Tommaso Campanella, Lettere, n. 15
A PAPA PAOLO V IN ROMA
Napoli, fine di aprile-metà di maggio 1607
Beatissimo Padre,
io di novo appello la causa mia al tribunal proprio di Vostra Beatitudine,
 perché la grandezza e numerosità delle miserie mie e la difficoltà di questa 
 importantissima causa non pônno esser
            considerate e giudicate da giudici 
 bassi e attimorati, ma solo dalla Beatitudine Vostra, ch’è luogotenente della 
            prima Sapienza e prima Ragione, Verbo eterno, alla cui giurdizione tutte le 
 creature razionali deven star soggette, e
            quelle che non ci sono per ignoranza 
 o per fraude, ci saranno secondo ha promesso l’incarnata Sapienza: e già siamo 
            in procinto di veder le miraviglie sue in questo articolo magno di tempi 
 cristiani, ma non ci è chi voglia mirarle, perché
            siamo figli delle tenebre, 
«quos dies Domini sicut fur in nocte comprehendat». Ma spero in quella Sapienza 
 a cui ho
            dedicato li studii e la vita mia, ché «nos non sumus noctis 
 neque tenebrarum» ecc. 
Io le dico che la mia causa di ribellione è come quella di Amos: «Rebellat 
 Amos, o rex»; e così di tutti profeti e filosofi
            si legge, chi fûro facelle dell’eterna 
 luce: ed essa luce, venendo a quelle tenebre, patìo le medesime calunnie, 
«quia contradicit Caesari» ecc., «se regem facit» ecc., «blasphemat» 
 ecc., «daemonium habet» ecc.; e mostrò
            morendo che con sangue e guai 
 si sigilla la dottrina celeste. Ed è vero quel che dice Salomone: «Vidi iustos, 
 quibus
            mala proveniunt tanquam opera egerint impiorum: malos autem, 
 qui ita securi sunt ac si bene egissent»; ma in questo tempo
            più necessario 
è che si vegga questo, avendolo poco innanti la illustrissima sibilla delle sibille 
 Brigida
            prenunciato: che qualchi pochi boni si trovaranno nella Chiesa 
«constringuntur sicut in cippo, ita ut exeat medulla», e
            altrove: «honor et 
 virtus prosternetur, senes et sapientes non levabunt caput, donec» ecc. E 
 parlando
            dell’Anticristo già istante, dice la fede del Mondo Novo e l’eresia 
 di Germania e la conculcazione del clero esser ultimi
            segni della sua venuta; 
 e già Lutero, suo precursore, arundine agitata, nemico di sacramenti, di 
 penitenze e di
            modestia, e d’ogni ridicola furbaria maestro, opposto a san 
 Giovan Battista, è comparso in Germania, secondo poco inanti
            avea predetto 
 san Vincenzo che tale e di tal regione di Germania avea di comparire. 
E io veggo li segni «in sole et luna et stellis», che san Gregorio scrisse che 
 solamente mancavano per vedersi l’ultimi
            accidenti della morte del mondo. 
 Ma noi stiamo «sicut in diebus Noë comedentes et bibentes»; e perché di 
 queste cose
            parlai, fui tenuto per ribello, riprendendo li scommunicati officiali, 
 li quali, sendo tutti quasi macchiavellisti, si
            pensano che la religione sia 
 arte di Stato e che ogni predicante e profeta cerca regni e Stati umani: però 
            dall’animo loro han misurato il mio, e volesse Dio che non misurassero con 
 la medesima misura il vostro, anzi,
            dell’apostoli stessi. E in vero fummo forzati 
 a mostrarci eretici per non parere d’essere mandati da prelati a ribellare,
            
 come diceano l’officiali scommunicati: e perché si gridò in Seminara dalli 
 clerici che ruppero li carceri secolari
            per liberar un clerico: – Viva il Papa!, 
 e fra Dionisio diavolo, per uccidere quelli ch’aveano ucciso suo zio, concitava
            
 gente d’uscir in campagna e allegava li pronostichi miei delli terremoti 
 che poi si videro in Calabria – e ognuno mi
            dava gran credito – e della ruina 
 della provinzia che predissi, e fu così. 
