Tommaso Campanella, Lettere, n. 9

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A PAPA PAOLO V IN ROMA

Napoli, 13 agosto 1606, con un poscritto dei primi di settembre

Beatissimo Padre,

è naturale anche ai bruti deboli servirsi dell’industria contra li possenti,
che però:

ingenium mites, vim meruere truces.

Ond’io tutte le stratagemme che in questa causa ho usato, ammaestrato
da esempi di savi e da san Geronimo (allegato [in] II IIae, quaest. 2), non
per fuggir la giustizia ma la violenza, risoluto al martirio, le finisco in questa
appellazione ch’ho fatta a Vostra Beatitudine, e per questa faccio: protestando
che col Santo Officio io non uso amfibologia, perché da quello non ho
provato mai giustizia finta, la quale è crudele, ex Gregorio, ma vera sempre,
la qual è compassionevole: essendo il contrario, m’offero alla pena.

Dunque le revelazioni ch’io proposi alli reverendissimi Nunzio e di Caserta,
e li miracoli per prova di quelle, son verissime, non finte per mio
scampo; e han di far tal fructo, ch’ognun sottoporrà volentieri alla fede
santa e a Vostra Beatitudine la testa, né il demonio può contrafarli come
quelli di Moisè, né son per prova dell’innocenza mia, che fui scelerato imprudente,
ma della verità evangelica e revelazion presente, a cui ho servito
nella colpa mia: e se io fossi Simon Mago, Vostra Beatitudine è Simon Pietro.
Né si può trattar questo gran negozio, se non in presenza di Vostra
Beatitudine. Perché io non posso esser più che Ieremia o gli apostoli o Nostro
Signore, chi, pur con tutta la santa vita e miracoli, mirati odiosamente
da emoli, fûr afflitti e morti, anche in presenza lor santificando e miracolizzando.

Però, sendo io odiatissimo in questo luogo, non posso in conscienza assentire
a giudizio alcuno né di ribellione né d’eresia, che contra me si pretende,
poiché il principe è tanto irato contra me che non mi vuol ascoltar
una parola sola, avendo sette anni ascoltato li possenti nemici: Carlo Spinelli,
il principe della Roccella suo nepote, il baron di Gagliato, il baron della
Bagnara, il consiglier Sciarava, fabro del processo, e li revelanti falsi, fatti
cavalieri, come gli altri soprascritti premiati, e gli aderenti loro, chi son quasi
tutto il Regno: né ci è uomo che possa parlar per me, ch’è subito tenuto per
sospetto. E questi si vendon per difensori della Maestà reggia e divina, da
me, secondo loro, offesa. Or chi può opponersi, benché non fosse com’io
sepolto, a tanta influenza, se non lo Spirito Santo, che sta in Vostra Beatitudine,
che est«heres universorum» ecc., «rex regum» ecc., «princeps regum
terrae», «iudex vivorum et mortuorum»? A cui fu detto: «Quis es
tu, ut timeas ab homine mortali?» in Isaia – quando però vuol caminar
con lo Spirito e non con la prudenza della carne, cui est annexus «spiritus
timoris» – e altrove: «Portae Inferi non praevalebunt» ecc.

Sola Vostra Beatitudine in questa causa straordinaria, nella quale sempre
quasi errâro li giudici inferiori e spesso li supremi, può fuor di timore e d’ira
e di voglia venduta esaminar questo argomento: come tutti profeti, apostoli
e Nostro Signore Cristo, anzi li filosofi buoni e savii di tutte nazioni – come
nota Platone, e io ne fei un trattato, – morîro nelli magni articoli del secolo
sotto questo titolo d’eretici e ribelli, per zelo di Stato di prìncipi e sacerdoti,
«qui terrena sapiunt: morte moriatur Ieremias, quare prophetavit contra domum
hanc» ecc., e: «fugit ad Chaldaeos» (nunc ad Turcas), e: «rebellat contra
te Amos, o rex Ieroboam»; e di Michea: «odi eum, quia non prophetat
mihi bona»; e di tanti altri: «benedixit Deo et regi», e: «contradicit Caesari»
e: «blasphemat» ecc., e: «daemonium habet» ecc. Talché può aver l’occhio
ch’io non sia come un di questi, almen come Socrate, Anassagora, Pitagora,
Seneca o Lucano, morti con tali titoli; poiché ho esaminato il Vangelio
con le leggi di tutte genti con filosofica curiosità, per assicurarmi in
questo tempo turbulento, dove«omnes profitentur verbis se nosse Deum,
factis autem negant». Però non s’ammiri Vostra Beatitudine che li signori
giudici non pônno qui veder il vero, dove «me offerunt cruciatum et clamoribus
praedamnatum», come dice san Leone, «ut non auderet Pilatus inter
tot praeiudicia illum absolvere».

