiunga «padron colendissimo»; ma dovendosi porre, il
che non si fa a’ papi, che non han bisogno, s’averia a dire «colendissimo» a’
cardinali solamente, «onorandissimo» a’ vescovi, «venerabilissimo» agli abbati
e generali di religiosi ecc., «venerando» a’ maestri e graduati nelle scienze.
Il «reverendissimo», «molto reverendo» e «reverendo» graduerà il generale,
il priore, il maestro e sacerdote. L’ornamento che si dà a’ scienziati di
«dottissimo», «eccellente pittore» o ecc. sta in arbitrio di chi li stima.

2. Si dà nome di «magistro» a tutti artisti, venuto da «magus», che vol
dir sapiente, come da«surdo» «surdaster», perché ognun participa della
sapienza con sua arte; ma si deveria distinguere il maestro teologo dal maestro
ferraro.

3. Vorrei che si distinguesser gli ordini di religiosi, perché li Giesuini co’
Paolini, Sommaschi, Regolari minori, Crucellarii e quei della Chiesa Nova
non solo sono confusi d’abiti, che non si pônno discernere, cosa assai sconvenevole
alla bella distinzion del caos che fece Dio nel crear il mondo e nel
formar la Chiesa, ma anche nei vocabuli della famiglia, sì che non si sa che
cosa è Teatino in Ispagna, perché così chiamano il Gesuino, e in Italia non
sai di chi ordine dire i chierici Bernabiti, i Minori e Maggiori regolari. Però
ognun si deve denominar dal suo capo, con dire non Gesuini, ma Ignaziani
da santo Ignazio, Paolini da Paolo IV, Camillini dal Padre Camillo, Emiliani
dal Padre Emiliano, Filippini da san Filippo Neri et sic de coeteris. E perché
son dui capi di religione Franceschi appellati si può ben distinguer con dire
Francescani Minori e Minimi, come essi si han distinto. Si vede ch’i frati e
monachi han più ordine che i clerici regolari in tutto.

Talché concludo, magnanimo signore, che il nostro signore Papa, avendo
da principio conceputo di aggiustar i titoli, doni segnale d’alti pensieri,
ch’è distinguer il caos e riducer ogni cosa allo stato che li si deve, tanto grande
quanto picciola, e non tenerle in quello ove si trova. E se mai toccasse a
me fortuna d’uscir da questo labirinto e venir a servir Vostra Signoria illustrissima
in quel grado, che deve sperar da Nostro Signore per le proprie
virtù e per la molta stima che fa di quelle un tanto Pontefice, mostrarei
con altre ragioni come s’adopran l’istrumenti della politica ecclesiastica, li
quali strumenti il Diavolo sempre cercò separarli da’ sommi pontefici con
sospetti, persecuzioni, gelosie, insidie e interessi e iuspatronati di prìncipi.
Ma Domenedio sa a che miglior fine questo permette.

Resto al suo comando.

Da Castelnuovo di Napoli, a’ 4 d’aprile 1624.

Di Vostra Signoria illustrissima
servitore affezionatissimo
Fra T. Campanella ecc.

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