Pertanto, santissimo Padre,– sendo stato io otto anni in una fossa dove 
 non vedo cielo né luce mai, sempre inferrato, con
            mal mangiare e peggio 
 dormire, e con dolori di testa che casco spesso morto, e d’orecchie e di petto, 
 oltre li
            tormenti asprissimi di corda e dui polledri, e quaranta ore di veglia, 
 con funicelli sin all’ossa e sedendo sopra un
            acutissimo legno, chi mi 
 secâro più [che] due libre di carne, e più che vinti di sangue in diverse volte 
 m’uscîro, e
            sanai miracolosamente, e con tanta pazienza e misericordia Dio 
 mi tenne vivo, e per pazzia dove non giovò la sapienza, e
            con speranze divine 
 mancando tutte l’umane,– devo oggi dopo tanta penitenza esser ascoltato 
 dalla benignissima madre
            santa Chiesa e da Vostra Beatitudine. 
Ci son li canoni De sententia et re iudicata, in Clementinis, canon «Pastoralis», 
 dove in tanta
            causa di ribellione dice che, quanto è più grave, più difensioni 
 si devono dare e fuor delle mani della parte; e l’istoria di Tieberga 
 nel Decreto e di
            Caterina d’Austria negli Atti di Clemente VII, ch’appellâro 
 con esser regine da quelli giudici, ché
            stavano in paese soggetto alla parte, e 
 pur fûro intese. E io chi son poverello, non solo nel paese della parte, ma 
            sotto le branche, sotterrato vivo, con la bocca serrata, con lo Re ingannato 
 da quelli chi s’acquistâro la mercede
            dell’iniquità e il pane del mendacio 
 con questa favola, e non mi lasciano mostrare li libri chi componea al Re 
–
            cioè la Monarchia di Spagna e ’l Discorso alli prìncipi d’Italia, che non
            l’impediscano 
 e come s’hanno a guardare, e la Tragedia di Scozia– e poi per la 
 Chiesa di Dio
            tanti libri contra tutte le sette del mondo e contra Lutero e 
 contra macchiavellisti: e pure Vostra Beatitudine non mi
            lascerà che mi difenda? 
 O santo Padre, la logica della Sapienza incarnata è questa: «a fructibus 
 cognoscetis eos»; e
            perché dall’ombre dell’arbor mio giudicano di 
 me, e dalle parole di nemici, e non dalli frutti, dall’opere mie? Di più,
            perché 
 m’ascoltino secondo la legge, ho promesso fare al Re e a santa Chiesa 
 cose mirabili, ch’a Vostra Beatitudine
            saran venute in mani, e desidero e 
 prego le veda; e pur non mi vogliono ascoltare. 
Dunque non zelo del Re li move, ma timore che il Re non sappia la grande 
 furbaria ch’usâro in Calabria: fingendo di
            salvarla, la spopolâro, la sacchiâro, 
 la compostâro: e di questo fatto poi ricevettero premii dall’ingannato 
 re
            Assuero li Aman, li Seiani, li Gaini. Dunque Vostra Beatitudine, 
 facendomi ascoltare, farà al Re grandissimo beneficio non
            solo per quel 
 che prometto io a Sua Maestà, ma perché apra gli occhi, restituisca l’onor 
 alla provincia e li
            latrocinii; e quelli denari ch’ha dato alli lupi, pensando 
 che fossero mercenarii, ricuperarebbe. E queste verità non si
            pônno conoscere, 
 s’io non vengo a Roma: del che molto tremano e persuadeno al Re per 
 ragion di Stato ignorantissima,
            che non mi lasci venire; ed è perché, s’essi 
 avessero un punto solo di ragione, sapendo che son tenuti per figli di santa
 Chiesa e potentissimi di danari e di favori, e io tenuto per diavolo e poverello 
 e solo, non dubitariano del
            tribunal romano; ma sanno che non ci n’è, 
 ragione in loro, «et qui male agit, odit lucem». Però
            questi satrapi tirano 
 gli altri satrapi al parer loro, e voglion combatter meco con ferri, fosse, boia, 
 sbirri,
            tormenti e malanni: queste armi io non ho, ma solo la ragione: e d’ogni 
 cento loro darò cinquanta e la mano, e litigarò e
            li vincerò con queste 
 armi cristiane. 