Ho una gran costellazion di più contra; e dove regna il senso e non la
ragione senza dubbio le stelle vincono, exdivo Thoma, III Contra Gentiles.
Però solo Vostra Beatitudine, ch’è vicario della Prima Ragione, può giudicarmi.
La gelosia di Stato è più ansiosa e scrupulosa che la donnesca, ch’ogni
mosca fa parer cavallo e, come dice san Crisostomo, «illa regum ira sola
inextinguibilis est quam regni zelus accendit»; e poi: «zelus sapere nescit et
ira non habet consilium». E questo zelo e ira sogliono nelli regi eccitar
quelli chi cercano aggrandirsi, mostrando esser zelanti guardiani dell’innamorata
(idest del regno) del lor signore; e son creduti subbito da’ gelosi,
ch’almen per levarsi quel verme di gelosia, benché falsa, opprimeno chiunque
è nominato. Questo zelo spinse Erode e li regi ebrei e gentili ad uccidere
li profeti e apostoli e innocenti, e persequir Cristo e li filosofi, chi parlan
solo di mutanza di Stato o di republica, o di scienza migliore che
l’ordinaria, onde vivono li profeti e letterati venduti. E nelli regni cristiani
fûr occisi molti buoni e perseguitati anche da savii prìncipi per tal causa,
come Tomaso, Anselmo, Crisostomo, Atanasio, Stanislao, Lamberto, Laodislao
e altri. E solo in Roma, dopo che l’ebbero i papi, non trovo martiri.

Ond’io seguo la ragion naturale appellando. Pur quando san Tomaso
Cantuariense, fuggendo l’ira del re inglese, venne a Roma, trovò il sommo
Pontefice e li Cardinali tanto mal informati contra lui, che ci volle un pezzo
a vedersi la sua innocenza, ed era pur santo arcivescovo. Or io m’imagino
quanto mal informata è di me la Corte romana, dove mai è comparso chi
parlasse o scrivesse per me; e gli ufficiali reggii mandâro – e scrissero e vennero
– don Gioanni Sances, che mi fece aver l’orrendo tormento della veglia
nel ritorno. Però pensi Vostra Beatitudine che può esser in Roma error
grande contra me, afflitto di tanta potenza: ed è necessario ch’io venga a
Roma, ut agnoscas ovem tuam.Dunque io non consentirò a giudicio alcuno,
ché per san Tomaso non son obligato ad obedienza indiscreta, ubi non sunt
aequa iura
; e morirò martire per difender li canoni: ch’indefenso in man
della parte «nemo debet iudicari» (in Clementinis, De sententia et re iudicata,
canon «Pastoralis») e (De foro competenti) il clerico non deve dir causa in
carcere secolare o di nemico ecc., elicitive ecc.

Se non ho canoni, questo è de iure naturae, contra il qual non posso esser
astretto; poiché io vedo tanta sete dei mio sangue, ch’avendo io proposto al
Viceré dopo cinque mesi di stento – ch’il capitano chi mi tiene in fossa è
amico delli nemici e non mi lassa respirare, né che possa al Viceré avvisare,
né veder aria, né chiesa, né sacerdoti, e poi va dicendo che io non voglio
esser cristiano – di far cose mirabili, ch’importano più che tre regni come
questo, in servizio del Re – e più farei per Vostra Beatitudine, li quali capi
mi protesto vengano a lei con l’appendici – e con aver parola dal Cielo, pur
non mi vuol ascoltar il principe, né cavar di questa fossa orrenda, né darmi
da scrivere quelle cose, né di difendermi. Ma voleno ch’io parli quando essi
vogliono, quel ch’essi vogliono, quanto vogliono e a chi vogliono e come
ecc.; e voglion combatter meco con sbirri, fosse, maniglie, ferra, corde, tormenti
e boia, oscurità e fame, le quali armi io non ho contra loro; né voglion
combatter con la ragione, in cui d’ogni cento do a loro cinquanta e la mano,
e così mi obligo.

Tutto il mondo sa che l’eresia fu trovata dalli frati per fuggir la furia
secolare, venendo alle forze del Santo Officio, a cui non ci volean dare, dicendo
che ribellavano il regno per il Papa; onde fu bisogno mostrarci nemici
al Papa, benché poi li secolari con subintrodutti testimoni augumentâro
questo titolo, ut ex processu haeresis patet et ex defensionibus fratris
Dionysii et Ioannis Baptistae et aliorum
, e dalle fedi di confessori. E tutto
il mondo sa che questa rebellione è come quella d’Amos, contra cui scrissero
li sacerdoti e officiali: «Rebellat Amos, o rex Ieroboam»; e questa fu
da officiali gelosi e scommunicati figurata sopra le profezie mie e ciarle di
fra Dionisio, che volea uscir in campagna per uccider chi uccise suo zio. E
questi officiali mo, o per non parer d’aver errato, o per sostentar la bugia al
Re e per tener li premii ch’han ricevuto, occultano ogni cosa, e cercano per
giudici «executores saevitiae, non arbitros causae», come gli Ebrei, dice
san Leone. Ma nullo argomento è maggior di questo, che, sendo io infame
demonio tenuto nel foro romano, e senza aiuto umano, poverissimo e
afflittissimo, ed essi all’incontro santi e figli di Vostra Beatitudine e potentissimi,
si sconfidano litigar meco nel detto foro mio e incitano il Re e ’l
Viceré con altri pretesti a non darmi a Vostra Beatitudine per coprir la verità,
quia «male agens odit lucem», e per coprir le grazie che Dio m’ha
dato: alle quali son prudenti a non credere, ma maligni a non voler veder
esperienza.

Or com’io posso consentir a questo giudicio? Vostra Beatitudine facciami
venir a Roma; e, s’io mento circa l’innocenza o revelazioni o miracoli e
altre prove filosofiche, chi per redimer la vessazione invano donai a loro,
potrà poi rimandarmi a loro: forsi con questa condizion mi daranno. E
qui vedrà s’io dico il vero dì me e di loro; e questo sarà servizio del Re, ché
non solo i popoli son sospetti di sedizione, ma esso anche di tirannia per
questa causa: e gli è mal informato, e li sarà utile veder il vero. Che giova
a lui occider un fraticello? Ma ben giova che io faccia tante cose stupende
in sua gloria; e perdonarmi il voluto, non fatto, eccesso, ma solo per bocca
di emoli interpretato. Il Re rimette le cose al Viceré, come s’io fossi diavolo,
già ch’ha premiato li revelanti e li processanti: e tutti questi m’attoscano la
volontà del Viceré e usano ogni arte perch’io non possi indolcirla con qualche
parola di ragione; e, per mostrarsi zelanti, fan come quelli chi son pagati
a piangere i morti, che gridano più che li figli e moglie, che si doglion da
vero. Così fan questi chi guadagnano le piazze morte; e ’l Viceré, chi
non so s’è istorico o filosofo che possa esaminar questi gridi, per non parer
manco zelante del Re che quelli, non mi vol parlare, come il re Ioachimo,
chi temea di parlar a Ieremia per li satrapi.