O santo Padre, tutta la vita mia fu studi reconditi e di verità naturali e 
 politiche e divine, e sempre piena di guai e di
            persecuzioni: e sempre con 
 pazienza sono stato intra la santa Chiesa, benché mille volte fui invitato 
 d’andar in
            Francia e in Germania, e da Veneziani in Turchia con l’ambasciatore 
 per persuadere al Turco un gran negozio; e mai non
            l’ho fatto per lo 
 gran desiderio e gioia ch’ho delli studi miei. E già si vede vero quel che 
 dice l’Ecclesiastico della Sapienza che fa alli suoi seguaci: «Timorem et probationem 
 et metum inducet super illum et cruciabit illum in tribulatione doctrinae 
 suae, donec innotescant
            cogitationes suae et credat animae suae», e poi 
«thesaurizabit super illum». Io passai queste pene per amor della
            Sapienza, 
 e oggi ho voluto vedere il tesoro che fa di me, l’ho pregato Dio sa come. 
 Vidi, intesi e conobbi che nella
            Chiesa sono li doni di Cristo: sapienza, profezia, 
 interpretazioni, curazioni, miracoli e altri; ma stanno sepolti per la
            incredulità 
 e perché noi ci servimo di Cristo e non servimo a Cristo. 
Ed ecco che li laici ci pagano per giusto giudicio divino di questa stessa 
 moneta, ché si servono della Chiesa, ma non
            servono alla Chiesa. Or io dissi 
 a questi signori giudici, ch’almeno, per mostrar cose mirabili d’atterrare 
 questo
            macchiavellismo e di resuscitare li doni e la morta fede tra catolici 
 e per conversion d’eretici, mi lasciassero ch’io
            parli e venga a Roma; e tutti 
 si burlano, «qui terrena sapiunt»; li giudici tremano, che non m’hanno potuto 
 dar da
            scrivere a Vostra Beatitudine, né mutar di carcere, né li sacramenti 
 stessi: e io in parte li scuso, ché qua ci vuole
            Crisostomi, Ambrosi, 
 Atanasi, Tomasi a far testa a tanta possanza. Se ben con belli modi tutto 
 si patria fare. E mo
            io stavo piangendo com’Elia sotto il iunipero, dimandando 
 la morte; ed ecco venir questo Angelo samaritano, dopo che mi
 sprezzâro li leviti e li sacerdoti e «me tradiderunt in manus tribulantium 
 et in animam inimicorum meorum» – questo,
            dico, mosso da spirito di sapienza 
 e discrezione, leggendo le cose mie non volgari, e forse in spirito 
 scritte più
            che in lettera,– «et vult alligare vulnera mea». O beato Padre, 
 ascolti Vostra Beatitudine questo
            meschino, se non ho parlato mai con Giudei 
 né con Turchi né con eretici che non l’avessi fatti o Cristiani o mutar 
            quella ostinazione, e poi operò Dio, e li posso dar lista di più che cento convertiti, 
 e son nato a questo. E che giova
            ammazzarmi, se posso far bene e 
 non son tutto inutile e fracido membro? 