Hanno appiccato nel molo uomini d’altra causa sotto pretesto di ribellione
– ut «cum iniquis deputatus est» – per figurarla al Re; e sotto verbo
reggio fecer confessar Maurizio mille bugie, e altri con tormenti e promesse
false: e tutti morendo si ritrattâro. Io ho fatto finger il negozio di Turchi
per non morire; ed essi lo augumentano, formando il processo di nuovo e
più volte, sempre vario, ché li revelanti diceano e sdiceano a modo di Sciarava,
ignorante e scommunicato fiscale; e ora informano monsignor Nunzio
come essi vogliono, e io non posso parlarli, se non com’essi vogliono; e diran
ch’è finita la causa, che mi condanni senza ascoltarmi. E quando mi citâro,
mi protestai che volea io defensarmi di propria bocca almen, che non mi
lasciâro articolare; e ’l Nunzio passato non mi fe’ chiamare, ché penso
non ci l’han detto, né potea; e la mia confessione è cautelata come quella
del capitolo «Dilecti filii Cistercences», De accusatione, che mi credea dichiararla
al Santo Officio, a cui va, trattando di mutamento di secoli per
profezia di rinovazion di republica; ed essi, accorti di questo, non lasciaranno,
come fecero allora, ch’io mi dichiari e difenda. Che debbo fare? S’io mi
scuso, è peggio, ché mi aggiungon catene e guai: «Erunt duo in eodem lecto:
unus assumetur»ch’è fra Dionisio, di can fatto lupo per gridi di mali
pastori – , «alius relinquetur».

Dopo sei mesi, dicendo che mi volea accusare, ottenni con arte di parlar
alli reverendissimi Nunzio e Vescovo di Caserta. Alli quali m’accusai come
– per mancanza dello spirito che trovai tra’ Cristiani molto difformi dell’antichità
e profession nostra – mi risolsi ad esaminar la fede con la filosofia
pitagorica, stoica, epicurea, peripatetica, platonica, telesiana e di tutte sette
antiche e moderne, e con la legge delle genti antiche e d’Ebrei, Turchi,
Persiani, Mori, Chinesi, Cataini, Giaponesi, Bracmani, Peruani, Messicani,
Abissini, Tartari; e com’ho con tutte le scienze, finalmente, umane e divine
assicurato me stesso e gli altri che la pura legge della natura è quella di Cristo,
a cui solo li sacramenti son aggiunti per aiutar la natura a ben operare
con la grazia di chi l’ha dati, e che son pur simboli naturali e credibili; e vidi
come Dio lasciò tante sette caminare, e la mancanza dello spirito in noi, e lo
scompiglio della natura e suo fine. Onde son fatto possente a difensar con
tutto il mondo il Cristianesmo, ché fui sentinella fin mo dell’opere di Dio: e
come la divina Maestà disegna in questo tempo far una greggia e un pastore,
e ’l giudicio dell’errore di tante nazioni, e quel che soprastà al Cristianesmo,
e li sintomi celesti e terrestri del mondo morituro per fuoco contra li filosofi
con san Pietro ed Eraclito, la difficoltà del Mondo Nuovo e dell’incarnazione
e altri articuli difficultosi, l’esamina delle profezie e miracoli veri e falsi
d’ogni setta. E com’io e altri fummo ingannati dal Diavolo, aspettando
scienza e libertà da lui, credendoci che fosse angelo e poi Dio, secondo si
fingeva; e come, dopo lunga dieta, Dio benigno condescese al mio desiderio,
che mai non fu maligno, se fu erroneo e presentai memoriale di questa,
e molti capi di cose faciende ad utile del Cristianesmo.

Nondimeno monsignor Nunzio rispose ch’io era poco umile. Non so se
l’ha fatto per provarmi; perché ben so ch’è scritto nella Sapienza: «Qui intuetur
illam, permanebit confidens»; e che l’umiltà è magnanima e non vile:
e io certo so che mai non ho bramato dignità né onori, e a tutti vilissimi
servizi ho posto mani. «Sed neque me ipsum iudico». Monsignor di Caserta
fece conseguenza ch’avendo io vagato per tante sette, e cercato li miracoli
veri e falsi e le profezie e la novità del secolo, com’egli lesse nel mio
processo in Roma, non avevo cattivato me «ad obsequium Christi»; e che
mo voglio far miracoli falsi per scampare o allungar la vita. Ben fanno a non
creder subbito; ma negarmi l’esperienza o scriver a Vostra Beatitudine che
non la voglia vedere, è un negar lo Spirito di Dio, che «ubi vult spirat», e
seguir lo spirito degli uomini: «Venite, cogitemus adversus Ieremiam et
non attendamus ad universos sermones eius, quia non peribit lex a sacerdote»ecc.