Platone, nonché san Tomaso, conobbe che non deve morire nella republica, 
 chi può giovare e io che mal ho fatto? Se non che
            le parole altrui 
 m’affliggono, «qui exierunt ex nobis, sed non erant ex nobis»; ma: «duo 
 erunt in eodem lecto, unus
            assumetur, alius relinquetur». Nullo di miei parenti 
 né di suoi fûro Turchi né fuggîro, se non «filius perditionis»; e io sto, 
 come Ieremia, «profigus ad Chaldaeos» ecc. Di più, io non trovarò mai settario 
            al mondo che non lo convinca della sua falsa fede, e subito lo riduco 
 alla legge naturale della prima Ragione; e, fatto
            questo, disputo sopra li precetti 
 di Cristo morali e ceremoniali, e monstro con viva magia divina che 
 sono secondo
            la legge della natura, e scopro Cristo per prima Ragione, governatrice 
 amorosa, che, per ragion di providenza e d’amore
            che ne porta, si 
 dovea incarnare e farsi a noi accessibile, com’era inaccessibile prima, e darci 
 legge certa di
            vivere o morir bene. E come ho convinto me, convinco gli altri: 
 e questi ultimi segni son per far toccar con mani la ruina
            dell’epicureismo 
 e peripateticismo, che regna ed eterna il mondo; e pur non sono inteso. 
 Questo è ben peccato mio, ma può esser anche del commune: dopo che 
 san Geronimo e san Gregorio si scaldâro
            contra i vizii del clero, venne il 
 flagello di Macone, la cui legge consiste in favole e sporchezze, né può uomo 
            sentirla senza ridere; e pur questo è giudicio di Dio che sia creduto, non 
 sapienza sua: «tradidit nos Deus in ignominiam
            et illos in reprobum sensum». 
 Dopo si scaldò Beda e san Bernardo, non fûro creduti, e perdemmo 
 Terra Santa e
            l’Imperio orientale. Poi Brigida e Caterina e altri santi; fin a’ 
 poeti misero la bocca contra noi. E non credendo, venne
            Lutero e Calvino, 
 chi fan l’uomo bestia, Dio causa del male, che ne dice: – Fate bene – e poi 
 c’inganna e ne fa fare
            il male per tradirci. E pur la gente crede a questo dio 
 traditoresco calviniano e che ‘l papato sia anticristiano, perché
            il sole della 
 Chiesa è eclissato. 
Siamo cristiani per parentato e commodità. Siamo ridutti ad Italia e Spagna: 
 e qui regna il Macchiavello e la mortalità
            dell’anima, l’eternità del mondo, 
 la providenza sproveduta di fisici e astronomi, contra li quali io m’armai; 
 ed
            ecco m’hanno vinto e posto nel lago di Ieremia. E voi, santissimi, non 
 volete ascoltarmi: «Quare persequimini me sicut
            Drus?»: «nunquid obliviscetur 
 misereri Deus?» Et vos, Dii, cur obliviscimini? Quali bolle In coena 
 Domini e quali canoni v’osservano i laici? Io non mi faccio tal che possa 
 rimediare;
            ma forse potria, quia «stulta et infirma elegit Deus» ecc., e: «inventus 
 est pauper et salvavit
            eum» ecc. Io son tanto inamorato della gloria 
 d’Italia – e vedendo ch’ha perduto la signoria del mondo e che si serba il
            
 suo splendore solo nel papato – che s’io fossi epicureo, per ben della patria, 
 come buon filosofo, son votato al
            sacrificio e martirio; e scrissi di ciò tanti 
 libri che Vostra Beatitudine li saprà; e s’io parlarò a questo santo senato,
            
 farò vedere cose di grande amore e stupendo, se non saranno di sapienza 
 stupenda. So che non posso esser creduto, ma
            mi doglio che non son lasciato 
 a mostrar la prova: il primo è prudenza, il secondo malignità di nemici 
 communicata
            agli amici. 
Il fuoco non contrastato nè soffiato non s’accende: il contrasto e guai 
 di màrtiri accesero il fuoco celeste nella Chiesa:
            splendevano i miracoli, 
 per ognuno chi moria ne nasceano mille Cristiani. Dunque li guai presi 
 di buon cuore fan
            crescere il seme divino; ma poi il mondo cedette al clero 
 e ci donò la robba e gli onori, ed ecco smorzato lo spirito
            quasi, raffreddata 
 la carità e ridotto il Cristianesmo a dui angoli della terra, che prima 
 era per tutto il mondo. E
            chi parla dell’antico spirito è burlato e si tiene 
 per favola il passato, mentre si nega, s’atterra e si burla il
            presente: ed ecco 
 piange la santa Chiesa, come dice Brigida e san Bernardo: «in pace amaritudo 
 mea amarissima». La
            ragion di conservar lo Stato, la prudenza terrena 
 l’ha ridutta a niente. Io, volendo dolermi di me, mi doglio della
            republica 
 tutta, ché son membro suo, e lo farò vedere: «et quare persequimini 
 me sicut Deus?» «Si expandimus manus
            nostras ad Deum alienum, nonne 
 Deus requirat ista? Ipse enim novit abscondira cordis»; ma a voi fu detto: 
«A fructibus cognoscetis eos»;
            «sed, si dealbatae fuerint manus meae et 
 vestimenta sicut nix, adhuc sordibus intingitis me?» Lasciatemi mo stare, 
            ché son, mentre vivo, di santa Chiesa; siate buoni protomedici e poi mi 
 contento morire; ma che utile è macchiar la
            religione mia, la provinzia e ’l 
 Re stesso con l’infamia e sangue mio inaudito? Li cerco per giudici l’illustrissimi 
            e reverendissimi Bellarmino e Baronio, colonne e luminari di 
 santa Chiesa, chi per tutto il mondo mandano lo splendor
            loro; lascimi Vostra 
 Beatitudine appoggiare a queste colonne e nel lume loro scoprirsi la 
 verità o bugia mia. Non
            dico il signor illustrissimo e reverendissimo Ascolano, 
 stella di pura dottrina e di fervido zelo, perch’è del mio Ordine,
            ma 
 questi signori; perché Vostra Beatitudine veda che io non fuggo il giudizio, 
 ma l’ingiustizia. 
E così supplico, mi protesto e dico come so e posso, da questa fossa infelice, 
 nascostamente, e prego che non si sappia: se
            non, mi aggiongono più 
 flagelli, e questi leopardi armati, che si moveno a misericordia di lasciarmi 
 scrivere e
            gridare alli miei pastori, come pecora in man del lupo, pateriano 
 assai. O santo Padre, li lupi che mi tengono in bocca mi
            concedeno tanta 
 misericordia per istinto miracoloso; e voi, santi pastori, non lasciarete che 
 Dio metta nel vostro
            petto una scintilla di misericordia per la vostra pecorella? 
Absit. «Dominus mortificat et vivificat». Non posso pensare chi vi 
 donò potestà di mortificar solo
            e non di vivificare ancora: due son le chiavi. 
«Quis es tu, ut timeas ab homine mortali?» fu detto a Vostra Beatitudine in
            
 Isaia. Se usa la sua potestà bene, non potrà l’inferno né il mondo tutto levarle 
 un capello, quia«omnes numerati sunt»; ma se usamo l’arte di Stato e 
 del mondo, certo il mondo ne vincerà, perché «filii huius
            saeculi sunt prudentiores 
 filiis lucis»; e tanto più che v’hanno invitato al gioco loro, dove 
 sanno che pônno
            guadagnare, come li marioli nelli dadi falsi. Scrivo tremando, 
 e altre lettere mandai: se vol vedere, veda; se non,
            facciamo mostrar la 
 prova: l’inchiostro non può significare il fervor de l’animo mio dopo che ho 
 visto e toccato in
            questi guai li misteri della fede e le cose celesti. Dio sia 
 quello che mi conceda alli piedi di Vostra Beatitudine o
            morir come Anania 
 e Safira, o cader come Simon Mago, s’io mento, overo dedicarmi al martirio 
 con la sua benedizione;
            ché quanto scandalo s’è fatto per me, tanto maggior 
 edificazione ne resulti, secondo l’ordine della Sapienza eterna, che
            deve 
 stare nel sacro petto del suo vicario. Amen. 