E io rispondo a Vostra Beatitudine, a cui penso che abbia così pure scritto:
che gli animi fertili di gran virtù (dice sant’Agostino) soglion mostrar alcuni
vizi per li quali si conosce che cultivati dalla disciplina son atti a gran
frutti, e a quali e di quali virtù. Così occidendo Mosè l’Egizio praeter ordinem
iuris,
e san Pietro percotendo Malco, mostravan dover esser gran prìncipi
di giustizia; e san Paolo, «aemulator paternarum traditionum» contra la
Chiesa, mostrava l’ardor che potea ricever dallo Spirito santo ad esser folgore
di quella poi – e se stesso potea metter Agostino – , come un monte
pien d’ogliastri mostra esser atto all’olive e la terra di felci alle viti. Però
io concedo che sono stato troppo curioso ad esaminar la legge cristiana, e
posso aver errato com’ogni artefice nell’arte sua, ché ’l sartore molti drappi
guasta prima che sappia ben far le vesti e il medico molti infermi uccide prima
che sia valente; ma io, stando fermo nella fede della Prima Causa, mai
non m’ostinai in opinione alcuna, perché, se così era, mi n’andava certo fuor
d’Italia e della relligione; ma Dio mi tenne mano sopra, perché mi son mosso
da buon zelo.

Vedendo ch’ogni setta difende la sua opinione a dritto e torto, e ognuna
si vanta aver miracoli e màrtiri in sua difesa, e che oggi li Cristiani han li
doni dello Spirito Santo gelati, che par che non oprino, e che si difende Cristo
non come Dio, ma com’un altro settario, e che bisogna creder o andar
prigione, né ci è chi sappia risolver l’argomenti di questa eclisse di spirito
che ci è tra noi, che ne fa parer simili all’altre genti; e vedendo che l’ostinazione
fa parer falsi li Scotisti alli Tomisti e li Tomisti alli Scotisti, e ch’ogni
principe si guida per prudenza di Stato, e così la gente tutta «ambulat secundum
carnem, ergo non potest placere Deo», dice san Paolo: «Vos autem
in carne non estis, sed spiritu, et qui spiritum Christi non habet, hic non est
eius; et si spiritus est in vobis, corpus mortuum est propter peccatum, et
spiritus vivit» ecc., e io trovo lo spirito morto e ’l corpo vivo anche in quelli
che pareno santi: però mi spinsi ad esaminar l’Evangelio con l’altre sette e
scienze, senza ostinarmi in nulla per non prender errore.

E Dio benigno, per via de flagelli e di studii, m’ha fatto oculato testimonio
della sua verità; e per grazia sua giuro che son saldissimo in fede, e che li
vizi miei fûr più buono che mal segno, e che non so s’altri meglio ch’io può
difensar il Cristianesmo, benché nella Istoria l’illustrissimo Baronio e nelle
Controversie l’illustrissimo Bellarminio siano gran colonne, li quali desiderarei
mi fosser giudici, ma non in Napoli. Dove sendo per me attoscato il
fonte della giustizia da’ miei nemici, qualunque fiume si meschia, può pigliar
quella qualità, e però non voglio beverli; e appello a Vostra Beatitudine,
che, secondo vedo, questi giudici anche ecclesiastici più tosto mi vorrebben
trovar nocente che innocente, perché – parlo secondo il voler carnale,
non razionale – non si fidano, né pônno difensarmi la innocenza, se in me la
trovano, come Nicodemo non difese Cristo. Ma, sendo colpevole, senza briga
pônno starsi e gratificarsi con questi signori.

E certo io ho bisogno d’un Ambrosio o Atanasio per far testa ad imperatori
e regi, e tanto spirito oggi non trovo; e sono scusabili per molte cause
e, per dirla, non han alcuna autorità se non di farmi male, perché son legati
al farmi bene. Non mi han potuto dar da scrivere; ché questa per altra via
scrivo con arte indicibile, se la posso a lor presentare o mandare a Vostra
Beatitudine. Né mi pôn dar avvocato ch’io li parli, come ho chiesto; e se
’l daranno, una volta mi parlerà a lor modo e via ecc.; né ch’abbia mangiar
più che diciassette tornesi, né che mi ne venga da fuori; né confessore altri
ch’uno Spagnuolo dato dalli nemici a sconfortarmi come la moglie di Iob,
e non lo vedo se non ogni anno; né andar a chiesa; né mutarmi di questa
fossa orrenda. Mostrò il capitano a monsignor Nunzio, senza me, il carcere
di fuori, nel modo ch’ogni sepoltura par buona di fuori: e li fecero creder,
senza entrare, che sia buona, e che non vada in giù, come va, ventidue gradi
e che non stillano acqua le mura, e ’l suolo sempre bagnato, ch’entra spesso
la pioggia, e sta pur sopra altre acque, e sempre ci è puzza e scuro; e Monsignore,
per non aver da referire il contrario al Viceré, il qual li disse che ’l
carcere era buono – perché pur il Viceré è ingannato in questo da l’empio
capitano – , non entrò né mandò, e disse ch’è buono.

Or, se vincon li nemici in questi manifesti mendacii e ammazzano le genti
d’altra causa per ribelli, come non vinceranno in quello ch’è occulto a
Monsignore? E se queste picciole cose non pônno li giudici, come potran
difensar la innocenza mia o la ragion ch’io averei d’esser perdonato? Ma sono
scusabili, che né anco Pilato viceré potea difender quella di Cristo, né re
Sedechia Ieremia, né David vendicar Abner e Amasa contra Ioab; perché,
dove li satrapi piglian autorità per ragion di Stato, come in questo negozio
mio, non ci è rimedio: mi calumniaranno ragioni, profezie, miracoli e ogni
verità esposta al senso. Fui per morir più volte, né mi donano medicine; e
per un secreto di magia naturale e per regole ch’io uso, sendo medico, son
vivo con l’aiuto di Dio, ma tanto debole e d’infirmità pieno, ch’ogni picciolo
tormento m’uccideria.

Però appello, ut supra: la grandezza di questi negozi cerca la presenza di
Vostra Beatitudine, a cui son mandati. Ella per segno nacque con la difficoltà
d’Ercole o di Cesare a cose grandi importanti a questo tempo; e se repugna
allo Spirito, Dio li mandarà successore. E alla persona di Vostra Beatitudine
ho cose particolari d’avvisare per suo bene e del publico; e s’io
mento ci è fuoco e forca per me; ché questo è più spedito modo d’occidermi
che la finta ribellione ed eresia. E così m’obligo, ché non parlo per allungar
la vita o fuggir morte, ma per verità e ben del publico. Io non posso qui
confessar le mie peccata, perché non sunt aequa iura; e: «Procul esto ab homine
potestatem habente occidendi» e non vivificandi, come questi giudici,
dice il savio. E s’io fossi eresiarca, potrei meritar perdono in terra per
l’util che posso fare, avendolo in Cielo; però in buona teologia non posso
risponder in questo giudicio. Né la mia morte può smorzare la setta che dicono
io aver fatto, ma li fatti nobili che propongo; «et excellens in arte non
debet mori» de iure gentium, e «facta infecta esse non possunt», dice Platone;
«ideo punitur reus non quia peccavit, sed ne amplius peccet ipse vel
alius suo exemplo». E io per li guai di sette anni ho purgato, e farò ch’altri
s’emendi e non pecchi; e ho parola del Cielo a tutta santa Chiesa e a Vostra
Beatitudine in particolare, né posso scriverle senza sua licenza. Agnosce quae
dico,
«nam non est Deus dissensionis» ecc., «nec timoris» ecc. Dio le doni
prudenza e prosperità a beneficio universale. Amen.

Die 13 augusti 1606.

Al Santo Officio in questo luogo io non voglio respondere; però, piacendole,
Vostra Beatitudine non doni questa carta al Santo Officio, s’io non
parlo a lei.

Fra Tomaso Campanella,
spia delle opere dell’Altissimo.

Dopo questo ebbi la nuova di Venezia, e scrivo la carta seguente, dicendo
ch’assai più ho da dire, e che li Veneziani, facendo risposte e libri,
saran la propria ruina, ché, schifando il giuogo del padre – poiché san Marco
è appellato da san Pietro «filius meus» – incorreran nel giuogo del signore,
idest del Turco, re d’Egitto, dove fu martirizzato san Marco. Ripigliarei
assai sensi mistici della Scrittura, s’io potessi, del fin loro; e dell’astrologia
vera, non soperstiziosa, ma di quella che è notata nella Sapienza. A l’ottavo,
dopo aver parlato della filosofia logica e istorica e morale, figlie della prima
Sapienza, dice: «Et si multitudinem scientiae desiderat quis, scit praeterita
et de futuris aestimat, scit versutias sermonum et dissolutiones argumentorum,
monstra quoque et signa antequam fiunt, et eventus temporum et saeculorum»;
e parla propterea anche dell’acquisita, perché «omnis scientia a
domino Deo est». Ma non posso.

Dico che non si faccia guerra grammaticale, risposte di libri, ché questa
solo serve per chi ci vuol credere; e essendo spento lo spirito, la littera si tira
da ognuno dove vuole: e questo è allongar la lite, il che è specie di vittoria a
chi mantiene il torto. E questo si vede in Germania: oportet hoc non dimittere,
ma aliud facere: guerra spirituale, mostrar la verità del Vangelio con la
vita buona; e che la ragion di Stato li riduce a perdere lo Stato, come a Caifa,
che se non dicea: «Expedit ut moriatur», ricevendo Cristo, l’onor di Roma
saria oggi in Giudea, e tutti Alemanni e Inglesi; anzi Ieroboam, che per
ragion di Stato fe’ li vitelli aurei, non confidendo tener il regno che Dio l’avea
dato, se il popolo andava ad adorar in Ierusalemme, e perdette lo Stato
nelli posteri, fidando più nella prudenza sua che in Dio, che ci l’avea dato; e
oso dir di Giuda Macabeo, che sempre prosperò sin che non fece tregua
con Romani, ché bastava il zelo della legge divina ad aggrandirlo sempre.

Dunque tutte le persone sante d’ogni paese Vostra Beatitudine chiami a
Roma, ché qua in Napoli ci è la beata Orsola; e quello ch’a loro è inspirato,
Vostra Beatitudine veda ed esequisca, e l’interroghi ogni poco. Io prometto
e m’obligo mostrar con miracoli tanto stupendi la verità dell’Evangelio,
che non solo li Cristiani, ma l’infedeli tremeranno e vorranno star sotto
la Sedia apostolica. Ma, se Dio ha giurato contra noi, come contra Eli, non
ciè rimedio, se non d’allungare la profezia: non si sa s’è comminatoria o
predestinatoria se non dopo l’evento. Io son certo che non burlo e che li
santi non burlâro, e di più gli astrologhi Cardano, Paolo Scaligero e Arquato,
che parlâr di questo tempo: e tali segni io vedo in cielo e in terra, che
stupirà il mondo tutto, quando li scoprirò, più che li Caldei di quel di Iosuè
e di Ezechia. Ma non ci è santo, né poeta, né istorico, né predicante, né
statuale d’ogni nazione, che non parli di questo tempo; ma noi, «quos dies
Domini ut fur in nocte comprehendet», non vedemo: però «qui non sumus
noctis nec tenebrarum, vigilemus et sobrii simus». Io li mostrarò perché
s’ingannâro li Padri antichi, e com’ora non ci è inganno, se non alli stulti.

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